Il 29 e 30 giugno si è svolto il Consiglio Europeo, già preannunciato come un delicato momento di confronto tra i vertici degli esecutivi dei membri UE. Ci si aspettava che il nodo della gestione dei migranti avrebbe fatto registrare scintille, e non sono effettivamente mancate.
L’accordo è stato largo riguardo il sostegno ai “lavori svolti su un pacchetto di partenariato globale reciprocamente vantaggioso con la Tunisia”. In sostanza si concretizza in fondi europei ed investimenti in cambio del blocco delle partenze dalle coste tunisine, un modello «libico» da diffondere “tra l’Unione europea e i partner nella regione”.
In realtà l’intesa con Tunisi deve essere ancora confermata, e non è detto che all’incontro del 3 luglio vada tutto come previsto. Ma finché si è parlato di pagare profumatamente l’esternalizzazione del controllo dei confini non ci sono stati intoppi: serrare la gabbia europea verso l’esterno trova tutti in perfetta sintonia (“democratici sovranazionali” e “nazionalisti sovranisti”).
È stato il nuovo Patto per la migrazione e l’asilo, raggiunto l’8 giugno dai ministri degli Interni, a provocare lo scontro. Esso regolerà i ricollocamenti dei richiedenti asilo, i contributi finanziari e altre misure di solidarietà interna alla UE.
L’accordo è stato trovato ricorrendo alla maggioranza qualificata, come previsto dai trattati comunitari in materia, ma al Consiglio sia l’Ungheria sia la Polonia si sono opposte. I rappresentanti dei due paesi volevano infatti che si continuasse a seguire la regola del consenso, come negli scorsi anni.
Charles Michel, il presidente del Consiglio Europeo, ha chiesto dunque a Giorgia Meloni di svolgere un tentativo di mediazione. La leader di Fratelli d’Italia ha sottolineato proprio come fosse inutile l’ostruzionismo su come smistare i migranti una volta giunti in Europa, perché si avranno sempre idee inconciliabili.
La Meloni è arrivata a dire che i ricollocamenti non sono la sua priorità, ma lo è “fermare l’immigrazione illegale a monte”, con accordi come quello con la Tunisia. L’Italia è tuttora fondamentale nel dialogo con l’altra sponda del Mediterraneo, e il capo di governo si vuole rivendicare questo ruolo.
Anche se la missione di portare a miglior consiglio i due paesi riottosi non è andata a buon fine, la legittimità che Michel ha riconosciuto con la sua richiesta a Giorgia Meloni è evidente, nonostante i problemi sul PNRR. È probabile che anche questo sia un segnale del processo di normalizzazione della destra post-fascista e della ricerca di nuovi equilibri politici.
Giorgia Meloni si è riscoperta, per noi senza sorprese, una ferma sostenitrice di una UE unita e con un profilo strategico maggiormente proiettato verso l’esterno, terreno su cui superare anche le diatribe interne. La ‘politica di potenza’ è condivisa da tutte le classi dirigenti comunitarie, il resto è solo gioco delle parti per imbonire l’elettorato.
Una politica che ovviamente è fortemente orientata alla guerra. L’altro tema ampiamente dibattuto è stata la situazione ucraina, ribadendo “il sostegno finanziario, economico, umanitario, militare e diplomatico”. L’undicesimo pacchetto di sanzioni è stato accolto con favore, mentre sono stati criticati Iran e Bielorussia per l’appoggio alla Russia.
È stata espressa la volontà di organizzare un “vertice di pace globale” sulla base della formula di pace dell’Ucraina, che i paesi UE si impegneranno a ricostruire. Parallelamente, è stato valutato positivamente il processo che sta avvicinando sempre più l’Ucraina, la Georgia e la Moldavia alla UE.
Ai timori sulla sicurezza alimentare globale, si sono affiancati quelli per la distruzione della diga Kakhova, con importanti ripercussioni anche sulla centrale nucleare di Zaporizhzhia. Qui, come al solito, si è assistito alla smentita degli allarmismi di Kiev.
Infatti, le autorità ucraine avevano rilasciato dichiarazioni riguardo al fatto che i russi avevano minato quattro reattori della centrale, pronti a creare un incidente epocale. L’AIEA non ha rilevato alcun segnale di un’azione del genere, anche se le ultime notizie parlano di indicazioni di evacuazione entro il 5 luglio anche per i dipendenti ucraini.
Del resto, come ha detto Rafael Grossi, a capo dell’AIEA, “può succedere di tutto”. La sua principale preoccupazione è però, ad ora, il pericolo che la centrale corre, trovandosi in una condizione di estrema fragilità e quasi sulla linea della controffensiva ucraina.
Sempre in relazione all’ambito bellico, è stata sottolineata la necessità di procedere sulla strada tracciata dalla ‘Bussola strategica europea’ più di un anno fa. In generale, è stata confermata la spinta ad aumentare i fondi militari e le basi comuni della sicurezza, anche informatica, e della difesa della UE.
Questo obiettivo verrà raggiunto con l’acquisizione congiunta di munizioni e missili, ma anche con lo European defence industry reinforcement through common procurement act (EDIRPA), una cornice per procedere con appalti in comune, e con lo European Defence Improvement Programme (EDIP).
Per quest’ultimo strumento, un insieme di investimenti iscritti nella cornice NATO, è stato chiesto alla Commissione di elaborare una proposta.
Sulla situazione economica, è stata riaffermato lo scopo di una maggiore ‘competitività’, da realizzarsi attraverso la ‘transizione verde e digitale’, nonché una maggiore attenzione anche all’ambito farmaceutico. Da evidenziare la preoccupazione espressa per gli effetti che avrà sulla UE il per nulla amichevole Inflation Reduction Act statunitense.
Fondamentale rimane poi la riduzione delle dipendenze strategiche e la diversificazione delle catene di approvvigionamento. Qui entra sulla scena il rapporto complesso con la Cina, a cui è dedicata una delle sette parti in cui sono divise le conclusioni del Consiglio.
Il Dragone viene di nuovo definito come “un partner, un concorrente e un rivale sistemico”, con cui collaborare per affrontare sfide dalla dimensione globale. Se anche, come detto, la UE vuole rendersi più autonoma da Pechino, però “non intende procedere a un disaccoppiamento né chiudersi in se stessa”.
Vengono poi al solito espresse critiche sulla situazione dei diritti umani in Tibet e in Xinjiang. Viene però anche ripetuto che la comunità europea sostiene coerentemente la politica di “un’unica Cina” (che implica il non riconoscimento di Taiwan come Stato indipendente).
Per concludere, nel testo finale vi sono accenni ai Balcani, alla Turchia, al Mediterraneo orientale e all’Africa. In poche parole, uno sguardo a tutto tondo sui vari settori di interesse di una UE che non ha assolutamente rinunciato a svolgere un ruolo attivo nella competizione globale.
Non un traguardo semplice, ma che comunque verrà perseguito ad ogni costo, facendoci scivolare sul piano inclinato della guerra e della barbarie. È bene rimanere allerta sui prossimi sviluppi dei nodi dirimenti riassunti in questo Consiglio Europeo, perché ne deriveranno anche indizi sugli spazi praticabili per la costruzione di un’alternativa.
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