L’incrocio dei dati tra il ministero delle Finanze e l’OMI, l’Osservatorio del Mercato Immobiliare, rivela che avere un tetto sopra la testa diventa sempre più caro. Ovviamente, è soprattutto nei capoluoghi che pagare un affitto va a mangiare quasi tra oltre un terzo e poco meno la metà della retribuzione.
Tra il 2018 e il 2023 la fetta dei redditi dei lavoratori dipendenti che in media è stata destinata al canone d’affitto è passata, nei capoluoghi di provincia, dal 31,6% al 35,2%. Supera il 40% in sei città, con il picco fiorentino del 46,5%.
Queste percentuali sono state calcolate sui nuovi contratti a canone libero. In generale, dal 2018 il loro peso sulle buste paga dei residenti è cresciuto mediamente del 3,6% ogni anno.
Ma sono aumentati anche i prezzi anche del canone concordato. Sempre dal 2018 al 2023, gli affitti di questo tipo sono passati ad assorbire dal 27,5% al 29% dei redditi, con 15 capoluoghi che registrano picchi oltre il 30%.
Solo gli inquilini che hanno stipulato contratti con i locatori che prevedono la cedolare secca sono stati tutelati. Infatti, la scelta per una tassa fissa non permette l’adeguamento dei canoni all’inflazione, concedendo agli affittuari di essere più garantiti, almeno su questo lato.
Ma se parliamo di inflazione, è bene notare che ancora una volta è stata la speculazione a farla da padrona. Attraverso il Fisco, è stato osservato che, se nel 2018 il canone medio mensile nei capoluoghi era di 615 euro, l’anno scorso è arrivato a 731 euro.
Se l’incremento fosse andato di pari passo con l’inflazione rilevata dall’Istat, l’importo si sarebbe dovuto fermare a 715 euro. Ci sono dunque in media circa 190 euro di aumenti che non sono giustificati, se non dalla volontà di avere rendite più corpose.
Le detrazioni per gli inquilini a basso reddito (usate da oltre 1,2 milioni di lavoratori dipendenti con un reddito al di sotto di 31 mila euro), negli ultimi dati disponibili, ammontano in media a 171 euro. In sostanza, meno di quel che i locatori hanno chiesto in più, oltre all’adeguamento all’inflazione.
Sugli incrementi arrivati oltre l’aumento dei prezzi sembra abbiano pesato soprattutto la ripresa del turismo, e dunque l’opportunità di affitti brevi, e il ritorno degli studenti fuorisede. In sostanza, una conferma del fatto che, alla fine del Covid, la speculazione ha avuto un ruolo centrale nel sospingere i canoni.
Dall’altra parte, invece, i redditi da lavoro dipendente dichiarati nel 2023 sono aumentati nominalmente del 6,5% rispetto al 2018. Questo incremento non è stato sufficiente nemmeno a riassorbire l’inflazione, senza contare che ci sono luoghi, quali Perugia e Terni, dove i redditi dei lavoratori sono addirittura in calo.
Persino il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, ha affermato che “non si può pensare che un affitto superi il 25-30% dello stipendio che prendono i giovani”. Egli ha dunque proposto un nuovo Piano Casa per alloggi a prezzi sostenibili.
Siamo assolutamente d’accordo sulla necessità del rilancio dell’edilizia popolare, e probabilmente non alle condizioni di profitto e parassitismo sulle casse pubbliche che immagina Confindustria. Ma non possiamo non ricordare come si dovrebbe agire anche dal lato dei salari.
Questi sono diminuiti a livello reale negli ultimi 30 anni. È giunto il momento che padroni, padroncini e prenditori italiani paghino il lavoro quel che merita, invece di continuare a sfruttare i giovani, e anche i meno giovani.
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