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Italia all’ultimo posto in UE per tasso di occupazione. Siamo alla desertificazione industriale

L’Eurostat ha da poco pubblicato gli aggiornamenti sull’andamento del tasso di occupazione in Europa. E la notizia per noi è che siamo diventati il fanalino di coda dell’Unione Europea.

Ricordiamo che con questo indicatore si esprime il rapporto percentuale tra gli occupati e la popolazione totale. La media registrata a livello comunitario per il 2022 si attesta a quasi il 75%, in Italia è dieci punti sotto.

Quello dello scorso anno è il valore più alto sin dall’inizio delle serie statistiche dell’Eurostat, ovvero dal 2009. In numeri assoluti, si tratta di oltre 193 milioni di occupati tra i 20 e i 64 anni che vivono in UE.

La soglia posta dalla Commissione Europea come obiettivo per il 2030 è appena sopra, al 78%, e dopo il 72% toccato in pandemia ora il traguardo sembra vicino. Ma come sempre dietro le statistiche, in particolare le medie, si nascondono profonde distorsioni.

Mentre 11 paesi hanno già superato l’obiettivo stabilito, ce ne sono altri molto al di sotto. L’Italia, abbiamo detto, segna un tasso di occupazione al 64,8%, dietro Grecia (66,3%) e Romania (68,5%).

La Spagna è l’unico paese dell’Europa occidentale a restare sotto il 70%. Il Nord del continente guida invece la classifica, con la Germania oltre il 78% e il primo posto occupato dall’Olanda, che tocca un tasso dell’83%.

L’indagine dell’Eurostat riporta anche altri dati interessanti. Il 22% dei lavoratori della UE è sovra-qualificato per l’attività che svolge, e ciò riguarda più le donne che gli uomini.

In Italia il divario di genere si allarga ulteriormente. Se la media generale è in linea con quella europea, essa deriva dal 18% degli uomini e dal 25% delle donne. Una distanza superata solo da Malta e da Cipro, che insieme alla Spagna guidano la classifica della sovra-qualificazione.

Altre statistiche che possono trarre in inganno sono quelle sull’occupazione nostrana. È stato sbandierato in lungo e in largo il picco di 23,3 milioni di occupati nel paese, con un tasso di disoccupazione all’8%.

Ma questo picco non si distribuisce equamente tra le regioni settentrionali e quelle meridionali, e nemmeno tra uomini e donne. Soprattutto, l’8% della disoccupazione (comunque ben lontano dal 2% della piena occupazione) non tiene conto di chi, appunto, un lavoro non lo cerca.

E anche cercandolo, lo si trova per lo più precario. A gennaio sono stati registrati 660 mila contratti, ma solo 162 mila erano a tempo indeterminato, mentre gli altri erano suddivisi tra quelli a termine, in apprendistato e in somministrazione.

In sintesi, di nuovo i dati fotografano un’Italia morsa dalla desertificazione industriale. L’offerta di lavoro è asfittica, precaria, con paghe da fame che non permettono a tanti di campare dignitosamente.

Questo è anche l’effetto delle diverse velocità con cui è proceduta l’integrazione europea. Va sottolineato, infatti, che mentre i paesi core della comunità europea presentano tassi di occupazione maggiori, le periferie si trovano più indietro.

Nel processo di concentrazione e centralizzazione dei capitali a livello continentale, le locomotive d’Europa mostrano tessuti produttivi più floridi. Dalla periferia hanno attirano risorse e migranti, soprattutto quelli più formati.

La gabbia euro-atlantica, fatta di vincoli di bilancio e spese militari, è l’ostacolo che qualsiasi concreta alternativa deve affrontare. Rimettere al centro la pianificazione pubblica, combattere la precarietà e proporre un salario minimo per legge sono primi passi per raccogliere le forze necessarie a ribaltare il tavolo.

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