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No Tav, oggi manifestazione in valle

 

Paura per il corteo No Tav. I sindaci: non ci saremo

Il ministro Maroni: giornata clou, nuove misure per isolare
i violenti

 

MASSIMO NUMA

La lunga estate calda dei No Tav della Val Susa contro il primo cantiere della Torino-Lione, alla Maddalena di Chiomonte, aperto dopo 22 anni di strenuo contrasto, forse potrebbe chiudersi oggi. Con una marcia-simbolo organizzata dalle tante anime diverse del movimento e da tutti i comitati. Circonderà le recinzioni di quello che viene definito, dagli oppositori, il fortino di «Chiomontistan», dopo l’arrivo delle truppe alpine della Taurinense, impegnate nel controllo della rete di comunicazione interna e dei vari check-point. Ma il presidente No Tav della Comunità Montana, Sandro Plano, pd, non ci sarà, e con lui tutti i sindaci eletti nelle liste civiche appoggiate dai No Tav. Un segnale forte, di discontinuità dalle scene di violenza che, qui in Val Susa, i seguaci di Plano dividono però in modo equo tra i comportamenti illegali di «poche centinaia di facinorosi fuori controllo» e la reazione, piuttosto decisa e soprattutto efficace, dello Stato. Una rigida equidistanza che piace poco ad altri politici piemontesi. Come al parlamentare pd Stefano Esposito. Lui chiede da tempo l’istituzione del presidio militare per un sito di interesse strategico nazionale mentre Agostino Ghiglia, del pdl, pretenderebbe azioni «repressive» contro i «teppisti». Ieri altre sette perquisizioni della Digos, nel mirino estremisti e anche No Tav della prima generazione. Il ministro dell’Interno Maroni parla di «giornata clou e di nuove misure per contenere e isolare i violenti».

E ci sono forti timori che avvengano di nuovo episodi di guerriglia come l’altra notte, quando due o trecento incappucciati, armati di spranghe, bastoni, bombe-carta potentissime, bulloni agganciati con lo scotch ai raudi, di fionde che lanciano piccoli e micidiali proiettili di piombo, hanno tentato l’ennesimo assalto al cantiere, miseramente fallito come tutti i precedenti. In questo caso, dopo tre ore di continui lanci di pietre e tutto il resto, i black bloc (così definiti dal capo della Digos, Giuseppe Petronzi) provenienti da Spagna, Francia e da ogni parte d’Italia, avvolti da nuvole di lacrimogeni sparati dagli schieramenti anti-sommossa e centrati dai getti d’acqua degli idranti, si sono finalmenti ritirati nei boschi della frazione Ramats di Chiomonte. Ci sono stati sei feriti, tra le forze dell’ordine, nessuno almeno ufficialmente – dall’altra parte. Il copione della violenza si ripete, ormai da un mese. Sempre eguale. Uno dei leader dei No Tav, Alberto Perino (già indagato dai pm della procura di Torino per istigazione a delinquere), martedì scorso in una conferenza stampa avvenuta all’interno di un presidio, era stato chiaro: «Basta attacchi davanti ai cancelli del cantiere vicino al camping, i “giovanotti” con le cesoie devono andare su nei boschi, per colpire le recinzioni dove ci sono i terreni da espropriare, dove nascerà il vero cantiere».

Detto fatto. E così, nella notte tra giovedì e venerdì la «legione straniera» dei No Tav – la percentuale dei valsusini tra i manifestanti arrestati, denunciati o sottoposti a misure di sorveglianza è molto inferiore al 10 per cento – ha subito obbedito ai nuovi ordini, e s’è lanciata contro le massicce protezioni. Paradosso. Una parte del movimento ha adottato senza un attimo di esitazione i black bloc. Anzi, il neo- slogan che si affianca ai soliti, oggi suona così (anche in dialetto piemontese): «Siamo tutti black bloc». Lassù, nel camping «resistenze», è nato una specie di laboratorio sociale. Si sono ritrovati soggetti e gruppi anti-sistema o anti-stato provenienti da storie individuali e dalle esperienze più diverse: ci sono i grillini, tra i più esagitati e convinti; segmenti del popolo viola; frange dell’ecoanarchia, legata a doppio filo con il terrorismo internazionale; i centri sociali che hanno aperto agenzie in Val Susa e infine i delusi, gli scontenti della politica, di tutti i partiti del mondo, gli indignados e un nucleo di ex terroristi, in particolare di Prima Linea. Il tema di partenza, cioè il il No al Treno e al Grande Buco della Montagna, ridotto – per troppi – a un confuso totem ideologico. Comunque da abbattere.

