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I dazi sulla Cina non piacciono all’industria europea

Siamo abituati a sentire i vari pennivendoli nostrani glorificare la guerra fatta dall’Occidente a Pechino, fulcro della “alleanza del male” che unisce tutti coloro che non obbediscono all’imperialismo euroatlantico. Una guerra che per ora si è fondata largamente su dazi e sanzioni alle aziende cinesi.

Misure non di poco conto e senza effetto sulle prospettive di crescita del Dragone, anche se comunque incapaci a piegarlo. Ma ad esempio, gli ultimi dazi decisi dalla Commissione Europea sulle auto elettriche cinesi rendono lo scenario di una vera e propria guerra commerciale.

Non bisogna tuttavia esagerare una decisione che rimane ancora oggetto di trattative, soprattutto per l’interesse di alcuni grandi produttori europei (Stellantis in testa) di inserirsi nelle filiere cinesi che, volenti o nolenti, si allungheranno fino al Vecchio Continente.

L’equilibrio tra gli interessi e la competitività dei ‘campioni europei’ e i dettami da guerra fredda su cui si muove la NATO saranno una delle sfide principali del nuovo mandato della von der Leyen. A ricordarglielo sono gli stessi rappresentanti dell’industria continentale.

Il 15 luglio 31 importanti associazioni imprenditoriali europee, riunitesi a Bruxelles, hanno firmato una breve e concisa lettera che verrà consegnata alla rieletta Presidente della Commissione. Una posizione condivisa che va ben oltre l’automotive.

Infatti, oltre ACEA, che riunisce i costruttori di quest’ultimo settore, vi erano anche esponenti della componentistica, dell’alimentare e bevande, dell’agricoltura, della moda, fino alla nautica di diporto e ai giochi. Insomma, un ventaglio rappresentativo di tutta la produzione europea.

Seppur i dazi contro la Cina non sono mai esplicitamente citati, già le prime righe della dichiarazione congiunta fanno capire come una UE fondatasi sul modello tedesco export oriented non è pronta a sostenere una svolta protezionistica di questo livello. Almeno se vuole mantenere competitività.

L’apertura del commercio favorisce la crescita economica e la creazione di posti di lavoro, visto che 1 posto di lavoro su 5 nell’UE dipende dalle esportazioni. Va a vantaggio dei consumatori, che hanno maggiori possibilità di scelta (il 60% degli europei ne riconosce i vantaggi), e attira gli investimenti esteri, favorendo la crescita e l’innovazione nell’UE”.

Inoltre, la diversificazione degli approvvigionamenti e delle esportazioni aumenta la resilienza e la nostra capacità di affrontare e superare le crisi. Questi dati sottolineano l’importanza di mantenere l’apertura e la crescita come elementi centrali della politica commerciale dell’UE”.

Per riportare un’ultima frase significativa, le 31 associazioni imprenditoriali invitano a elaborare politiche “volte all’apertura di mercati nuovi e diversificati attraverso accordi commerciali e la riduzione delle barriere tecniche al commercio”.

Dichiarazioni molto lontane dall’idea di un braccio di ferro con Pechino, che da agosto vedrà dazi anche sui biodiesel del Dragone. Al punto che nel documento vengono citate pure le regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, a cui si sono rifatti anche i diplomatici cinesi nel criticare i dazi europei.

Che il punto di riferimento rimanga l’imperialismo europeo, le strutture che lo incarnano (ovvero la UE) e i suoi strumenti (come il Global Gateway, programma di investimenti citato anch’esso nel testo), rimane indubbio. Sul fatto che la strada dello scontro sia da prediligere, invece, c’è opposizione.

Il Consiglio UE dovrà confermare le disposizioni della Commissione entro il 2 novembre. Questa lettera finirà sui tavoli di Bruxelles, a palesare l’opposizione di una larga fetta dell’imprenditoria europea ai dazi da poco introdotti.

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