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Genova, la crisi e il pianeta mangiato dal profitto

La struttura è molto bella, disegnata da Renzo Piano. Il posto, i genovesi, lo chiamano ancora Caricamento. Ma qui il porto non c’è più, «si carica» al massimo qualche turista voglioso di vedere archeologia portuale.

Sotto il tendone veleggiante un campione di umanità che non vedete mai nei Tg (se non in qualche spezzone degli scontri di dieci anni fa), fatta di sindacalisti «non allineati», ex ragazzi del 2001 e giovanissimi dei centri sociali, anziani e lungimiranti preti missionari (don Gallo e Alex Zanotelli, come dice qualcuno «quasi una frazione del Vaticano»), protagonisti dei referendum sull’acqua e dei conflitti sui beni comuni. Il tema è semplice, come quando si è costretti a misurarsi coi “massimi sistemi”: è possibile salvare il mondo? I dieci anni non sono passati invano. Addio vaghezze desideranti su «un altro mondo è possibile», avanti la durezza estrema di «un altro mondo è necessario»: questo, concreto, puzzolente, in dismissione e smantellamento.
Ma c’è un ma. I vertici globali, i “decisori” del mondo, dicono di voler realizzare lo stesso scopo. A Durban, in Sudafrica, a novembre, cercheranno di fissare le norme che poi tutti dovrebbero eseguire. Zitti zitti si sono confrontati già due volte (in Thailandia e Germania) per smussare le divergenze. E quel che ne viene fuori è l’esatto contrario, ovvero la privatizzazione di tutto per «mettere a valore» quella cosa «inutile» che è la natura. Multinazionali, grandi potenze, organismi internazionali stanno mettendo a punto un dispositivo fatto di «mercato, green economy e privatizzazioni». Questo processo può essere osservato da diverse angolazioni analitiche. Per qualcuno è un «tentativo di riorganizzazione del capitale» (come se fosse un unico corpo dotato di logica), per altri è l’ultimo business ipotizzabile da un sistema produttivo che non riesce a trovare una merce-pilota della crescita globale (come l’automobile nel dopoguerra) né tantomeno un’energia sostitutiva del petrolio. Comunque sia, l’aggressione ai «beni comuni privi di padrone» è potente, palese, disperata. Il mix risultante dalla «finanziarizzazione» della natura (come vedete la difesa delle foreste in mano alle corporation del legno? O la commercializzazione dei diritti di emissione del carbonio? O la libertà di fare piantagioni di pannelli solari in pianura al posto delle colture alimentari?) può essere letale anche nel giro di un decennio.
Quelli di Rigas (Rete italiana per la giustizia ambientale e sociale, nata un anno fa) si propongono di portare a Durban l’esperienza italiana, che ha avuto nei referendum e nell’opposizione popolare all’alta velocità in Val di Susa due momenti di grande valore politico, capaci di coniugare radicalità di obiettivi e dimensione maggioritaria di massa. Perché non si tratta più di avere solo un pensiero “critico” dell’esistente, ma un pensiero in grado di essere “egemone”; in modo da generare una prassi sociale praticamente alternativa alla logica del profitto privato.
Gianni Rinaldini, storico segretario generale dei metalmeccanici, lo dice con chiarezza: «Occorre individuare gli elementi che costituiscono contemporaneamente un vincolo sociale e un indirizzo per le scelte di politica economica e industriale». Perché la crisi – specie davanti al massacro sociale disegnato dalla manovra economica del governo, e che dovrebbe aggravarsi nei prossimi anni – contiene sempre in sé «il rischio della frammentazione delle risposte». Insomma l’antico dilemma «dalla crisi si esce tutti insieme per stare meglio, o ognuno per conto suo calpestando tutti»?
La dimensione di questi processi è ormai tale da spazzar via molte illusioni e almeno un merito l’ha avuto: ha messo fine all’eterna divisione – a sinistra – tra “anime belle” ambientaliste e “realisti d’acciaio” industrialisti. Il profitto cerca di mangiarsi il mondo per sopravvivere, e quindi «il capitalismo diventa incompatibile col pianeta». Ma solo il secondo può sopravvivere senza l’altro. E questo porto che «non carica» più smette di essere una metafora per diventare l’esempio della città più anziana d’Italia, dove le uniche attività che non hanno risentito della crisi sono le badanti per gli anziani e, naturalmente, le pompe funebri.