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da Repubblica

 

ALTA VELOCITA’

Maroni: “Domani giorno clou
ma pronti a ogni evenienza”

Dopo la notte di violenze nell’area del cantiere, il ministro dell’Interno avverte i manifestanti no tav: “Siamo attrezzati a fronteggiare la violenza”

“Domani sarà la giornata clou, perché ci sarà la chiusura del campeggio, però siamo attrezzati a fronteggiare, come abbiamo fatto finora, la violenza di questi manifestanti”. Così il ministro dell’Interno Roberto Maroni, lasciando il consiglio federale della Lega Nord, ha risposto ai giornalisti sui disordini legati alle manifestazioni No Tav in Val di Susa. Maroni annuncia per le prossime settimane “alcune iniziative per garantire la prosecuzione dei lavori e isolare i violenti”. Le ha valutate oggi con il Prefetto di Torino, Alberto Di Pace, e dice che “è stata fatta un’azione di prevenzione importante dal punto di vista info-investigativo” che “porterà buoni e importanti risultati per garantire la prosecuzione dei lavori”. Il campeggio degli attivisti che si oppongono alla linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione è cominciato due settimane fa e si trova proprio alla Maddalena di Chiomonte (Torino), nei boschi a ridosso dell’area del cantiere della Tav. Il programma prevede una marcia da Giaglione a Chiomonte, forse anche una fiaccolata, con centinaia di persone ma anche il rischio di nuovi disordini.

Nella notte, intanto, nell’area del cantiere, sono tornati disordini e violenza: circa 200 manifestanti, aderenti all’area antagonista, di matrice autonoma e anarchica, la maggior parte dei quali con il viso coperto, indossando caschi e maschere antigas – secondo le informazioni diffuse dalla Questura di Torino – hanno

attaccato il cantiere in due diversi punti (la zona dell’area archeologica e quella del viadotto Ramat sull’autostrada A32 Torino-Bardonecchia).

Per circa un paio d’ore hanno lanciato pietre, biglie metalliche, bulloni, petardi, bombe carta, fumogeni e fuochi d’artificio contro le forze dell’ordine che hanno risposto con con getti d’acqua degli idranti e lancio di lacrimogeni. Un gruppo di manifestanti ha anche agganciato la rete di recinzione con un arpione nel tentativo – non riuscito – di forzarla; la Polizia li ha prima allontanati e poi ha reciso il cavo di acciaio al quale era collegato l’arpione. Per motivi di sicurezza, l’autostrada A32 è stata chiusa al traffico per circa tre ore.

Alla fine sono rimasti feriti un dirigente e tre agenti di Polizia, un maresciallo dei Carabinieri e un agente della Guardia di finanza, colpito a un piede da una bomba carta. E’ stato portato in ospedale e dimesso oggi stesso.
In mattinata, a Torino e in Val Susa sono scattate le perquisizioni nelle abitazioni di sette elementi ritenuti vicini all’area anarchica, autonoma e dei Centri sociali. Sono state sequestrate due fionde, una balestra e alcune maschere antigas.

Altre 57 maschere antigas erano state sequestrate ieri, dalla Polizia Stradale, a un un uomo di 46 anni di Torino, aderente – secondo gli investigatori – al Comitato di lotta popolare contro l’alta velocità. Aveva anche 96 sfere di piombo e una fionda sportiva. Da qualche giorno – ha scoperto la Polizia – in tutta la valle e nel Torinese, nei negozi di materiale edile, c’è stato un vero e proprio boom nella vendita di caschi di protezione, maschere antigas e guanti imbottiti.

 

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Mauro Ravarino SALUGGIA (VERCELLI)
SCORIE A Saluggia rispunta la Sogin e parte il D2, il megacontenitore «temporaneo» che aspira a diventare «permanente»
Un deposito per ogni emergenza
Oltre 30mila metri cubi e 13 metri di altezza per una vita utile di 50 anni. A soli 12 milioni di euro

 

