Negli ultimi due anni, siamo intervenuti spesso sul tema del ritorno dell’inflazione, sottolineando le sue conseguenze drammatiche per i salari reali, ossia la nostra capacità di acquistare beni e servizi.
Inoltre, abbiamo sottolineato l’impatto asimmetrico dell’inflazione sulle famiglie, segnalando un impatto molto più pesante per quelle più povere. A
bbiamo inoltre evidenziato che le contromisure adottate nel contesto europeo – i sussidi a famiglie e imprese da parte dei governi e il rialzo dei tassi da parte della BCE – siano entrambe molto poco efficaci rispetto al contenimento della dinamica dei prezzi, ma soprattutto siano caratterizzate da un forte connotato di classe, in quanto rispettivamente destinate a spianare la strada al ritorno dell’austerità e a generare disoccupazione di massa pur di contenere la corsa dei prezzi.
Padrone ladrone
Quello che vorremmo provare a raccontarvi oggi è un altro elemento agghiacciante del mondo in cui ci hanno costretti a vivere queste sanguisughe dei padroni. Un elemento di cui si parla stranamente molto poco e che potremmo sintetizzare dicendo che l’inflazione cui stiamo assistendo è provocata in larga parte dalla crescita dei profitti.
Esatto, una vera spirale “prezzi-profitti-prezzi“, cioè tutto il contrario di quella (non verificata) “rincorsa fra salari e prezzi” con cui vengono zittite le richieste dei lavoratori che vorrebbero proteggersi dall’inflazione attraverso un meccanismo di indicizzazione automatica dei loro salari.
Dai dati che stanno emergendo, infatti, si evince chiaramente che la crescita dei margini di profitto nei diversi settori economici è stato un elemento cruciale di un’inflazione così persistente.
Ad alcuni di voi potrebbe sembrare assurdo o assolutamente irragionevole, ma in una fase di crisi sistemica così acuta come quella provocata dalla pandemia prima e dalla guerra alle porte dell’Europa poi, i padroni e in particolare le grandi multinazionali non hanno esitato a sfruttare la situazione a proprio vantaggio.
Da principio furono le compagnie energetiche. I profitti delle principali società energetiche occidentali sono più che raddoppiati tra il 2021 e il 2022, raggiungendo i 219 miliardi di dollari, un record dalla Grande Crisi Finanziaria del 2008.
Abbiamo già parlato del tentativo dei governi europei di tassare, in maniera del tutto insoddisfacente, questi profitti di guerra. Non solo l’aliquota applicata – il 10% prima e il 25% poi – è del tutto inadeguata, ma permangono dei dubbi sull’effettivo pagamento di queste imposte da parte delle compagnie Oil & Gas.
Ancor più rilevante, l’aumento esponenziale dei profitti non si è limitato al settore energetico, ma ha riguardato anche quello farmaceutico, con le principali aziende produttrici dei vaccini contro il Covid-19 che hanno fatto registrare margini di profitto clamorosi, affrontando ciononostante aliquote d’imposta effettiva ridicole a livello internazionale.
Ma se la questione si fermasse qui, i più puntigliosi potrebbero obiettare: “in fin dei conti, dopo una pandemia e una guerra che ha coinvolto il principale fornitore di gas dell’UE era facile prevedere un aumento dei profitti in questi specifici settori.”
Il punto è che l’aumento generalizzato dei profitti ci racconta una storia più semplice e più amara: i padroni, in tempi normali e in tempi di crisi, fissano i prezzi dei loro prodotti partendo dal costo delle materie prime e del lavoro e aggiungendo il loro margine di profitto.
In un contesto di prezzi fortemente variabili come quello in cui ci siamo trovati a partire dalla fine del 2021, essi non solo, però, hanno scaricato tutto l’aumento dei costi di produzione sui consumatori, ma hanno avuto buon gioco ad aumentare i prezzi in misura più che proporzionale rispetto all’aumento dei costi di produzione, aumentando quindi il loro margine di profitto e nella ‘speranza’ che nessuno ci facesse e faccia caso.
