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«Il nostro voto diventi legge»

 

 ROMA. Stefano Rodotà – uno dei padri dei due quesiti referendari sull’acqua – non ama usare le mezze parole. Parla a braccio, non stacca lo sguardo dalla platea stracolma del Teatro Vittoria – mai nome è stato più appropriato – dove i protagonisti, quelli veri, del successo del voto del 12 e 13 giugno si sono dati appuntamento: «Questa è stata un’azione collettiva contro le oligarchie, abbiamo vissuto un grande evento contro l’idea liberista della politica». Se è chiaro chi ha vinto i refendum, è oggi anche chiaro chi ha perso sul tavolo dei beni comuni. Sono state sconfitte le tesi e le pratiche di chi ha consegnato i beni essenziali per la vita alla finanza speculativa, le alleanze perverse tra la politica locale e le grandi multinazionali dei servizi, che si sono mostrate negli ultimi vent’anni in quel modello di gestione privata dell’acqua spacciata per democratica attraverso le gestioni miste.

L’assemblea dei movimenti per l’acqua – che prosegue i lavori fino a questa sera a Roma – ha disegnato la stratigrafia del referendum. Significati, lotte, speranze, anni di vertenze contrastati dai silenzi mediatici imposti come nelle peggiori false democrazie e dai tentativi di repressione più o meno mascherati si sono mescolati in quei due Sì all’acqua bene comune. E ora emergono, chiedono dignità, rispetto e onestà politica. Lo chiedono a tutti, agli amici di sempre e ai nemici che nessuno si aspettava.
Con il referendum è stata poi sconfitta la lunga e asfissiante stagione politica del post 1994. «Questa campagna elettorale rappresenta anche l’uscita dal degrado del linguaggio – ha continuato Rodotà – ed ora abbiamo capito che non potremmo mai più accettare di discutere con chi usa certe parole». E ancora, continuando nel paziente lavoro di lettura dei tanti significati, che si accumulano attorno ai 27 milioni di voti referendari: «È la vittoria della Costituzione questa – ha spiegato Rodotà, indossando per un momento l’austero vestito di costituzionalista – e il tema specifico dell’acqua ci ha detto che c’è una politica costituzionale non astratta, ma strumento usato dai cittadini per difendere i beni essenziali. E questo è il bene che dobbiamo ora difendere».
Sono passate due settimane dalla vittoria storica dei Sì. Meno di quindici giorni vissuti intensamente, cercando di capire cosa accadrà ora, in uno slalom complicato e pericoloso per evitare i frutti avvelenati che arrivano in silenzio. Come quella legge del Pd, brutta, bruttissima che l’assemblea dei movimenti per l’acqua non ha paura di respingere al mittente.
È dunque ora che la palla ritorni a chi quei referendum li ha promossi, costruiti con pazienza, nonostante il silenzio ostile dei media e l’ostilità colpevole del servizio televisivo pubblico. «Noi siamo i custodi di quei ventisette milioni di voti – ha spiegato Marco Bersani, di Attac Italia – ma non ne siamo i padroni, perché quel voto appartiene solo ai cittadini. Come ogni custode dobbiamo proteggere quel voto e renderlo realizzabile: il popolo italiano ha deciso, ora le istituzioni devono eseguire». Il leit motiv degli interventi – oltre sessanta nel primo giorno dell’assemblea – era in fondo semplice. Il voto, così come definito anche dalla Consulta nella sentenza di ammissibilità dei quesiti, deve essere semplicemente attuato, subito. Ad iniziare dal punto più controverso, l’abolizione della remunerazione del capitale investito, il punto che sta allarmando le società per azioni a capo della gestione privatizzata dell’acqua. «In quel 7 per cento c’è la borghesia mafiosa – ha spiegato Alberto Lucarelli, neo assessore ai beni comuni della giunta De Magistris -, c’è la corruzione, che ha consentito di fare affari sul bene comune». Non è, dunque, solo una questione di tariffe dell’acqua, ma di modelli di gestione che sono stati respinti in maniera cristallina dal voto del 12 e 13 giugno.
Il problema è l’immediato futuro. C’è il rischio di una sorta di istituzionalizzazione del movimento, che nessuno si nasconde. Ma gli anticorpi sono ancora più vivi, coltivati nei tantissimi comitati locali, una spina dorsale che non ha nessuna intenzione di abbandonare il campo. Anzi. «Per via ordinaria non riusciremo ad ottenere i risultati – ha spiegato Stefano Mencucci, del comitato di Arezzo, prima città italiana a scegliere, dieci anni fa, il modello di gestione mista – e penso quindi ad atti di disobbedienza civile organizzati a livello nazionale. Dobbiamo far saltare il banco, mandando a casa il gestore privato, attraverso la mobilitazione, l’autoriduzione, le contestazioni. Dobbiamo dare speranza ai 27 milioni di cittadini che hanno votato per il referendum». Una realtà, quella di Arezzo, che richiama immediatamente la città simbolo della battaglia per l’acqua pubblica, Aprilia: «Questo è il momento più difficile – spiega Alberto De Monaco, del comitato della cittadina laziale -. Io voglio dirvi che come territorio noi non permetteremo a nessuno di cambiare il senso del referendum, non delegheremo nessuno per annacquarlo».
Territori, comitati, vertenze, azioni di disobbedienza civile – come chiedeva già prima del referendum padre Alex Zanotelli – come punto di ripartenza del movimento. Un’azione che inevitabilmente si incrocerà con il livello politico, sul campo del confronto sul modello di gestione pubblica possibile: «Perché la questione dell’acqua sta facendo emergere il nodo della democrazia», come ha spiegato Margherita Ciervo del comitato pugliese acqua pubblica.

 

il manifesto | 03 Luglio 2011

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