Nell’assemblea annuale di Confindustria, in corso oggi nell’auditorium di Viale dell’astronomia, a Roma, il presidente Emma Marcegaglia è tornata a chiedere un “cambio di passo”. Lo ha fatto davanti al presidente della Repubblica, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per la prima volta di un capo dello Stato all’assise degli industriali. Assenti invece Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti, a Deauville per il G8, mentre in platea sono presenti i presidenti di Camera e Senato, molti ministri, il governatore di Bankitalia Mario Draghi e i leader dei sindacati confederali.
Emma Marcegaglia è partita subito durissima, lanciando un “avviso finale” al mondo politico che “pensa ad altro”, per mettere in cantiere tutte quelle “riforme necessarie al Paese per tornare a crescere”. E se la bassa crescita è una “malattia”, gli industriali avvertono: «in un momento così, noi saremo pronti a batterci per l’Italia, anche fuori dalle nostre imprese». Infatti, «abbiamo incalzato la politica sulle priorità della crescita ma poi abbiamo preso coscienza che le priorità della politica erano altre».
In tema del lavoro, invece, ha benedetto «la proposta del ministro Sacconi di un avviso comune tra le parti sociali per costruire un nuovo Statuto dei lavori. Ci sono proposte di una parte riformista dell’opposizione su uno schema di riforma complessiva che considera anche la flessibilità in uscita». E naturalmente ha attaccato tutti quei soggetti sindacali e politici che vogliono difendere almeno alcune delle conquiste del lavoro, accusate di opporre «freni ideologici».
Ha difeso a spada tratta la “riforma dei contratti” firmata due anni fa con le sole Cisl e Uil, che avrebbe permesso di “modernizzare le regole della contrattazione”, rendendo possibili anche deroghe al contratto nazionale (introducendo quindi un nuovo mostro giuridico: il “contratto derogabile”). Ma un industriale non si accontenta mai. Ora «vogliamo assolutamente, in tempi brevi, arrivare a un accordo condiviso sulla rappresentanza e sulla esigibilità dei contratti». E quindi lo stesso accordo deve essere “derogabile” dal lato dell’impresa, ma vincolante (“esigibile”, ovvero non ridiscutibile in nessun punto, tantomeno con il ricorso allo sciopero) per i lavoratori e il sindacato che eventualmente volesse difenderne gli interessi.
Se su questo fronte Confindustria mostra di avere le idee chiarissime, è proprio sulla politica economica che non riesce a uscire dalla contraddizione: «la politica economica italiana deve essere guidata da due priorità, due vere emergenze da affrontare contemporaneamente: la stabilità dei conti pubblici e la crescita economica». Botte piena e moglie ubriaca, insomma; perché se lo stato non ha un euro da investire in infrastrutture e grandi opere (il volano classico di ogni “crescita” in condizioni di mercato globale difficili), l’unica variabile su cui si può agire è ancora una volta il valore della forza lavoro, che va costretta ad accettare condizioni di impegno lavorativo più gravose a fronte di salari immobili (quando va bene) o addirittura inferiori (non c’è problema: basta licenziare quelli con contratto a tempo indeterminato e sostituirli con altri a contratto precario).
Ma nonostante la propria confusione sui rimedi, indice certo di interessi differenziati all’interno di Confindustria, gli imprenditori italiani ci tengono a fare sapere di essere “delusi” dalla classe politica e chiedono di smetterla con gli «annunci estemporanei a cui spesso non sono seguiti passi concreti». Facile intravedere la silhouette di Silvio Berlusconi sullo sfondo di queste parole.
Ma non ne viene una benedizione dell’opposizione. «Ora che le difficoltà della maggioranza sono evidenti nel giudizio popolare, non per questo possiamo tacere che l’opposizione, tra spinte antagoniste e frammentazioni, è ancora incapace di esprimere un disegno riformista». E parte un invito a «uno scatto d’orgoglio di tutta la classe dirigente dal paese», perché «noi vogliamo istituzioni forti e autorevoli, istituzioni che sappiano recuperare la fiducia dei cittadini e delle imprese che oggi é gravemente erosa». E, notoriamente, gli interessi dell’impresa sarebbero solo “tecnici”, super partes.
Che cosa si propongono di fare, dunque, gli imprenditori, una volta che avranno il “loro” governo? Semplice. Un taglio della spesa pubblica al netto degli interessi del 7% in termini reali, come quello indicato dal Governo per il pareggio nel 2014, impone «un ripensamento complessivo della funzione dello Stato e riforme profonde. Non si possono risolvere i problemi con i tagli lineari nelle spese correnti e la scure sugli investimenti pubblici. Occorre scegliere. Occorrono interventi che non siano solo di quantità ma siano soprattutto di qualità, per aiutare la crescita. Occorre coinvolgere tutte le forze politiche e sociali». Non una nuova concertazione, che presupporrebbe un qualche compromesso, ma un “coinvolgimento” per assicurare che poi le misure draconiane che hanno in testa non inneschino la rivolta sociale.
Su tutto domina comunque la pressione dell’urgenza, l’impossibilità di “dare altro tempo” alla risoluzione dei contenziosi propri della sfera politica. Alle spalle c’è un «decennio perduto in termini di minore competitività e mancata crescita» per colpa di «divisioni e lacerazioni» che hanno riguardato i due poli della politica; le forze politiche sono «alle prese con fratture e problemi di leadership personali anteposti al benessere del paese».
