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Tortura. Una ordinaria prassi nelle “missioni di pace”

La notizia è di quelle che segnano duramente la carne e la psiche delle vittime e le rimozioni collettive di uno Stato. I militari italiani inviati in Iraq nel 2003 torturavano i prigionieri per estorcergli informazioni. Ma era già accaduto, in Somalia ad esempio.

La rivelazione, come noto, è arrivata tramite due filmati – con relative dichiarazioni – resi pubblici dal programma “Le Iene” e dal conduttore Luigi Pelazza. Un ex militare a viso scoperto e un altro invece a viso coperto e con voce contraffatta, hanno confermato che nella base militare delle truppe italiane “White Horse” d Nassirya c’era una palazzina dove alcuni militari “specialisti” (definiti in codice esecutori) torturavano i prigionieri iracheni.

Guarda il video con le due interviste

Scoprire che la base militare di Nassirya, quella fatta saltare con un attentato dalla guerriglia irachena che provocò vittime tra i militari italiani, non fosse quell’avamposto della missione di pace che hanno voluto far credere, ma un impianto militare con annessa stanza delle torture, è decisamente un macigno che piove sulla testa di tutti coloro che intorno ai “martiri di Nassirya” hanno provato a costruire una retorica pelosa e la toponomastica di molte città italiane.

Che a Nassirya poi i torturassero i prigionieri non è proprio una novità. Qualcosa era già venuto fuori già nel 2004, solo che ci si era accontentati di liquidare la vicenda sostenendo che i torturatori erano poliziotti iracheni con il silenzio-assenso di militari e carabinieri italiani.

Un articolo de La Repubblica (firma Carlo Bonini) scriveva il 13 maggio 2004:

“Nelle camere di sicurezza della galera di Nassiriya, la polizia irachena ha sistematicamente torturato e abusato dei prigionieri che in quei fetidi stanzoni venivano scaricati. Non era un segreto per nessuno. Non in Iraq, perché di quelle violenze erano stati più volte testimoni i carabinieri italiani del Msu (Multinational specialised unit). Non a Roma, al Comando Operativo di vertice interforze (Coi) del ministero della Difesa, dove, dal giugno del 2002, siede il tenente generale Filiberto Cecchi. Almeno uno dei comandanti che si sono avvicendati al comando dell’unità del Msu dell’Arma, il colonnello Carmelo Burgio, di quelle violenze ripetute informò infatti nel tempo la sua catena gerarchica che al ministero della Difesa faceva riferimento. A Nassiriya, il comandante della task force italiana, generale Gian Marco Chiarini (e prima di lui il generale Bruno Stano). A Bassora, il comandante del nostro contingente, generale Francesco Paolo Spagnuolo” (…)

E ancora più avanti l’articolo così scriveva delle dichiarazioni del colonnello Burgio:

“L’ufficiale dei carabinieri, rientrato dall’Iraq il 25 marzo scorso e oggi comandante del reggimento “Tuscania”, affida al Corriere della Sera una lunga intervista. Delle camere di sicurezza di Nassiriya, dice: “Credo che il povero Massimiliano (il maresciallo Bruno ndr.) facesse parte di una squadra addetta alla supervisione. Assisteva a scene disumane… Legnate sugli arrestati, bruciature di ferri da stiro sui corpi, uomini in fin di vita in spazi angusti infestati da topi”. Sui rapporti fuori controllo con la polizia locale irachena, aggiunge: “Con loro, il 9 marzo scorso, abbiamo addirittura ingaggiato un conflitto a fuoco per liberare due persone tenute prigioniere da giorni e vittime di orribili torture…”. Ce n’è abbastanza per il procuratore Intelisano per chiedere conto a Burgio di quelle circostanze. Ma, soprattutto, per incardinarle in una domanda chiave. Se è vero che il maresciallo Bruno affidò ciò che vide alle sole confidenze con la moglie, cosa ne fece Burgio di quelle informazioni?

Ad Intelisano, l’ufficiale risponde con precisione. Della situazione delle camere di sicurezza di Nassiriya – spiega – informò per tempo i suoi superiori gerarchici nel teatro di operazioni. Dunque, il comando della Task force a Nassiriya (il generale Chiarini), quello del contingente a Bassora (il generale Spagnuolo). Di più: stilò un primo rapporto scritto che consegnò alla magistratura irachena e di cui mise a conoscenza il generale Spagnuolo non appena questo assunse il comando, l’11 marzo scorso. Ancora: riferì in altro rapporto delle ragioni della sparatoria del 9 marzo tra carabinieri e polizia locale.

