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Il reshoring italiano sul Mediterraneo, seguendo le mire UE

Il Consiglio UE ha indicato l’accordo sui migranti in via di trattativa con la Tunisia come un modello da seguire per tutta la regione: soldi in cambio del ruolo di gendarmi dei confini d’Europa. Ma il Nord Africa non è al centro dell’attenzione solo per il nodo migrazioni.

Se si guardasse solo alla ferocia di chi impoverisce e produce devastazione ambientale in mezzo mondo, per poi pagare qualcuno per tenere lontano chi fugge da tutto ciò, perderemmo di vista la proiezione imperialistica UE. La volontà di costruire “partenariati globali” nel Mediterraneo va interpretata dentro questo quadro.

L’Italia ha assunto un ruolo fondamentale in questo scenario, innanzitutto per la sua posizione, ma non solo. Ad ogni modo, dal governo Meloni è stata ribadita più volte la volontà di diventare un hub energetico per l’Europa, e di mettere in campo un ancora fumoso «Piano Mattei» per l’Africa.

Si tratta in sostanza di procedere a una cooperazione che si vuole far passare per non predatoria, con investimenti vantaggiosi per entrambi le parti e lo sviluppo di catene del valore nuove. Si vogliono dunque stringere accordi sulle fonti energetiche, ma anche su tanti altri settori per limitare, almeno così dicono, la necessità di migrare.

Lo scopo reale e neanche troppo nascosto è invece quello di una maggiore autonomia energetica, per slegarsi definitivamente dalla Russia. Ma anche la definizione di un’area di influenza politicamente più controllabile, in cui riorganizzare le filiere, slegandosi dalla Cina e tuttavia mantenendo e, anzi, migliorando la competitività.

Questa scelta è confermata da uno studio della Cassa Depositi e Prestiti, che a partire dalla deglobalizzazione prevede più che una rinazionalizzazione, una regionalizzazione della produzione e degli scambi. A guadagnarne ci sarebbero i porti italiani, affacciati al «cortile di casa» dell’Unione Europea.

Alcune aree mediterranee come Nord Africa, Turchia e Balcani occidentali, rappresentano già il 9% degli scambi esterni della UE. Da questi paesi passa il 30% del commercio mondiale di petrolio e gas e si concentra il 27% del traffico marittimo di container.

È qui, così come nell’Europa centro-orientale (Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria), che potrebbe realizzarsi il reshoring dell’imprenditoria italiana. Altre indagini, effettuate da Intesa San Paolo, segnalano infatti un 70% delle aziende nazionali che guardano precisamente a questi luoghi per accorciare le proprie catene produttive.

Ad attirare è innanzitutto la fine di quello che ormai è un mito sul mondo del lavoro cinese. Viene detto in maniera molto esplicita che a fare gola è il costo del lavoro contenuto, con salari manifatturieri mediamente inferiori a quelli che ormai si pagano nel Dragone.

Negli ultimi vent’anni il costo del lavoro in Cina è decuplicato, toccando i livelli della Turchia e arrivando ad essere superiore a quello dei paesi dove le principali società UE stanno delocalizzando. Non è poi secondario che quest’area mediterranea abbia sistemi logistico-infrastrutturali in crescita e una buona specializzazione industriale.

Sono proprio le sinergie in alcuni settori centrali della competizione globale che spingono a guardare al di là del mare. Il capo economista di Intesa San Paolo, Gregorio De Felice, ha notato “una sponda sud forte nel settore delle automotive”, ribadendo l’attenzione alle opportunità ulteriori che possono dare le Zone Economiche Speciali.

Non è dunque un caso che anche il PNRR, prima peculiare forma di politica industriale UE, abbia investito tanto nei porti. Tra fondi europei e il Piano Nazionale Complementare sono più di 3 i miliardi di risorse da spendere per gli scali italiani.

La politica italiana è dunque perfettamente inquadrata nella cornice degli indirizzi strategici scelti a Bruxelles, e anzi con Giorgia Meloni sta facendo passi da giganti su questa strada. Un altro tema è se però la UE avrà successo in questa proiezione strategica.

A inizio luglio il Parlamento, oltre a rinnovare le precedenti, ha approvato quattro nuove missioni internazionali, di cui una in Libia e due nella fascia del Sahel. La preoccupazione di riuscire davvero a tenere salde le mani sul Nord Africa, dopo averlo destabilizzato con la guerra e con l’avidità delle multinazionali, è concreta.

Non poter contare sul friendshoring in questa regione sarebbe un grosso problema per la UE. Se la sabbia del Sahara sarà sabbia negli ingranaggi della catena dell’imperialismo euroatlantico, ne guadagneranno i settori popolari di tutto il continente.

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