 

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Alessandra Fava – GENOVA
Movimenti/ MANIFESTAZIONE E CONVEGNO A PALAZZO DUCALE
«Io non dimentico la notte cilena» Lungo corteo fino alla scuola Diaz
«Che fine ha fatto la democratizzazione della polizia?» L’accusa del comitato Verità e giustizia

 

Una fiaccolata con un percorso più lungo del solito, da piazza De Ferrari alla scuola Diaz, ha attraversato ieri sera la città. Un serpente che ha toccato anche piazza Alimonda e rievocato a distanza di dieci anni la notte cilena, «la macelleria messicana» come ebbe a definirla un dirigente di polizia nella prima deposizione in procura (Michelangelo Fournier). Insomma l’assalto alla scuola del Genoa social forum nella notte tra il 21 e il 22 luglio, dove per perquisire un centinaio di persone e trarle in arresto, la polizia italiana, coadiuvata dai carabinieri, fece 63 feriti gravi e ridusse in coma l’inglese Mark Covell. Oltre a raccontare un mucchio di bugie, dalle ferite pregresse dei manifestanti che uscivano in barella al falso delle molotov e di un agente che sarebbe stato accoltellato da un manifestante mai catturato. Quell’operazione impedì ai magistrati e agli investigatori di ottenere qualsiasi collaborazione dalle polizie europee per trovare gli autori di atti di danneggiamento e così il processo ai 25 accusati di devastazione e saccheggio si restrinse praticamente a soli italiani.
Lo strappo di fiducia nelle istituzioni di un paese democratico non si è ricucito. «Il problema non si risolve con la caduta di Berlusconi – ha commentato ieri una spagnola della Diaz, poi a Bolzaneto, Mina Zapatero – perché è endemico e riguarda l’istituto della polizia».
Il problema della gestione dell’ordine pubblico da allora è insoluto. Anzi dimenticato. Nel dibattito «Genova luglio 2010, io non dimentico», tenutosi ieri a Palazzo Ducale,al quale sono intervenuti testimoni, avvocati e giornalisti, il sociologo Salvatore Palidda ha ricordato che «si è parlato di processo di democratizzazione delle forze di polizia fino all’inizio degli anni ’90. Poi basta e sono stati i governi di centrosinistra a stringere la morsa e manovrare le paure».
Quella notte ci ha lasciato una serie infinita di dubbi. Ad esempio come fa un giudice a fidarsi di un poliziotto indagato o condannato, col quale dovrebbe lavorare. Tema d’attualità: «Ricordiamo che nel nostro Paese ci sono poliziotti condannati che restano al loro posto» ha detto uno degli avvocati genovesi facendo riferimento a casi recenti. Un giurista di vaglia come Livio Pepino, prima membro del Csm e presidente di Magistratura democratica, una soluzione ce l’ha: «Il problema sul rapporto di fiducia tra magistrato e polizia resta insoluto finché non si stabilisce una distinzione tra polizia giudiziaria e polizia che si occupa di ordine pubblico». Intanto l’appello «Operazione trasparenza» sulle forze dell’ordine lanciato in rete da Amnesty international è stato firmato in 40 ore da oltre 3 mila persone.
La presidente del comitato Verità e giustizia, Enrica Bartesaghi, che ha seguito i processi Diaz e Bolzaneto nei quali era coinvolta anche la figlia Sara in quanto presente nella scuola del levante genovese quella notte, ha commentato: «Nelle aule che ho frequentato tanto in questi anni (confesso che non avevo mai messo piede prima in un tribunale) leggo che la legge è uguale per tutti. Oggi dopo i processi in appello penso che per qualcuno è un po’ più uguale». Bartesaghi insiste su quattro richieste: abolizione dei gas Cs, abolizione delle armi da fuoco nell’ordine pubblico, riconoscimento del reato di tortura oggi in Italia e l’introduzione di un numero identificativo per gli agenti.

 

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«Don’t clean up this blood», film di Vicari con Germano e Santamaria

 

«Dont’ clean up this blood». Non pulite questo sangue. Daniele Vicari è attualmente in Romania a girare il film sulla notte cilena di Genova. «La più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale», come Amnesty International definì quella notte alla Diaz di 10 anni fa. Sarà una produzione internazionale guidata dalla Fandango di Domenico Procacci con Mandragora Movies (Romani) e Pacte francese, quella del film che vede tra i protagonisti due attori importanti come Elio Germano e Claudio Santamaria. «Settantacinque persone condotte al carcere di Bolzaneto il 21 luglio alle ore 24, 400 poliziotti fanno irruzione nella scuola dove ci sono 93 persone: il bilancio è di 70 feriti, 3 in prognosi riservata, uno in coma» dice il teaser trailer del film che ieri ha aperto il sito dedicato www.diazilfilm.it, con immagini di scontri e violenze in una notte che fu definita da «macelleria messicana» e in cui la parola tortura fu più volte utilizzata. Un «film tabù» completamente basato sugli atti del processo, «senza grandi invenzioni se non quelle che servono per trasformare le testimonianze in materiale narrativo per il cinema», spiega Procacci, «ma non farà vedere l’aula di tribunale dove dopo i primi due gradi di giudizio siamo in attesa ora del terzo e definitivo. Nei titoli del film contiamo di mettere come è andata a finire». Sempre la Fandango sul G8 ha mandato recentemente alle stampe un libro di Alessandro Mantovani «Diaz processo alla polizia».
da “il manifesto” del 22 luglio 2011

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