Nel dibattito pubblico si parla spesso di PIL e di vincoli europei, ma spesso passa in sordina l’andamento interno dell’economia. E come da decenni a questa parte, con la spinta della dinamica centro-periferia implementata dal trattato di Maastricht, il divario tra il Nord e il Sud del paese va allargandosi.
Nel rapporto 2023 di Banca d’Italia risulta che il PIL è cresciuto dell’1,1% sia nel Nord-Ovest sia nel Nord-Est, ma solo dello 0,8% al Centro e dello 0,7% al Sud. “Dal 2019 la crescita del Pil in quest’ultima macroarea è stata inferiore alla media nazionale”, anche se superiore rispetto al Centro.
Anche se i livelli di attività economica sono tornati a quelli precedenti alla pandemia di Covid-19, nel Meridione “il prodotto è ancora inferiore di oltre 7 punti rispetto ai livelli precedenti la crisi del 2008-09 (4 punti nel Centro), mentre nel Nord è superiore già dal 2022”.
Il PIL pro-capite del Mezzogiorno è solo il 55% di quello registrato nel resto del paese. In pratica, il reddito disponibile per chi abita dalla Campania in giù è poco più della metà di quello di chi abita dal Lazio in su, con una cesura nettissima nella penisola… ed è così dal 2016.
Nel 2023 gli investimenti delle imprese industriali con almeno 20 addetti sono cresciuti al Centro e al Nord, ma sono rimasti invariati al Sud. Anche per questo non sorprende che nel primo trimestre di questo anno la dinamica di crescita rimane più o meno la stessa per tutte le macroaree.
Anche se di nuovo è tornata ai livelli raggiunti prima della pandemia, “la spesa per consumi delle famiglie sarebbe cresciuta dell’1,4 per cento al Centro Nord e dello 0,8 nel Sud e Isole”. Dunque, si può facilmente dedurre che anche sulle condizioni e la qualità di vita si vada allargando il divario tra le ‘due metà’ del paese.
Il governatore di Bankitalia, Fabio Panetta, sottolinea che la ripresa dopo il Covid-19, “contrariamente a quanto avvenuto in episodi di crisi del passato, è stata intensa anche nel Mezzogiorno”. Quello che ora bisogna fare è, “da un lato, affrontare le conseguenze del calo e dell’invecchiamento della popolazione e, dall’altro lato, imprimere una decisa accelerazione alla produttività”.
“Un’inversione di tendenza è possibile”: un’affermazione che sembra cozzare con i dati resi pubblici dal suo stesso istituto. E difatti aggiunge, sempre in una prospettiva tutta interna ai vincoli di bilancio: “il ritardo economico del Mezzogiorno e l’elevato debito pubblico sono questioni ineludibili per la politica economica”.
“Così come i vincoli alla concorrenza che in molti settori creano rendite di posizione e limitano l’accesso di nuovi operatori, comprimendo l’innovazione, la produttività e l’occupazione. Dobbiamo aprire l’economia alla concorrenza e offrire a tutti l’opportunità di valorizzare i propri talenti”.
Le parole che sentiamo ripetere da decenni, ovvero che c’è poca produttività, che ci sono troppi legacci all’attività di impresa e che la dimensione delle aziende italiane limita la loro capacità di imporsi a livello internazionale.
Possiamo anche accettare che, in certa misura, questi nodi possano essere considerati ‘problemi’, ma quello che è evidente è che le ricette messe in campo da questa classe dirigente sono fallimentari. Ne abbiamo la prova davanti agli occhi.
Sarebbe il caso che il pubblico riprenda in mano le direttrici dello sviluppo economico, invece di lasciarle al privato che non è evidentemente in grado di risolvere le storture del nostro sistema economico. E anzi, le amplifica solamente.
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