Ce n’è anche per l’Europa, luogo in cui «i meccanismi di gestione della crisi dei debiti sovrani restano inadeguati e ciò contribuisce a destabilizzare i mercati, allarga il contagio, amplifica il costo politico sia nei Paesi creditori che in quelli debitori». Emma Marcegaglia chiede perciò «condizioni di aggiustamento (del debito pubblico entro i tempi fissati dalla Ue, ndr) meno stringenti e finanziamenti più consistenti, raccolti sul mercato anche attraverso l’emissione di union-bond». Ovvero “manovre finanziarie” meno drastiche e a scadenza più lunga, in modo da poter disporre di risorse pubbliche a favore della crescita. Risorse che vanno sottratte alla spesa sociale, insomma, ma non nella misura prevista dalla Ue, altrimenti – anche volendo – per le imprese non ci sarebbe possibilità di pretendere qualcosa (e in ogni caso si ridurrebbero troppo violentemente i consumi, compromettendo anche per questa via la crescita).
Naturalmente vuole la privatizzazione dell’acqua. Sul referendum, infatti, Marcegaglia spiega che «i proponenti danno messaggi fuorvianti o addirittura falsi: l’acqua come bene pubblico che sarebbe in pericolo e andrebbe difeso da rapaci interessi privati. Al contrario, l’acqua è resterà un bene pubblico», mentre «ciò che va privatizzata è la sua distribuzione». Ideologia e falsificazione allo stato puro; non una cosa nuova per gli imprenditori, specie se italiani. Basti leggere questa incredibile sortita: «Occorre proteggere i lavoratori dalla perdita di reddito, non dalla perdita del posto di lavoro». Insomma, noi li licenziamo quando ci pare, ma siccome ci serve che continuino a consumare le merci che produciamo, li paghi o li assuma qualcun altro.
Ma i padroni ci tengono ad apparire virtuosi, quindi anche loro devono mostrarsi disposti a fare sacrifici. «I profondi cambiamenti in corso nel mondo richiedono un altrettanto profondo cambiamento anche in Confindustria», che «non deve più servire per ottenere sussidi o incentivi che drogano il mercato. Confindustria deve tenere la guardia alta sui temi generali delle grandi riforme e favorire la libertà d’impresa, la concorrenza e la competitività». Basta attività di lobby, insomma; andiamo direttamente a riscrivere le regole e a riorganizzare l’amministrazione in quanto classe.
Ma di fretta. «Semplificazioni e liberalizzazioni subito. Infrastrutture subito. Riforma fiscale e riforma del mercato del lavoro subito». Marcegaglia rilancia così il pressing per le riforme sul governo, ben sapendo che il voto di domenica a Milano (e Napoli) può cambiare il quadro politico nazionale. «Un solo auspicio. Se il risultato elettorale finale convincerà governo e maggioranza di avere davanti a se ancora due anni di lavoro la loro agenda deve concentrarsi su un’unica priorità: la crescita». Altrimenti come direbbe Bossi, “föra de’ ball”. Perché il tirare a campare, con un governo sempre più screditato, diventa pericoloso. «Alla lunga, senza sviluppo economico, senza crescita, alza la testa il populismo, vengono messi in discussione i fondamenti stessi della democrazia».
Un avviso che viene rivolto anche al “metodo Marchionne”, che di fatto ha rinfocolato la capacità oppositiva dei lavoratori e persino di una frazione della Cgil: “piano con gli strappi”, Confindustria rappresenta tutta “la classe”degli imprenditori, non qualcuno in particolare. «Non agiamo sotto la pressione di nessuno. Non pieghiamo le regole della maggioranza per le esigenze di un singolo». Perché, dice con una digressione rispetto al testo preparato e distribuito alla stampa, quindi ancor più significativa, «sono finiti i tempi in cui poche aziende decidevano l’agenda di Confindustria, proseguiremo a modernizzare le regole sindacali senza strappi improvvisi che fanno male al sistema delle imprese e del Paese». Si sente insomma il peso negativo che la ripresa della conflittualità innescata da Pomigliano e Mirafiori, con il seguito di vertenze e cause legali in tutta la metalmeccanica nazionale, ha avuto sull’insieme delle imprese.
Ma il nemico sono quei sindacati che pretendono, assurdamente, di rappresentare chi lavora e paga le quote: la Fiom «continua a dire solo no» e «si assume una grave responsabilità di fronte al paese, ai giovani e al mezzogiorno. Continuare a difendere l’occupazione in italia sarà sempre più difficile». Emma Marcegaglia, garantisce che gli imprenditori vogliono «assolutamente, in tempi brevi, arrivare a un accordo condiviso sulla rappresentanza e sulla esigibilità dei contratti. Servono regole che, per la governabilità delle aziende e per la tutela stessa dei lavoratori, sanciscano che un accordo firmato dalla maggioranza vale per tutti». Da notare che “maggioranza”, nel caso della metalmeccanica, significa “la maggior parte delle sigle sindacali”, non “la maggioranza dei dipendenti”. Cui, non a caso, non si chiede un parere sugli accordi sindacali sottoscritti “in loro nome”.
Ma il tema fondamentale resta la crescita, che significa spazio di business da allargare. E, visto che nei settori già privati l’imprenditoria italiana soffre moltissimo la concorrenza (per propria incapacità, in primo luogo) ecco che si indica il terreno da conquistare. «Occorre ridurre ciò che lo Stato fa oggi, lasciando più spazio ai privati e al mercato. Uno Stato che smetta di fare male il troppo che fa e che invece faccia bene l’essenziale che deve». La polizia, l’esercito e la raccolta delle tasse. Niente altro.
Una nota finale comica per sollevare un po’ lo spirito dei nostri lettori:quella della Marcegaglia «È una relazione molto equilibrata, molto tecnica, priva dei tanti equilibrismi che si vedono spesso». E’ il commento del segretario generale della Uil, Luigi Angeletti.
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