Come si stabilisce se un contratto di lavoro rappresenta davvero la volontà dei contraenti (imprese e lavoratori)? Ovvero, se chi firma – essendo «collettivi» tutti i contratti non aziendali – rappresenta sul serio la propria parte? La domanda, naturalmente, ha senso solo dal lato dei lavoratori, perché le imprese sono i «soggetti forti» e sono loro, da 30 anni a questa parte, a dettare le condizioni di ogni rinnovo (anche se il «modello Marchionne» destabilizza l’intero sistema delle relazioni industriali). La domanda non ha più una risposta dal momento della rottura dell’unità sindacale sulla «riforma del modello contrattuale», a gennaio 2009.
In questi giorni si avverte un lavorio frenetico sottotraccia che punta a trovare una soluzione purchessia a questo problema. Non indolore. La presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, sembra la più determinata. Ieri ha dovuto richiamare all’ordine un pasdaran dell’«innovazione» come Luigi Angeletti – segretario generale della Uil – definendo «priva di senso» la sua ipotesi di «disdettare gli accordi del ’93», che aprirono la fase della concertazione (e del blocco salariale).
Voci insistenti – in realtà ben più che semplici «voci» – danno lo stesso Angeletti, il pari grado in Cisl Raffaele Bonanni, il ministro del welfare Maurizio Sacconi e naturalmente Confindustria, propense a siglare un «avviso comune» che il governo si incaricherebbe di trasformare in legge. Un magheggio immaginato per tagliar fuori completamente la Cgil (e la Fiom) come «soggetto trattante», ma soprattutto per eliminare le Rappresentanze sindacali unitarie (elette dai lavoratori con sistema proporzionale, anche se con «riserva» di un terzo per i confederali) sostituendole con le Rsa (delegati nominati dai sindacati stessi). Ma un magheggio soprattutto mirante a eliminare il «parere vincolante» (il voto) di coloro che poi dovranno subire le conseguenze dei contratti stessi: i lavoratori.
La segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso, cui è stato chiesto – guarda caso dal quotidiano di Confindustria – un parere sull’«avviso comune», ha risposto negativamente. Ma il problema dei contratti e della rappresentanza, si diceva, imbarazza anche le imprese. Ieri il neopresidente dell’Unione industriali di Bologna, Alberto Vacchi, è stato molto chiaro: «Non ci sentiamo di essere parificati al mondo Fiat. In realtà come la nostra bisogna rendersi conto che, pur aprendoci a tutte le organizzazioni sindacali, non si può prescindere dall’interlocutore Cgil-Fiom». Isolarla è «oggettivamente complicato», visto che «l’obiettivo non è fare il tagliafuori, ma di convolgere tutte» le sigle. Anche perché il tipo di imprese presenti localmente non hanno «l’obiettivo di delocalizzare, ma di mantenere sul territorio solide basi produttive». Un’altra linea? No, «non voglio rinnegare quanto fatto da Federmeccanica», ma «se mi chiedete se è auspicabile una presidenza di Federmeccanica a un imprenditore bolognese, non posso che rispondere positivamente». Altri problemi, diciamo.
In questi giorni si avverte un lavorio frenetico sottotraccia che punta a trovare una soluzione purchessia a questo problema. Non indolore. La presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, sembra la più determinata. Ieri ha dovuto richiamare all’ordine un pasdaran dell’«innovazione» come Luigi Angeletti – segretario generale della Uil – definendo «priva di senso» la sua ipotesi di «disdettare gli accordi del ’93», che aprirono la fase della concertazione (e del blocco salariale).
Voci insistenti – in realtà ben più che semplici «voci» – danno lo stesso Angeletti, il pari grado in Cisl Raffaele Bonanni, il ministro del welfare Maurizio Sacconi e naturalmente Confindustria, propense a siglare un «avviso comune» che il governo si incaricherebbe di trasformare in legge. Un magheggio immaginato per tagliar fuori completamente la Cgil (e la Fiom) come «soggetto trattante», ma soprattutto per eliminare le Rappresentanze sindacali unitarie (elette dai lavoratori con sistema proporzionale, anche se con «riserva» di un terzo per i confederali) sostituendole con le Rsa (delegati nominati dai sindacati stessi). Ma un magheggio soprattutto mirante a eliminare il «parere vincolante» (il voto) di coloro che poi dovranno subire le conseguenze dei contratti stessi: i lavoratori.
La segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso, cui è stato chiesto – guarda caso dal quotidiano di Confindustria – un parere sull’«avviso comune», ha risposto negativamente. Ma il problema dei contratti e della rappresentanza, si diceva, imbarazza anche le imprese. Ieri il neopresidente dell’Unione industriali di Bologna, Alberto Vacchi, è stato molto chiaro: «Non ci sentiamo di essere parificati al mondo Fiat. In realtà come la nostra bisogna rendersi conto che, pur aprendoci a tutte le organizzazioni sindacali, non si può prescindere dall’interlocutore Cgil-Fiom». Isolarla è «oggettivamente complicato», visto che «l’obiettivo non è fare il tagliafuori, ma di convolgere tutte» le sigle. Anche perché il tipo di imprese presenti localmente non hanno «l’obiettivo di delocalizzare, ma di mantenere sul territorio solide basi produttive». Un’altra linea? No, «non voglio rinnegare quanto fatto da Federmeccanica», ma «se mi chiedete se è auspicabile una presidenza di Federmeccanica a un imprenditore bolognese, non posso che rispondere positivamente». Altri problemi, diciamo.
da “il manifesto” del 9 giugno 2011
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