Si fa presto a dire «patto per la crescita». Se gli interessi – retorica nazionale a parte – sono profondamente divergenti, chi è che nel «patto» rinuncia alla sua parte? Il precedente del ’92-’93 fa tremare le vene ai polsi: da allora si è realizzato quel famoso «trasferimento del 10% della ricchezza prodotta dal lavoro ai profitti e alle rendite». Senza che l’Italia sia affatto migliorata. Anzi. Ne parliamo con Luciano Gallino, sociologo e docente a Torino, tra i più attenti conoscitori delle politiche e delle relazioni industriali nel nostro paese.
Mi pare che i contenuti non ci siano proprio. Se si parlasse di contenuti, quelle associazioni che l’hanno firmato prenderebbero probabilmente strade molto diverse. Per alcune i mezzi per riprendere la crescita sembrano chiari, l’hanno detto tante volte: occorre tagliare ancora la spesa pubblica, privatizzare i beni comuni, abbassare i salari, ecc. Suppongo che altre forze – per esempio i sindacati – la vedano diversamente. Quindi, questa dichiarazione di intenti non farebbe molta strada se ci si mettesse davanti ad un’agenda anche limitata di cose da fare.
Ma firmare un patto non significa comunque accettare che alcuni interessi siano prevalenti su altri?
Sì, ma non si vede bene quali possano essere. Se c’è un interesse comune in questo documento è la critica – direi universale – rivolta al governo in carica. Se associazioni che vanno dall’Abi a Confartigianato, dalla Cgil a Confindustria firmano un documento del genere, è un riconoscimento che la crisi è davvero grave.
Cosa significa qui «discontinuità»?
Vi si possono leggere varie cose, ma soprattutto che ci vuole un altro governo. Su questo sono d’accordo con Cofferati (vedi il giornale di ieri, ndr). Il governo s’è dimostrato totalmente inetto nel rilanciare la crescita, o perfino per solo discutere delle questioni dello sviluppo. Quando si è trattato di far fronte alla crisi ha adottato in modo totalmente conformistico le ricette delle «teste europee», o peggio del Fondo monetario; quindi non capisco che cosa si possa chiedere a questo governo. Se non di andarsene. Il minimo di senso che questo appello può avere è in questa direzione: bisogna cambiare governo. Qualora si dovessero indicare dei contenuti le posizioni finirebbero per divergere rapidamente. Se la Cisl, e soprattutto la Cgil, non divergessero, beh, sarebbe una svolta politica e culturale di primissimo piano.
Questo pressante richiamo al ’92-’93 fa pensare a un’accettazione delle priorità di banche e intese. E’ una chiave di lettura possibile?
La Cisl va in questa direzione da molto tempo. Per la Cgil sarebbe una svolta preoccupante, ma non vorrei fare della dietrologia preventiva. C’è questa dozzina di righe in cui c’è il riconoscimento della gravità della crisi. Ma o significa che il governo se ne deve andare, o non capisco come gli si possa chiedere ancora un «patto per la crescita» diverso dal «tagliare tutto», come ha fatto finora.
Ma c’è un altro modo di rilanciare la crescita in una crisi che è globale?
Sì. Germania e Francia, tutto sommato, se la passano molto meglio. Lo scorso anno la Germania ha prodotto 5 milioni di auto sul proprio territorio, noi solo 600 mila. Un risultato dovuto al fatto che hanno una politica industriale, fatta di accordi con i sindacati, di interventi molto significativi come la riduzione d’orario (sostenuta in piccola parte dalle imprese e in massima parte da governo federale e land). Più grandi investimenti e sviluppo che invece vedono l’Italia agli ultimi posti dell’Ocse.
Incide anche l’indifferenza verso le scelte di imprese multinazionali – come la Fiat – che stanno abbandonando il paese?
Ho criticato in decine di articoli le scelte della Fiat e la posizione del governo. Mentre tedeschi, francesi, americani hanno sviluppato robuste politiche che hanno permesso di consolidare la produzione – per esempio, proprio di automobili – nel proprio paese. Ben oltre la metà della produzione industriale tedesca e francese è realizzata sul proprio territorio. A noi la politica industriale manca da decenni, ma questo governo non sa nemmeno di cosa si tratti. Politica industriale non vuol certo dire bassi salari o libertà di licenziamento, ma iniziative che vanno dagli investimenti in ricerca e sviluppo fino al famoso «lavorare meno per lavorare tutti». Che, nel caso dei tedeschi, non è uno slogan, ma un atto di politica industriale.
Sembra paradossale rispetto al dibattito che c’è in Italia…
Qui si parla solo di aumentare l’orario, gli straordinari, l’età lavorativa fino a 70 anni. È il «pacchetto europeo», con cui stanno sparando addosso allo stato sociale.
Ma la Germania, paese leader in Europa, in casa propria fa l’opposto…
Sì. Ma un conto è contenere i salari quando sono a 2.500-3mila al mese, una cosa è farlo quando sono a 1.200-1.300, come da noi. In Germania i salari «contenuti» dal ’95 ad oggi sono aumentati in termini reali del 20%, qui solo del 5%.
Non ci si può lamentare se la “la domanda” è bassa.
Certo, e in più ci sono centinaia di migliaia di lavoratori in cassa integrazione che prendono ora solo 750 euro al mese, invece dei 1.200 di prima.
Quest’aria da «tutti insieme sulla stessa barca», è plausibile o c’è molta retorica?
A un livello molto superficiale, il riconoscimento che la crisi è gravissima e riguarda tutti, ha un senso. Ma appena si scende sotto la superficie, i mezzi divergono in modo totale: da un lato tagliare tutto, dall’altro magari aumentare le tasse sui redditi alti o tassare le rendite finanziarie (ci sono manager che magari guadagnano un milione in questo modo, e sono tassati al 12,5%, mentre le loro segretarie lo sono a partire dal 23%). E quindi, o quella «pattuglia compatta» di firmatari del «patto» va in pezzi oppure – se resta coesa – bisogna fare una constatazione preoccupante: che anche i grandi sindacati, Cgil compresa, sono entrati nella sfera delle opzioni della destra europea. Che in molti casi sono fatte proprie dai partiti «socialisti» del Continente…
Sembra il titolo della Cnn di ieri: «Chi paga?»
Pagano sempre gli stessi, su questo non c’è dubbio.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa