Gli incontri di primavera, appuntamento annuale del Fondo Monetario Internazionale, si sono appena conclusi. Uno degli argomenti al centro della discussione è stata la ristrutturazione del debito di molti paesi in via di sviluppo, che sono attualmente in grave crisi finanziaria.
Già dal 2020 si è creata una struttura comune all’interno del G20 per far fronte in maniera coordinata al problema (il Common Framework for Debt Treatment beyond the DSSI). L’obiettivo è andare oltre la già prevista e semplice sospensione dei debiti.
Ora il dossier della ristrutturazione sta diventando sempre più impellente, in un quadro economico internazionale già fortemente sollecitato. Ma trovare un accordo tra i vari creditori non è semplice, soprattutto quando i motivi della competizione globale entrano con forza nel dibattito.
Infatti, Pechino è accusata di ritardare il raggiungimento di un’intesa con lo scopo di perpetrare la «trappola del debito» verso i paesi in via di sviluppo. Questa formula, usata a lungo per descrivere le dinamiche dietro i prestiti del FMI e della Banca Mondiale, egemonizzati dagli USA, ora è diventata etichetta tipica dei finanziamenti cinesi.
Rilanciata anche da testate quali il New York Times e il Washington Post, questa politica predatoria consisterebbe in ingenti prestiti, per lo più per opere infrastrutturali. Nel momento in cui essi non possono essere restituiti, diverrebbero dunque una leva per imporre indirizzi di politica estera o per accaparrarsi strutture e pezzi dell’industria del paese insolvente.
Ovviamente i fondi cinesi non sono elargiti per semplice spirito umanitario, ma è stato ampiamente dimostrato che la famosa trappola non esiste. Si parla di accordi bilaterali volontari, fatti su progetti per lo più elaborati dalle autorità locali, e semmai è l’assenza quasi completa di condizioni di fondo che attrae i debitori, e con loro anche la corruzione.
L’esempio tipico di questa presunta meschinità cinese, quello del porto di Hambantota in Sri Lanka, è nato proprio dalla malagestione del progetto. Si deve anzi sottolineare che l’acquisizione di una quota di maggioranza in due filiali della locale autorità portuale da parte del colosso cinese CMPort non solo non portò al passaggio di proprietà dell’infrastruttura, ma andò a beneficio di altri.
Con l’1,12 miliardi di dollari dell’accordo, il governo dell’isola di Ceylon ripagò i suoi creditori occidentali, i cui prestiti presentavano i tassi più alti. Del resto, la Cina possedeva solo il 16% del debito srilankese, e di fronte al carattere paradossale di eventi come questo ci sono studiosi che hanno parlato di «trappola cinese» come di un vero e proprio meme.
Oggi il Dragone detiene il 20% del debito estero dello Sri Lanka, mentre solo il 12% di quello dell’Africa nel 2020. I paesi più coinvolti in relazioni con gli istituti pubblici e privati cinesi sono Angola, Etiopia, Kenya, Nigeria, Zambia e Ghana.
Gli ultimi due casi sono esemplificativi, perché la recente visita di Kamala Harris ha mostrato i reali interessi dietro il nodo della ristrutturazione. Lo Zambia, di cui il 22% del debito è controllato da Pechino, ha firmato un memorandum con l’amministrazione Biden per sviluppare filiere delle terre rare indipendenti dalla Cina.
Al Ghana la vicepresidente statunitense ha invece offerto 139 milioni e un consulente finanziario. Nessuna intercessione, tuttavia, nei confronti delle società occidentali come Amundi o Blackrock, che insieme ad altre hanno in mano la maggior parte del debito estero del paese, mentre la Cina meno del 10%.
Inoltre, nessuna parola è stata spesa per il recente accordo con il FMI che porterà al Ghana 3 miliardi di dollari, questi sì con la «trappola» delle condizionalità: riforme strutturali e austerità. Il presidente ghanese ha giustamente detto alla Harris che “negli Stati Uniti ci può essere un’ossessione per le attività cinesi nel continente, ma qui da noi questa ossessione non esiste”.
Difatti, la maggior parte dell’esposizione delle realtà citate è verso stati, banche e istituti internazionali riconducibili all’Occidente. La Cina, che viene messa alla gogna, ha in realtà già proceduto per propri canali a cancellare 113 milioni di debiti nel 2020, e al Forum per la cooperazione con l’Africa dello scorso anno ha promesso ulteriori misure.
Lo stesso Financial Times riporta che 78 miliardi di prestiti nella cornice della Nuova Via della Seta sono stati rinegoziati o cancellati nel corso degli ultimi tre anni. Pechino ha dunque mostrato di non essere l’aguzzino che viene presentato alle nostri latitudini, ma di saper agire in maniera autonoma e propositiva anche su questo tema.
Come detto, i finanziamenti del Dragone non sono privi di criticità. Spesso si basano su contratti poco chiari e con clausole contro la ristrutturazione, ma è chiaro che il problema di per sé non si risolverebbe solo con un atto di magnanimità di Xi Jinping.
Da Pechino è questo che stanno chiedendo: un maggior coinvolgimento dei creditori privati e di istituti multilaterali nei processi di ricontrattazione dei debiti. Ma se da una testata di regime come Repubblica non hanno problemi a scrivere che dal FMI non si vogliono elargire altri fondi per paura che, alla fine, finiscano in Cina, si può capire il clima di queste trattative.
La tavola rotonda degli incontri di primavera si è comunque conclusa con alcune decisioni positive. Ad alcuni accorgimenti tecnici si accompagnano le dichiarazioni di Malpass, presidente della Banca Mondiale, nelle quali riconosce che il privato andrebbe coinvolto nei processi di ristrutturazione dei debiti.
Allo stesso tempo, però, ha ribadito come spetti soprattutto alla Cina fare un passo avanti. Cosa che ha effettivamente fatto proprio a questa riunione internazionale, come da tutti riconosciuto, pur non abbandonando la propria posizione. Per decisioni più concrete sembra bisognerà aspettare ancora.
È la logica dello scontro strategico che gli Stati Uniti stanno alimentando, contro qualsiasi ipotesi di sviluppo di un mondo multipolare, che è il vero impedimento a qualsiasi ristrutturazione funzionale dei debiti. Lo stesso Malpass aveva candidamente ammesso che i finanziamenti occidentali non sono stati usati per il bene dei popoli coinvolti.
Il braccio di ferro potrebbe arrivare fino alla dichiarazione di insolvenza dei prestiti cinesi, in cambio della continuazione delle elargizioni del FMI. Ma perché accada devono essere d’accordo innanzitutto i paesi debitori, e sempre più risulta chiaro che in molti, pur non schierandosi in una dinamica di blocchi, non sentono più il dominio ineluttabile dell’asse euroatlantico.
La Cina si è mossa tramite proprie cornici diplomatiche già ora per dibattere i problemi del debito sovrano, stimolando anche un maggiore protagonismo di finanziatori multilaterali regionali. È un modo per sganciare larghe fette di mondo dal guinzaglio di FMI e Banca Mondiale, così come lo può essere la de-dollarizzazione.
Appunto, il Sud globale può vedere in questi processi un’opportunità più che un limite allo sviluppo.
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