Il risultato è che, come ormai apertamente riconosciuto anche dalla BCE, il contributo dei profitti alla dinamica inflazionistica è esteso e coinvolge quasi tutti i settori economici.
Detto altrimenti, in risposta all’aumento dei costi energetici, le aziende – soprattutto quelle di grandi dimensioni, che possono contare su un notevole potere di mercato – hanno sfruttato le aspettative diffuse di inflazione non solo per mantenere costanti i propri margini di profitto, ma per espanderli in maniera vergognosa.
In altre parole, come dicevamo prima, molte aziende hanno alzato i propri prezzi più di quanto sono aumentati i propri costi.
Se prendiamo il caso dell’industria alimentare, le grandi multinazionali del settore – Unilever e Nestlè – hanno riportato margini di profitto molto elevati e in crescita, che sono il frutto di un innalzamento dei propri prezzi ai venditori al dettaglio – rispettivamente pari all’11% e all’8% – di molto superiore all’aumento dei costi energetici.
Per quanto riguarda l’economia italiana, l’inflazione che sarebbe dovuta verificarsi in seguito al forte aumento dei prezzi energetici internazionali sarebbe dovuta essere pari al 3,5%-4%.
Se prendiamo il biennio 2021-2022, l’inflazione accumulata misurata dall’IPCA è stata invece pari al 10,5% secondo i dati ISTAT.
Da un punto di vista di mera contabilità nazionale, ciò significa che la differenza è riconducibile quasi in toto all’aumento dei profitti, considerando che i salari nominali sono rimasti praticamente fermi.
Sono numeri agghiaccianti se calati nel contesto del disastro sociale italiano, segnato da disoccupazione, povertà, precarietà e dalla crescente impossibilità di accedere a servizi essenziali, a partire dal Servizio Sanitario Nazionale, ormai al collasso dopo decenni di tagli e austerità.
Le spiegazioni ufficiali dell’inflazione
Come abbiamo visto, i dati ci mostrano che l’aumento dei profitti delle imprese è un pezzo importante della storia dell’inflazione, ma stranamente sparisce quindi vengono presentate le varie spiegazioni ufficiali dell’inflazione.
Alcuni hanno sostenuto che l’origine dell’inflazione andava rintracciata nella guerra in Ucraina iniziata nel febbraio 2022. Si tratta di una tesi un po’ troppo semplicistica in quanto, pur senza negare il contributo della guerra, la dinamica dei prezzi energetici e delle materie prime ha una storia più lunga e articolata.
Queste merci sono considerate a ragione le prime responsabili dell’ondata inflazionistica e risultano in forte ascesa almeno a partire dalla metà del 2021, cioè ben prima del surriscaldarsi del conflitto ucraino.
Una spiegazione più convincente del fenomeno inflazionistico combina diversi fattori, la cui interazione è stata in grado di invertire la pluridecennale stagnazione dei prezzi. Innanzitutto, la maggior rigidità della produzione internazionale di merci e del sistema logistico globale rispetto al grande rimbalzo della crescita nel contesto post-pandemico: dopo i lockdown e le difficoltà delle catene approvvigionamento globali durante la pandemia, il lato dell’offerta non è stato in grado di tenere il ritmo della ripresa globale della domanda nel corso del 2021.
In secondo luogo, la transizione ecologica e il passaggio a un sistema energetico globale guidato dalle rinnovabili potrebbe essere inerentemente inflazionistico. Il tentativo di ridurre in modo sostenuto l’utilizzo di carbone, petrolio e poi gas priverebbe le compagnie energetiche fossili di un adeguato incentivo economico per investire in nuovi siti di estrazione e raffinazione di fonti fossili – che ancora oggi rappresentano più dell’80% del mix energetico globale.
