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I grandi capitali nel risiko draghiano

Capitalisti italiani che mangiano capitalisti tedeschi? Può accadere anche questo nelle odierne sommosse del potere economico internazionale. Andrea Orcel, capo di Unicredit, ha reso noto che la banca italiana ha acquisito il nove percento della tedesca Commerzbank.

E non intende fermarsi: l’istituto con sede a Milano vorrebbe comprare il restante pacchetto di azioni che il governo di Berlino sta mettendo sul mercato per completare la privatizzazione.

Se l’acquisizione andrà avanti, la Bce darà il suo placet [l’ok è poi arrivato, prima che noi riprendessimo questo articolo, che esce quindi pienamente confermato nella sua analisi, ndr]. Il direttorio di Francoforte condivide infatti l’allarme del Rapporto Draghi sulla competitività. Gelosi di preservare le rispettive proprietà nazionali, gli stati membri dell’Unione europea hanno finora ostacolato le acquisizioni transfrontaliere tra capitali, col risultato che le aziende europee sono oggi “nane” nella lotta globale con i giganti americani e cinesi.

La ricerca scientifica in effetti conferma. La centralizzazione dei capitali in sempre meno mani procede in Europa a ritmi ancora blandi. L’ottanta percento del capitale azionario è controllato in Italia e in Germania da circa il 2 percento degli azionisti. Sembrano pochi, ma in realtà sono ancora dieci volte troppi rispetto allo 0,2 percento degli Stati uniti. Per Draghi e i suoi, un cambio di passo è dunque urgente. Bisogna subito apparecchiare un nuovo banchetto di mergers europei, a partire proprio dal settore bancario.

Commerzbank sembra l’antipasto ideale. Durante la crisi dell’eurozona si rivelò una delle banche più avventuriste nel prestare alla Grecia e agli altri paesi debitori, le svalutazioni dei suoi crediti fecero più volte tremare i mercati e alla fine fu salvata solo con una partecipazione statale. Oggi la banca viene rimessa sul mercato ma vale appena 14 miliardi, troppo minuta per sopravvivere in un sistema continentale egemonizzato da UBS con 97 miliardi, BNP Paribas con 70, Santander con 65, Intesa Sanpaolo con 67. E, per l’appunto, Unicredit con 59 miliardi e tanta voglia di allargarsi.

Per realizzare il sogno della banca italiana che fa shopping in Germania c’è però da superare qualche ostacolo. Il primo scoglio è posto da vari esponenti del governo e dei lander tedeschi.

La Germania vive infatti un paradosso. Pur essendo il centro indiscusso dell’economia europea, a livello di settore bancario ha evitato di favorire capitalizzazioni eccessive, privilegiando il più delle volte dimensioni regionali o poco più. Conseguenza è che oggi l’istituto tedesco più capitalizzato è Deutsche Bank con appena 27 miliardi in dote, ben sotto i principali concorrenti svizzeri, francesi, spagnoli, italiani e olandesi.

Il risultato, ironico, è che adesso persino tra le file dei rigorosi liberisti tedeschi c’è chi teme il risiko draghiano delle acquisizioni europee. L’idea prevalente a Berlino è che bisogna avviare una determinata politica di fusioni tra banche tedesche, in modo da raggiungere un minimo di massa critica nazionale prima di aprirsi alle lotte sul mercato europeo.

L’altro scoglio è l’opposizione dei sindacati tedeschi, ostili a un tentativo di acquisizione estera che per la prima volta potrebbe creare esuberi in Germania piuttosto che nelle consuete periferie europee. In passato, vari esponenti del mondo sindacale tedesco avevano accusato gli omologhi degli altri paesi di frenare la modernizzazione europea con richieste di protezioni statali ritenute ormai desuete. Stavolta tocca a loro subire gli effetti della modernizzazione.

Anziché esser serviti sul solito piatto, stavolta i capitalisti italiani potranno dunque sedere al banchetto delle fusioni bancarie europee? È presto per dirlo, siamo solo al primo libar nei calici.

La cosa certa è che Marx trova di nuovo conferma: la centralizzazione dei capitali in sempre meno mani è la forza che muove il mondo. I capitalisti di tutte le nazioni in certi casi assecondano il processo e in altri lo ostacolano, spingendo a seconda delle circostanze sul libero scambio, sul protezionismo e talvolta su guerre sanguinose, se serve. Dipende solo dal posto che ogni volta si trovano a occupare: dal lato degli invitati o del pasto in tavola.

* da il manifesto

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