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Banche Usa sottoterra, ma anche l’Europa ha la febbre

Partiamo dal “pezzo forte”. Il presidente Usa Joe Biden è apparso sugli schermi per “rassicurare i contribuenti” e gli investitori. Ai secondi ha garantito che il sistema bancario Usa “è solido”. Ai primi che eventuali – probabili – salvataggi non saranno fatti con soldi pubblici, ma con i soldi delle stesse banche (i “fondi di garanzia” stanziati per eventi come questo).

A tutti ha promesso che «I vostri depositi saranno lì quando ne avrete bisogno». Il che è un po’ più problematico, perché i depositi oltre i 250.000 dollari non sono in genere coperti da un’assicurazione (in Europa lo sono tutti, ma solo fino al limite dei 100.000 euro).

Cifre che del resto difficilmente vengono lasciate lì a dormire nei conti correnti, ma vengono investite preferibilmente in prodotti finanziari, azioni, obbligazioni di stato o corporate.

E qui inevitabilmente, Biden ha dovuto ricordare la prima regola aurea del capitalismo (dopo lo sfruttamento): Questo tipo di investitori «Non saranno protetti. Sapevano di assumersi un rischio e quando il rischio non ripaga, gli investitori perdono i loro soldi. È così che funziona il capitalismo».

Biden, in definitiva, ha provato a giocare la parte del “whatever it takes”, in stile Mario Draghi di dieci anni fa, ma ha dovuto anche limitare il “whatever”. E quindi il messaggio gli si è sgonfiato già mentre usciva dalle labbra. Se l’uomo teoricamente più potente del mondo  – si scherza, in qualche misura – si muove per “rassicurare”, vuol dire che la situazione è grave… E tutti se ne accorgono.

Wall Street, ieri sera, negli indici che comprendono le società più grandi, ha in definitiva portato a casa la pelle (-0,28% il Dow Jones, +0,4 il Nasdaq). Ma se si guarda al comparto bancario è un bagno di sangue. Goldman Sachs -3,7%, JPMorgan -1,8%, Citigroup -7,4%, Bank of America -5,8%, Wells Fargo -7,1%. Ma queste, le più grandi, sono quelle che hanno retto meglio.

Alcune banche regionali sono letteralmente crollate, come First Repubblic -61,8%. Western Alliance Bancorp ha perso il 47%, Metropolitan Bank il 43,7% e molte altre banche regionali sono scese di oltre il 20% tra cui Key, First Foundation, Comerica, Zions Bancorp.

Tutte queste banche corrono gli stessi rischi, in proporzione alla quantità di titoli di stato Usa tenuti in portafoglio, ma soprattutto in proporzione al “grado di fiducia” della clientela. Se il numero dei correntisti che si precipita a ritirare i propri soldi cresce più di un certo limite, diventa impossibile frenare la caduta. E i valori di borsa stanno anticipando proprio questa situazione per moltissime banche.

La diagnosi non può essere falsificata: il sistema bancario non è solido, checché ne dica Biden o chiunque altro.

La caccia ai colpevoli, come sempre, si guarda bene dal centrare i meccanismi fondamentali del sistema, preferendo trovare qualche capro espiatorio di seconda fila.

Dall’Europa – nell’ennesimo tentativo di tranquillizzare – si punta il dito contro la “mancanza di controlli” caratteristica degli stati Uniti, mentre qui sarebbe tutto molto più regolato.

Ma chi bazzica i movimenti del mercato sa che il controllo più feroce viene fatto non da agenzie statali, ma da quelle private che curano i rating e danno pagelle di affidabilità o meno a qualsiasi titolo sulla Terra.

Qui i problemi “di sistema” vengono fuori chiaramente. La Silicon Valley Bank, fallita e scomparsa venerdì scorso, aveva ricevuto da Moody’s il massimo dei voti: AAA. Proprio la stessa valutazione che aveva Lehmann Brothers (ops…) il giorno che ha chiuso i battenti, nel 2008.

Non che siano cretini, ma usano criteri di valutazione profondamente “ideologici”. Ossia considerano “pericolosi” alcuni comportamenti nel business che magari, non lo sono affatto, mentre giudicano “ottime” prassi speculative decisamente ad alto rischio.

Ovvio che in questo caso le agenzie di rating non vedano arrivare la tempesta neanche quando ci sono ormai dentro….

In Europa le cose non vanno affatto meglio, nonostante lo sforzo di autorità e media specializzati. Pesa, tra le altre cose, l’inaffidabilità palese delle misure usate per quantificare il tasso di inflazione.

Il caso dell’Olanda ha del clamoroso. L’istituto di statistica nazionale ha “sopravvalutato” il tasso a causa di un calcolo contenente errori da principianti (sono stati considerati solo i contratti dell’energia nuovi, a prezzo più alto, mentre invece sono stati esclusi, per assenza di dati, quelli più vecchi, con tariffe fisse definite a prezzi più bassi).

Questa figuraccia ha fatto emergere due problemi ancora più grandi: in una situazione simile si ritrovano anche Spagna, Francia e Italia, le cui economie hanno una dimensione decisamente superiore a quella di Amsterdam. Ma non si riesce neanche a capire di quanto sia stato l’errore in questi altri casi.

Ma come tutti sanno il calcolo del tasso di inflazione di tutta Europa serve soprattutto alla Banca Centrale Europea per definire le proprie manovre sul tasso di interesse base. Se il calcolo è sbagliato, prenderà (o ha preso) decisioni sbagliate. Peggio: non sapendo neanche quantificare esattamente il margine di errore, non può neanche quantificare la correzione “appropriata”.

Il tutto in una situazione in cui l’aumento dei tassi di interesse ha scarsi margini di incidere su un aumento dei prezzi causati da “choc esterni” (prezzi dell’energia in seguito – o ad accompagnamento – della guerra in Ucraina e delle sanzioni).

In queste mani stiamo. E non ci sentiamo affatto rassicurati…

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