Il rapporto appena pubblicato dall’Ocse dal titolo “Pensions at Glance“, che tratta appunto del panorama dell’evoluzione dell’andamento dell’età lavorativa, lancia l’allarme: gli attivi sono in crollo e chi è nato nel 1997 potrebbe finire in pensione a 70 anni.
Nello studio si legge: “sulla base della legislazione in vigore l’età normale della pensione aumenterà in oltre la metà dei Paesi Ocse per stabilirsi in una forchetta compresa dai 62 anni in Colombia (per gli uomini, 57 per le donne), nel Lussemburgo e in Slovenia, ai 70 anni o più in Danimarca, Estonia, Italia, Paesi Bassi e Svezia“.
Questa soglia scatterà in Italia, secondo i meccanismi automatici legati all’aspettativa di vita, nel 2067. Chi oggi inizia a lavorare, e ha 22 anni (una situazione di un giovane che ha appena ottenuto una laurea triennale, per capirci), può “ambire”, sempre che avrà una carriera lavorativa piuttosto continuativa, ad andare in pensione con 46 anni e un mese di contributi nel 2071, a 68 anni.
Una vita tumulata nel lavoro, e non vale il detto “mal comune mezzo gaudio” se si pensa ad altri paesi che faranno persino peggio: in Estonia l’età pensionabile potrebbe arrivare a 71 anni, in Danimarca addirittura a 74. Dei 38 paesi Ocse, ovviamente, non tutti stanno vivendo prospettive del genere.
L’età di pensionamento media del gruppo, lo scorso anno, era di 64,7 anni per gli uomini e 63,9 anni per le donne. Per chi ha iniziato a lavorare nel 2024, la prospettiva era un po’ più alta: in media, 66,4 anni per gli uomini e 65,9 anni per le donne. Ma alcuni paesi, come Colombia, Slovenia e Lussemburgo, tolte possibili riforme, lasceranno invariata la propria età pensionabile.
È scontato affermare che ciò dipenderà anche dal rapporto tra popolazione in età lavorativa e anziani. Da qui al 2050, riferisce l’Ocse, la proporzione tra la popolazione sopra i 65 anni e quella tra i 20 e i 64 aumenterà di oltre il 25%. In numeri, ciò si traduce nel fatto che se oggi ci sono 39 persone oltre i 65 anni ogni 100 in età attiva, in un quarto di secolo queste diventeranno 64 ogni cento.
La discesa media della popolazione in età lavorativa è prevista intorno al 13%, ma in Italia il calo potrebbe superare il 35%, attestandosi tra i dati peggiori dell’Ocse. E non c’è dubbio: meno sono i giovani, meno possono essere i contributi con i quali si pagano le pensioni.
Però bisogna evitare di scadere nella trappola preparata dalla propaganda neoliberista, che prende i numeri sulla spesa pensionistica per giustificare i tagli o l’aumento dell’età pensionabile. Perché, innanzitutto, abbiamo esistono vari sistemi di pagamento pensionistico: se un sistema fondato sui contributi non basta, allora deve essere la fiscalità generale a pagare il rimanente.
Ovviamente, questa opzione viene rifiutata perché è evidente che, per trovare le risorse, bisognerebbe finalmente riformare la tassazione in maniera più equa, e prendere molto di più dai redditi più alti. Collegato a ciò, c’è proprio la seconda motivazione, ovvero che la quiescenza dopo 40 anni di lavoro è il risultato di un patto sociale.
Uno dei tratti delle società che vogliono dirsi civili dovrebbe essere quello di non far più lavorare gli anziani, e garantire loro dei diritti economici, che dovrebbero essere tali non secondo virtù di bilancio. Questo traguardo del passato è però una conquista delle lotte dei lavoratori, e da decenni le classi dirigenti stanno trasformando questo patto sociale.
La pensione non è più un diritto che serve a salvaguardare la vita di chi è arrivato ai limiti dell’età lavorativa, come obiettivo sociale, ma è tornata a essere poco più di una prestazione assicurativa individuale, quantificata con un calcolo sempre più insufficiente, e relegata ad anni in cui il lavoratore è già stato spremuto in ogni sua forza ed energia, quando ormai insomma non può essere più sfruttato ulteriormente.
Tenendo presente questo aspetto, i tre omicidi giornalieri di lavoratori, il tentativo di peggiorare ulteriormente le condizioni di lavoro, la riduzione dei servizi sanitari, è anche facile mettere in dubbio che le prospettive di vita aumentino ulteriormente. Ma ciò non avverrà, dunque, per raggiunti limiti naturali, bensì perché il capitale avrà preso tutto dalla forza lavoro, fino a distruggerla.
La necessità di riaccendere il conflitto, sociale e politica, emerge da sola, una volta avuta questa presa di coscienza.
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