Poiché il mantra che sentiamo in continuazione è quello che vorrebbe la politica guidata dai “tecnici” sulla base dei dati, un documento redatto dall’Osservatorio delle Imprese della Sapienza offre ampio materiale di dibattito. Incentrato sull’andamento dell’industria nazionale, non dice però quello che vorrebbero padroni e padroncini. Anzi…
Il titolo è già molto chiaro: “Dinamica dei redditi, recenti squilibri nell’industria italiana“. C’è da dire che questo contributo è pensato per aiutare l’orientamento degli studenti verso le aziende e del sistema imprenditoriale verso gli obiettivi di competitività delineati da Draghi, quindi “non antipatizzante” verso il pensiero mainstream…
Ma il fulcro rimane “la bassa remunerazione del lavoro nell’industria italiana“. Subito viene anche ricordato che, nel giro di sei mesi, tre quarti dei dipendenti delle imprese afferenti a Confindustria vedranno scadere il proprio contratto, e che dunque bisogna sbrigarsi per far fronte al problema, prima che si allarghi.
I numeri sono quelli, e di particolare interesse è il primo capitolo dell’analisi, in cui vengono rielaborate le informazioni raccolte dall’Area Studi Mediobanca (AST) nell’annuale rapporto “Dati cumulativi“. In esso vengono studiate 1.900 aziende sopra i 500 dipendenti, che rappresentano quasi il 50% del fatturato industriale e manifatturiero nazionale.
Nel 2023 per queste imprese medio-grandi il fatturato netto è aumentato del 34% rispetto al 2019, in parte sicuramente per effetto dell’inflazione. Ma anche il valore aggiunto si è incrementato di un terzo rispetto a quello stesso anno; sono cioè andati di pari passo l’uno con l’altro.
La situazione cambia nettamente dal 2020, ovvero dalla pandemia in poi. Infatti, “la quota di valore aggiunto andata a remunerare il lavoro è calata di ben 12 punti percentuali, perché non gonfiata dall’inflazione“: in pratica, la componente rimasta ferma al palo è stata quella dei salari.
“Il peso dell’utile netto infatti“, continua il documento, “è aumentato di ben 14 punti percentuali nel 2023 rispetto al 2020“. La conclusione che trae è che l’inflazione “ha penalizzato quindi il lavoro dei dipendenti dell’azienda a tutto vantaggio del capitale dei soci“.
Un altro dato è poi significativo: “tra il 2020 e il 2023, gli azionisti delle società industriali censite da AST si sono distribuiti ogni anno in media l’80% degli utili così gonfiati, lasciando appena il 20% a disposizione della gestione come contributo all’autofinanziamento di nuovi investimenti“. In sintesi, tutto il guadagno è andato nel portafoglio e quasi nulla è stato messo nel miglioramento dell’azienda.
“Tutto ciò dimostra che le società industriali non hanno ampliato l’indebitamento, non già per ‘scarsità del credito’ come troppo spesso si dice con superficialità, quanto piuttosto per disaffezione al rischio d’impresa“, conclude il primo capitolo. Viene detto che la motivazione è nell’incertezza, nella perdita di competitività e in altri fattori legati.
Ma qui c’è la falla del ragionamento, che ancora una volta non sottolinea come il problema sia proprio la proprietà e la gestione privata degli investimenti. Nei Dati cumulativi dell’AST si legge che “nel 2023 gli investimenti del comparto pubblico hanno segnato un +19,5%, il privato -3,1%”: è quest’ultimo che può e non fa, perché deve garantire i dividendi.
Non si può pensare di essere più competitivi se i padroni si intascano ogni centesimo e non spendono un euro in innovazione. E intanto, continuano a chiedere sussidi su sussidi perché, dicono, altrimenti non ci sono le condizioni per produrre, mentre si garantiscono alti profitti drenando risorse dai lavoratori.Detto nel linguaggio governativo: gli imprenditori non creano lavoro, ma rubano risorse.
Il secondo capitolo dello studio della Sapienza descrive proprio questa dinamica dopo il Covid-19. Anche quando è aumentato il valore aggiunto in volume e la produttività, come nel 2021, le retribuzioni sono rimaste quasi ferme: la quota del reddito da lavoro sul valore aggiunto è diminuita del 4%.
Il 2022 e il 2023 sono stati, invece, gli anni di aumento dell’indice dei prezzi a causa della spirale inflattiva. Le retribuzioni non sono state al passo, e così la quota del lavoro è diminuita di un ulteriore 4% nel 2022, mentre nel 2023 è aumentata, anche se di un misero mezzo punto percentuale.
Ma anche qui c’è un inganno al di là dei numeri. Il valore aggiunto in volume è andato calando, mentre sono aumentate le ore lavorate, e a ciò viene fatto risalire il leggero incremento della quota del reddito da lavoro: gli imprenditori non hanno investito e hanno incamerato tutti i profitti, mentre hanno aumentato lo sfruttamento intensivo dei lavoratori.
Ciò è evidenziato chiaramente dalle analisi fatte da Mediobanca sull’ebit margin, il quale – semplificando – è l’indice che rappresenta il margine di profitto che si può riuscire a fare nel ciclo completo di acquisto, produzione e vendita. Nel 2023 le 1.900 imprese prese in considerazione hanno segnato il miglior livello mai raggiunto dal 2008 (6,6%).
A preservare i margini, dice ancora Mediobanca, è stata la vischiosità dei salari (tradotto: la lentezza con cui si sono mossi dopo l’emergenza sanitaria, con il peso del costo del lavoro sul fatturato che è rimasto al di sotto della media pre-pandemia). Per di più, il potere d’acquisto tra il 2021 e il 2023 è diminuito del 7,6%.
È lo stesso istituto finanziario che sottolinea come ciò infici le opportunità offerte dal mercato interno, mentre su quelli internazionali le tensioni globali continuano a rendere incerte le prospettive. Anche qui, la realtà che viene lasciata sullo sfondo è il fallimento del modello export oriented della UE e impostato sull’industria tedesca.
Poche volte ci capita di avere una serie di dati che fotografano in maniera così impietosa da una parte il grado di parassitismo dei settori padronali del paese, dall’altra quello di inadeguatezza e servilismo della classe politica nazionale. Lo sviluppo di un’alternativa sistemica è ormai quasi una necessità per la sopravvivenza stessa.
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