A sostegno di quel che dice, Burgio consegna alla Procura militare “documentazione” definita “di interesse”. In grado di far muovere l’indagine lungo la catena di comando che annoda Roma a Nassiriya. Di dare risposta ad una domanda che, oggi, sembra interpellare più la sfera della responsabilità politica ed etica (chi sapeva?), che non quella del codice penale militare di guerra cui gli uomini del nostro contingente sono soggetti. Aver assistito a torture della polizia locale e non averle impedite non è infatti un reato.

E non lo è perché sebbene quella polizia sia addestrata dal nostro contingente, priva com’è di ogni nesso di subordinazione gerarchica nei confronti dei nostri militari, dei suoi atti risponde penalmente in maniera autonoma. Di fronte alla magistratura irachena. Una circostanza che, evidentemente, non chiude l’affare. Burgio informò i suoi superiori. Ora, Intelisano – e non solo lui evidentemente – vuole capire se e fin dove nella catena di comando italiana gli “obblighi di comunicazione ai superiori” vennero osservati. Il generale Spagnuolo dice a Repubblica: “E’ vero, Burgio mi informò”. Non sarà l’unico chiamato a rispondere alla domanda”. (13 maggio 2004)

Ma le torture nella base militare italiana di Nassirya non sono neanche un esclusiva della missione militare in Iraq. Dieci anni prima c’era stato un precedente in un’altra missione “di pace”, la missione “Ibis” in Somalia.

Il precedente della “missione di pace” in Somalia


Nell’aprile del 2000 venne condannato per abuso di autorità un sottufficiale delle forze armate italiane Valerio Ercole, Il tribunale di Livorno emise la sua sentenza contro Ercole per le torture inflitte dai soldati italiani in Somalia nel 1997 durante un’altra “missione di pace”. Ercole vene condannato a un anno e sei mesi di reclusione (pena sospesa e non menzione) e al pagamento di una provvisionale di 30 milioni alla parte civile.
I fatti erano relativi al comportamento tenuto in Somalia da parte di alcuni militari italiani impegnati nell’operazione “Ibis”. Secondo quanto documentò il settimanale “Panorama”, anche con una serie di fotografie, il maresciallo Ercole, assieme ad altri due suoi commilitoni, applicò ai testicoli di un somalo, Aden Abukar Alì, due elettrodi, composti dai fili di un telefono da campo. Secondo il legale di quest’ultimo, Aden è diventato impotente, mentre la perizia ha escluso la presenza di danni organici. Dopo la pubblicazione delle foto, il tribunale di Livorno istruì il processo e rinviò a giudizio l’ex militare.

Ma quello di Aden Abukar Alì non fu l’unico caso. Nel 1998 vennero in Italia a testimoniare anche altri somali come Abdulle Mao Afrah, 50 anni, e Ibrahim Mohamud (27), che nell’aprile del 1993 vennero “incaprettati” a El Dere e duramente malmenati. Altre denunce sono quelle di Abdullahi Sheik Ismail (che dopo gli scontri del 3 luglio ’93 al check point “Pasta” di Mogadiscio afferma di essere stato picchiato da soldati del contingente italiano) e Abdullahi Hussein Omar, 40 anni, l’ex maggiore della polizia che nel ’93 era vicecomandante del commissariato di Johar, nel cui vicino campo militare sarebbe avvenuta l’ormai tristemente nota tortura con gli elettrodi.

Cinque semplici e ruvide conclusioni:

a) le missioni di pace in teatri di guerra non esistono, neanche se sono italiane, neanche se lo dice il Presidente della Repubblica;

b) se mandi dei militari in un teatro di guerra, quelli vanno ad ammazzare ed a farsi ammazzare. Vengono pagati per farlo e scelgono volontariamente di farlo. Ammazzano i “nemici” (do you remember “l’annichiscilo”?) e come in tutte le guerre estorcono informazioni ai nemici anche attraverso la tortura, soprattutto quando il nemico è “non convenzionale” come nel caso della guerriglia;

c) i soldati italiani in guerra non sono migliori né peggiori degli altri, sono come gli altri. Il mito degli “italiani brava gente” non aiuta la verità né l’autostima di un popolo;

d) quelli di Nassirya non possono essere considerati dei martiri, non erano innocenti, erano militati caduti in guerra

e) Non raccontateci più balle sulle missioni di pace

 

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