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Se persino FMI e Bankitalia si preoccupano della frammentazione del mercato mondiale…

Mentre in questi giorni vengono pubblicati due dei quattro capitoli dell’annuale World Economic Outlook del FMI, alcune notizie importanti sulle prospettive dei prossimi anni ci confermano di vivere in una crisi generalizzata. E che le azioni di questa classe dirigente occidentale non solo non sono una risposta, ma sono un aggravante delle difficoltà che viviamo.

La direttrice generale del FMI, Kristalina Georgieva, ha tenuto un discorso preparatorio degli Spring Meetings, gli incontri primaverili dell’istituto di cui è alla guida e della Banca Mondiale, che si avranno in questa settimana. Le previsioni di crescita globale si attestano al 3% da qui ai prossimi cinque anni, il valore più basso dal 1990 a oggi.

Il primo motivo è individuato nel contrasto all’inflazione e nell’instabilità finanziaria, strettamente connessi. Infatti, la Georgieva invita alla flessibilità le banche centrali, che devono essere pronte a garantire liquidità quando necessario, allentando la politica degli alti tassi di interesse.

L’economista bulgara non nasconde come siano questi ultimi a pesare sulla domanda, sia negli USA sia nella UE. In circa il 90% delle economie avanzate si prevede un ulteriore calo del tasso di crescita, già previsto al di sotto della media degli ultimi due decenni.

Non viene dissimulato nemmeno cosa, dopo la crisi del 2007-2008, ha retto il settore bancario, che “in un contesto di tassi più alti e scarsa liquidità [ha mostrato] problemi di gestione del rischio in specifiche banche, così come carenze sulla vigilanza”, con ovvi riferimenti agli ultimi fallimenti e a Credit Suisse. Le banche hanno tenuto grazie agli ingenti trasferimenti monetari.

Ciò che però risulta più interessante delle dichiarazioni appena rilasciate è la preoccupazione palesata per la frammentazione del mercato mondiale.

La globalizzazione e i suoi margini di sviluppo si sono infranti sulla preminenza dei concreti antagonismi che lo stadio imperialistico del capitale porta con sé, e l’assestarsi di una nuova fase storica non sarà indolore.

I nostri studi mostrano che i costi di una frammentazione commerciale potrebbero raggiungere il 7% del pil globale. […] E la frammentazione sui flussi di capitali e sugli investimenti esteri darebbe un altro colpo alle prospettive di crescita globali”, ha detto sempre la Georgieva.

Le sue parole fanno eco al capitolo dell’Outlook già pubblicato, proprio sugli effetti di questa dinamica sugli investimenti diretti esteri.

Anche da noi, in Italia, voci autorevoli hanno cominciato a gettare uno sguardo critico su questo emergere di aree economico-politiche in contrasto. All’evento “Geopolitica, geodemografia e il mondo di domani”, svoltosi a Firenze lo scorso 5 aprile, il direttore generale di Bankitalia, Luigi Signorini, ha fatto un intervento dal titolo “Globalizzazione e frammentazione.

In questa decina di pagine, citando anche le previsioni del FMI, Signorini ricorda che le misure protezionistiche sono in aumento, e che in questo contesto la UE deve perseguire una “autonomia strategica aperta”. Senza i suoi eufemismi, significa irrobustire la competitività e le catene del valore europee, senza però fantasticare rotture né con gli USA né con l’Asia.

Non solo il re-shoring (friend- o near- che sia) non garantisce una miglior resistenza agli shock economici, ma la “frammentazione internazionale potrebbe ostacolare la ricerca di soluzioni praticabili per la produzione di beni pubblici globali, come la transizione energetica o il contrasto delle pandemie”.

Insomma, l’escalation delle tensioni internazionali diventa un pericolo anche sul versante economico, non solo per il rischio di guerra nucleare.

Nelle conclusioni, Signorini esprime dubbi sul fatto che “possa cambiare in modo radicale la divisione internazionale del lavoro”. Egli utilizza le parole di un ex governatore della Banca centrale indiana, Raghuram Rajan, per dare i propri consigli: “creare spazi sicuri in cui paesi pur con valori e sistemi diversi possano interagire a prescindere dalle rispettive politiche domestiche o dalle tensioni internazionali”.

Nell’ultima pagina di questo testo, il direttore genere di Bankitalia cita “Le conseguenze economiche della pace” di Keynes.

L’economista inglese, oltre a ricordare che la «globalizzazione» dell’epoca non fu sufficiente a impedire la carneficina mondiale, metteva in guardia dal fatto che la volontà di rivalsa e umiliazione insita nei termini della pace sarebbe stata foriera di guerra, come poi è stato.

Ad ora, è la Cina che sta mettendo sul piatto un nuovo sistema multilaterale di cooperazione e sicurezza internazionale. Il mantra che invece è spesso ribadito in Occidente vuole che il conflitto in Ucraina, evidente spartiacque di questa fase storica, possa concludersi solo con la disfatta di Mosca, se non addirittura con lo smembramento della Russia.

Un atteggiamento che ricorda quello di Versailles nel 1919, e a pensarci vengono i brividi…

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