SALUGGIA (VERCELLI)
Quando era solo la capitale del fagiolo, Saluggia era conosciuta più che altro dai buongustai, ora che è diventata quella delle scorie radioattive – l’85% dell’eredità nucleare italiana è custodita qui (tra cui oltre 300 metri cubi liquidi a più alta radioattività) – la sua fama si è moltiplicata. Tristemente. I rifiuti sono tutti sistemati in una zona che più inadatta non potrebbe essere: la golena della Dora Baltea e vicino ai pozzi dell’acquedotto del Monferrato (a sostegno basterebbe citare per l’ennesima volta Carlo Rubbia che dopo l’alluvione del 2000 disse che si era sfiorata una «catastrofe planetaria»). In depositi «temporanei». Così, è sempre stato detto, senza convincere troppo i cittadini della piana vercellese. Ma adesso che la Sogin – la società incaricata del decommissioning – sta per avviare la costruzione di un nuovo mega deposito, D2, oltre 30 mila metri cubi e 13 metri d’altezza per una vita utile di 50 anni, lo spettro che questo diventi quello nazionale si fa più consistente. Nonostante le rassicurazioni di parte: «Ospiterà solo i rifiuti radioattivi già presenti nel sito e sarà demolito» ha rassicurato Sogin, dopo le proteste di ambientalisti e centrosinistra che considerano l’opera «spregiudicata e illegittima», concessa da una proroga dell’amministrazione di centrodestra del comune vercellese, in deroga al piano regolatore che vieta di costruire in quell’area.
Che senso ha spendere 12 milioni di euro per costruire un deposito temporaneo pronto per il 2014, nell’attesa della realizzazione del deposito nazionale che per legge (n. 368/2003 ancora vigente) doveva essere completato a fine 2008? L’Unione europea ha, tra l’altro, chiesto di disporre del deposito nazionale dal 2015 e Sogin lo ha previsto nel 2020. Le date, in questa storia, spiegano molto. «Invece di imporre la costruzione del deposito temporaneo – si chiede Gian Piero Godio di Legambiente -, perché non imporre, con le modalità di oggettività e di democraticità previste dalla legge, quella del deposito nazionale, che invece non è neppure stata avviata?».
L’autorizzazione al D2, in deroga alla normativa urbanistica, fu data a dicembre del 2005 dall’ex commissario Sogin, il generale Carlo Jean, in virtù di poteri speciali conferiti dall’«emergenza» dichiarata dal governo Berlusconi. Nonostante l’opera non sia stata costruita nei tempi previsti (inizio entro un anno e termine entro tre), nel 2009 la Sogin ha ottenuto dal comune di Saluggia una proroga di tre anni per l’«ultimazione» del progetto, seppure dal 31 dicembre 2006 fosse terminata lo stato di emergenza. La proroga è stata oggetto di un ricorso straordinario al capo dello stato di Rossana Vallino di Pro Natura, di interrogazioni parlamentari (Luigi Bobba e Roberto Della Seta, Pd, che si sono rivolti anche alla Commissione europea) e di una petizione promossa dal Pd locale – primo firmatario Paola Olivero, capogruppo dell’opposizione – che ha raccolto oltre 2500 adesioni: «Chi ha firmato la proroga per ultimare le opere connesse all’impianto Cemex, fra cui il D2, è un tecnico comunale, architetto Antonello Ravetto, che dichiara sul suo curriculum di essere consulente Sogin. Un lampante conflitto d’interessi» commenta Olivero. Recentemente, la Sogin ha comunicato l’avvio dei lavori del D2 per il 18 luglio (ma attualmente sono in sospeso per documentazione incompleta). Contrari il Parco del Po e cinque comuni limitrofi che contestano la legittimità delle decisioni di Saluggia e si dichiarano pronti «a opporsi con ogni mezzo consentito dalle leggi».
Se Sogin promette una «temporaneità», alcune contraddizioni svelano, secondo Paola Olivero, il contrario: «Per allontanare le scorie, è necessario che nella “filiera” vi sia anche il Waste Management Facility, ovvero l’impianto attraverso il quale i rifiuti dovrebbero essere ricondizionati e poi spediti al deposito nazionale. Ma, visto che non esiste neppure il progetto e l’autorizzazione dell’Ispra, l’affermazione che il D2 sarà smantellato dopo l’allontanamento dei rifiuti è una bufala». E ancora: «Sogin dichiara che metterà solo rifiuti di seconda categoria, mentre nel bando del 2010 parlava anche di rifiuti di terza categoria (a più alta radioattività, migliaia di anni di decadimento), per cui il deposito nazionale non è previsto. Significa che resteranno nel D2, nonostante nessuna ordinanza del generale Jean lo autorizzasse».
Uno dei paradossi di Saluggia è che non ha mai ospitato una centrale, quella di Trino si trova a 25 chilometri di distanza. Per risalire alle radici di questa pesante epopea, dobbiamo tornare al 1970. Quando, accanto al deposito Avogadro (dove sono custodite le barre destinate al riprocessamento francese) realizzato da Fiat a fine anni ’50, entrò in funzione l’Eurex, l’impianto di riprocessamento dei combustibili nucleari, di proprietà dell’Enea ora in gestione alla Sogin. Arrivarono elementi di combustibile irraggiati e rifiuti radioattivi derivati. Provenienti non solo dalle quattro centrali italiane, ma anche dal Canada. Questo, spiega il difficile presente del comune vercellese. Godio, Legambiente, conclude: «Dopo il risultato del referendum, ha senso che a gestire la disattivazione siano gli stessi enti e persino le stesse persone che erano state scelte dal governo per rilanciare il nucleare? Nel frattempo, bisognerebbe sospendere almeno le attività nucleari non ancora avviate, come la realizzazione del mega deposito nell’incredibile sito nucleare di Saluggia».
da “il mnifesto” del 30 luglio 2011

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