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Istat: i prezzi degli alimentari corrono molto più veloce dell’inflazione media

Tra l’ottobre 2021 e l’ottobre 2025, gli italiani hanno affrontato un’impennata dei prezzi alimentari del 24,9%, un aumento di quasi l’8% superiore a quello dell’indice generale dei prezzi al consumo armonizzato, che si è “fermato” al 17,3%. Lo rileva l’Istat, che identifica la causa principale nello shock dei prezzi dell’energia tra il 2022 e il 2023.

Nel dettaglio, gli aumenti maggiori rispetto al 2021 hanno colpito i prodotti vegetali (+32,7%), latte, formaggi e uova (+28,1%) e pane e cereali (+25,5%). A ottobre, mentre l’inflazione calava dello 0,3%, i prezzi dei prodotti alimentari e delle bevande analcoliche cresceva dello 0,2%.

L’incremento del costo dei beni energetici si è trasmesso ai costi di produzione e distribuzione di quelli alimentari. L’istituto, ad ogni modo, parla di una “combinazione di fattori, di natura soprattutto esterna, che hanno determinato forti aumenti soprattutto nei prezzi internazionali degli input produttivi del settore alimentare. I fattori interni hanno invece agito in misura più limitata e, in particolare negli anni più recenti“.

Prima le difficoltà di un veloce rialzo della domanda con la ripresa dopo la pandemia – che ha messo sotto stress filiere che andavano in parte ridisegnandosi – sono entrate in una sinergia negativa con alcuni eventi avversi a livello climatico, con la conseguente contrazione dell’offerta a livello globale. A ricordarci come la crisi climatica è un danno immediata per le nostre economie, oltre che una pietra tombale sull’intera umanità sul lungo periodo.

Poi, l’escalation in Ucraina e le sanzioni alla Russia hanno determinato il rialzo dei prezzi energetici che conosciamo bene, con effetti a cascata. E infatti, il fenomeno non ha riguardato solo l’Italia, ma tutta l’Europa, con intensità persino maggiore: i prezzi del cibo, sempre negli ultimi cinque anni, sono aumentati del 29% per l’area euro (+32,3 nella Ue27), del 32,8% in Germania e del 29,5% in Spagna. In Francia, invece, un po’ meno che in Italia.

La differenza, per il Belpaese, è che da una parte c’è una classe politica che sa solo sussidiare senza sosta un mondo imprenditoriale che o intasca il surplus senza investire o, peggio ancora forse, perde tutto nei rivoli della finanza. E poi si lamenta della “voglia di lavorare” che non c’è più.

Ma la realtà è che, se negli altri paesi il reddito lordo reale pro capite delle famiglie ha superato quello del 2008, in Italia rimane ancora sotto di esso di 4 punti e rotti. Parola di Eurostat. E come sappiamo bene, le spese riguardanti il mangiare colpiscono più nettamente i redditi delle fasce più basse che di quelle più alte (per il buon motivo che ognuno di noi può mangiare fino ad un certo punto, scegliere la qualità migliore o la meno costosa, ma non secondo le regole della “crescita infinita”).

Commentando i dati, l’Unione Nazionale Consumatori (UNC) ha definito la spesa alimentare ormai un “lusso“. Il presidente Massimiliano Dona ha posto in evidenza che “per mangiare e bere una coppia con 2 figli paga su base annua ben 250 euro in più, una coppia con 1 figlio 219 euro, 173 per una famiglia media“.

Se a questo quadro si aggiunge anche il “Rapporto sul Benessere equo e sostenibile” (Bes) 2024, anch’esso diffuso dall’Istat, la situazione appare ancora più critica. In Italia le condizioni di benessere economico sono in calo, e sono più basse della media europea: il rischio di povertà nel 2024 è al 18,9%, contro il 16,2% dell’UE27. La disuguaglianza del reddito netto è al 5,5%, contro il 4,7% della UE27.

E la legge di bilancio continua a prevedere lo spostamento di ricchezza verso le fasce più agiate della popolazione, e tagli ai servizi. Lo sciopero generale del 28 e la manifestazione nazionale del 29 esprimono l’evidente necessità di un’alternativa a questo sfacelo.

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