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La Fed accelera sul taglio dei tassi di interesse

La danza dei tassi è entrata ufficialmente nella fase ribassista, mettendo un argine al guadagno spropositato dei “prestatori di denaro” (banche e strozzini di ogni lignaggio).

La Federal Reserve Usa ha tagliato ieri il tasso di interesse base dello 0,50%, portandolo nella forchetta 4,75-5%. Una sforbiciata sicuramente più audace di quella analoga della Bce, una settimana fa (0,25%), spiegabile facilmente con il doppio obiettivo di cui deve statutariamente tener conto la Fed: il controllo dell’inflazione e del tasso di disoccupazione. Mentre gli “europeisti austeri” hanno affidato a Francoforte soltanto il contenimento dell’inflazione.

Nonostante l’entità del taglio, comunque, non sono mancate le voci critiche verso la Fed: “troppo tardi”, quella principale. Diciamo pure che Jerom Powell, il presidente, non aveva molte altre scelte possibili. I dati macroeconomici Usa segnavano una crescita del Pil inferiore alle stime precedenti (il 2%), mentre il tasso di disoccupazione era più alto (4,4% invece del 4 secco).

Segno chiaro che l’economia si era “raffreddata” oltre il desiderabile e cominciavano ad emergere rischi di recessione. E’ vero infatti che l’economia Usa è particolarmente squilibrata nella composizione interna (la finanza creativa e Wall Street contano nel Pil quasi più di quella “fisica”), e che i tassi ufficiali (specie quello di disoccupazione) sono ben lontani dalla realtà.

Ad esempio le statistiche sull’occupazione non prevedono distinzioni tra “tempo pieno” o part time, al punto che basta aver lavorato una sola ora la settimana precedente le rilevazioni per essere considerato “occupato” (e morire di fame). Il Dipartimento del lavoro certifica da anni che circa 100 milioni di statunitensi (sui 268 in età lavorativa) “non sono in forza lavoro”.

Con questi numeri alle spalle, insomma, si comprende come la Fed sia considerata, anche in ambito capitalistico, troppo timida e troppo lenta nell’abbassare i tassi (anche se non quanto gli “austeri” al comando della Bce). E magari per rispondere anticipatamente a queste critiche Powell ha spalancato le porte promettendo un altro 0,50% da qui alla fine dell’anno (non si sa ancora se in due tranche oppure una sola), l’1% nel 2025 e un altro 0,5 nel 2026. Portando il tasso di interesse a un più tranquillo 2,9%.

Gli effetti sull’economia sono chiari pensando a quel che avviene negli acquisti a rate o con i mutui: se si abbassano gli interessi e cala la rata ci saranno degli acquisti in più, dando fiato alle imprese produttrici di beni e restringendo un tantino (senza esagerare, certo) i profitti dei “prestatori”.

Altra conseguenza, sul medio periodo, è la riduzione dei rendimenti (degli interessi da pagare) sui titoli di stato, abbassando quindi un poco il “servizio del debito” e il deficit annuale dello Stato.

Ultima ragione a consigliare il taglio sono poi le elezioni presidenziali Usa, e non c’è dubbio che questa mossa (e l’eventuale ripetizione ad ottobre, pochi giorni prima del voto) sia anche un “aiutino” per l’amministrazione in carica e dunque per la vicepresidente Kamala Harris.

La questione più importante è comunque relativa alla fase, decisamente “ribassista” per quanto riguarda i tassi. Con ben due guerre in corso (più altri conflitti regionali e qualche minaccia di golpe promossi dagli Usa), una crescita di fatto scomparsa in Occidente, la necessità di un riarmo intensificato anche nei settori considerati prematuramente “obsoleti” ma che la guerra in Ucraina e in Medio Oriente hanno dimostrato tuttora “centrali” (mezzi corazzati, artiglieria, proiettili di ogni tipo, ecc, oltre ovviamente a droni, missili, sistemi antimissile e antiaerei), non era pensabile tenere botta nutrendo soprattutto gli appetiti finanziari degli “strozzini”.

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