In altre parole, i profitti previsti sarebbero troppo bassi rispetto agli investimenti necessari a garantire il funzionamento degli impianti. L’esito di questa situazione potrebbe essere una riduzione della produzione globale di fonti fossili a fronte di una domanda ancora in crescita e dunque un inevitabile aumento dei prezzi di queste fonti energetiche (che tra l’altro si ripercuote anche in alcuni segmenti delle filiere rinnovabili).
Infine, la crescente tensione geoeconomica internazionale ha spinto Stati Uniti ed Unione Europea a introdurre misure di politica industriale finalizzate a riportare parte della produzione manifatturiera, delocalizzata negli ultimi 50 anni nella regione asiatica a guida cinese, se non nel territorio nazionale almeno verso territori considerati amici.
Questo processo è molto lontano dal realizzarsi se si guardano i dati più recenti a disposizione e investe prevalentemente i settori industriali considerati strategici – i semiconduttori, le filiere rinnovabili, l’idrogeno.
Tuttavia, non è difficile immaginare che anche questa componente sia strutturalmente inflazionistica, dal momento che le delocalizzazioni erano state guidate da un principio di efficienza meramente legata alla riduzione dei costi del lavoro: il salario di un lavoratore taiwanese impiegato nella produzione di un microchip di ieri è inferiore a quello che percepirà un lavoratore statunitense o tedesco domani.
Infine, fra le cause dell’inflazione torna periodicamente l’accusa alla BCE di essere stata “troppo permissiva” negli anni precedenti, con politiche monetarie troppo espansive che avrebbero prodotto un eccesso di liquidità che avrebbe contribuito all’insorgere dell’inflazione. Un’idea che non regge né in teoria né in pratica, ma ha il solo scopo di giustificare la stretta monetaria della BCE di quest’ultimo anno (ci torneremo da qui a poco).
Capire a cosa è dovuta oggi l’inflazione è ovviamente la precondizione per affrontarla. Chi è che non ha risposto all’appello delle cause dell’inflazione presente, fin qui elencate? I salari.
I salari non c’entrano
Nonostante ciò, e se tutto quello che vi abbiamo raccontato non bastasse, infatti, ci dobbiamo pure sorbire il Governatore della Banca d’Italia e l’esercito di leccapiedi professionisti al seguito con la loro filippica relativa ai rischi di una spirale prezzi-salari, in perfetta simbiosi con la BCE che alimenta lo spauracchio dei lavoratori che cercano di difendere il proprio potere d’acquisto chiedendo aumenti salariali.
Per prevenire questo, la BCE aumenta i tassi allo scopo di causare una contrazione economica, far aumentare la disoccupazione e quindi far passare la voglia ai lavoratori di lottare per aumenti salariali, raggiungendo il ridicolo quando la Lagarde cita in continuazione (14 volte, per l’esattezza) i salari, ma evitando anche solo di evocare la questione dei margini delle imprese.
I dati però non mentono. Se le cause del ritorno dell’inflazione sono complesse, le responsabilità rispetto all’aumento spropositato dei prezzi sono da ricercare nell’avidità dei padroni e in un sistema economico che consente l’interesse di poche sanguisughe di prevalere sul benessere e la felicità della collettività.
Ci hanno convinto che questo ordine delle cose sia naturale e immodificabile, la realtà è che le alternative ci sono eccome. Se ci fosse la volontà politica per farlo, il controllo pubblico dei prezzi sarebbe una prima soluzione concreta ai problemi provocati dall’inflazione alle lavoratrici, ai lavoratori e alle fasce più fragili della popolazione. E sarebbe implementabile immediatamente, nel breve periodo.
Allo stesso modo, la proprietà pubblica delle aziende strategiche – nel settore energetico e non solo – e il ritorno di queste aziende a obiettivi in linea con l’interesse pubblico è indispensabile per esercitare un controllo effettivo sui profitti nei settori strategici e per avviare quella politica di autonomia energetica che, nel lungo periodo, rappresenta la prima e indispensabile politica industriale per mettere al riparo le nostre economie dagli shock inflazionistici importati dall’estero.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/
Foto di Patrizia Cortellessa
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