Quell’accordo infame del 28 giugno non era stato qualficato così nemmeno dal più acceso oppositore: “lunrificante”, vaselina insomma, per un’operazione di distruzione delle tutele del lavoro che – impost dall’alto di un diktat governativo – poteva risultare “dolorosa”, suscitando resistenza di grandi dimensioni.
Con quel capolavoro del 28 giugno invece – per cui la Camusso è stata proprio ieri denunciata da Gianni Rinaldini alla commissione statutaria interna, visto che ha firmato senza aver mai avuto un mandato a farlo (altro pessimo segnale di “golpismo” sindacale – potrà di volta in volta essere invocata l’adesione di tre sindacati “complici” e investiti del monopolio della rappresentanza per diritto divino. O convenzione umana alquanto fascista.
Le reazioni del giorno dopo, sulla stampa nazionale evidenziano o nascondono questa sortita brutale, degna forse del miglior Vauro, che mette a nudo – è il caso di dirlo – la realtà delle relazioni industriali nell’Italia futura.
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Galapagos
LUBRIFICANTI D’IMPRESA
Molti – soprattutto a sinistra – sono stati felici dell’intromissione della Banca centrale. Vi hanno letto la conferma della mancanza di autonomia del governo Berlusconi che con quella lettera ha ricevuto un pugno nello stomaco e, di fatto, è stato commissariato.
Quella lettera, però, ha dato legittimazione a tutte le peggiori schifezze del governo e ha «lubrificato» i peggiori istinti della Confindustria che pretende – come sempre – di avere carta bianca, o meglio le carte truccate, per rilanciare l’economia italiana. Ma come?
La Marcegaglia è veramente convinta che basta privatizzare tutto e piegare le ultime resistense della classe operaia per far rifiorire il miracolo italiano?
Forse non tutti sanno che in Romania ci sono oltre 7 mila imprese italiane che occupano 800 mila lavoratori. I salari sono bassi sono l’ideale per i padroni. Il problema è che in Romania si seguitano a produrre le solite merci di «merda» – a basso valore aggiunto e senza innovazione – che producono o producevano anche in Italia. Di più: le imprese italiane hanno goduto nel ’92-’93 di una straordinaria opportunità: la svalutazione della lira e l’imbrigliamento del costo del lavoro.
Cosa hanno fatto? Nulla: hanno seguitato a produrre le stesse merci godendo dei vantaggi della accresciuta produttività basato solo su un maggiore sfruttamento del lavoro.
Potrà sembrare nostalgia del passato, ma l’unico momento felice dell’economia italiana è stato quello dell’economia mista, cioè dell’intervento pubblico.
I nostri padroni delle ferriere hanno vissuto di luce riflessa quella fase di miracolo economico creato e diretto (fino a quando la politica non si è messa di traverso) dalle grandi aziende a partecipazione statale. Certo, si può obiettare che quando si è poveri è più facile crescere.
Lo dimostra anche l’esperienza di altri paesi come la Spagna e oggi la Turchia, il Brasile e la Cina. Il difficile arriva quando l’economia si trasforma in «post industriale» nella quale la ricerca, i servizi e più in generale il welfare diventano i propulsori dello sviluppo, possibilmente più armonico. Invece la Bce e Confindustria ripropongono un modello si accumulazione vecchio.
Anzi fanno di più: con le privatizzazioni tendono a creare nuove e facili occasioni di profitto, mentre – purtroppo – i migliori cervelli italiani sono costretti a emigrare.
«A chi l’Italia? A noi»
Esibita indifferenza per gli effetti sociali delle «riforme» pretese «subito», con in testa le pensioni di anzianità
Imprese e banche vogliono tutto e subito. I «5 punti» presentati ieri sono in realtà un pacchetto molto dettagliato che punta a cambiare la natura della società italiana, disegnandone un’altra «a misura d’azienda», senza più alcuna preoccupazione di tenuta sociale. Non a caso il verbo più usato nel testo è «eliminare».
Vediamo perché. Al primo punto assoluto c’è la «riforma delle pensioni», così programmata. «Elevare a 65 anni dal 2012 l’età per il pensionamento di vecchiaia delle donne nel settore privato», «portare a 62-68 anni la forcella d’età di pensionamento flessibile previstanel regime contributivo». In pratica è l’età pensionabile a 68 anni, visto che i lavoratori ancora col «contributivo» stanno andando in pensione ora. Il pezzo forte è però «abolire l’attuale sistema delle pensioni di anzianità», decurtando l’assegno per chi voglia andarci comunque dopo 40 anni di lavoro regolare (con contributi versati, ecc) e vietando in ogni caso il ritiro prima dei 62 anni. Le risorse così risparmiate dovrebbero finanziare gli «interventi cruciali per la crescita» e «ridurre l’attuale cuneo contributivo e fiscale».
Anche la «riforma fiscale» (punto 2) parte con «la riforma dell’assistenza e l’eliminazione delle sovrapposizioni tra interventi assistenziali e fiscali» (detrazioni, ecc). Ma il cuore resta la «diminuzione del costo del lavoro» per le imprese; riducendo a nulla l’Irap, incentivando gli investimenti, defiscalizzando gli «aumenti di produttività» nel salario, riducendo l’Ires, combattendo elusione ed evasione, fino ad ammettere «un piccolo prelievo patrimoniale ordinario» previo obbligo di dichiarare nel 730 lo «stato patrimoniale» individuale.
«Dismettere gli immobili pubblici» e «privatizzare le partecipazioni societarie degli enti locali» fanno tutt’uno (punto 3), con la prospettiva di incamerare a prezzi stracciati un «patrimonio» con cui irrobustire lo stato di salute di imprese (e banche, soprattutto) in forte debito d’ossigeno. Gradito anche un «incentivo» agli enti locali a disfarsi delle municipalizzate, garantendo loro la possibilità di sforare i limiti del «patto di stabilità», e quindi di spendere liberamente il ricavato.
Il capitolo «liberalizzazioni e semplicificazioni» è ossimoricamente lungo. Si va dai «trasporti locali», istituendo un’Autorità nazionale per unificare le competenze e le regole, alla richiesta di introdurre il «principio di libera concorrenza» al posto dell’«utilità sociale dell’impresa» nell’art. 41 della Costituzione. Dalla liberalizzazione delle professioni (abolendo anche la «tariffa minima») a un’altra riforma costituzionale (art. 117) per riportare allo stato centrale le competenze su energia, grandi opere e infrastrutture. Fino alle «semplificazioni amministrative» di ogni ordine e grado, magari consentendo a «soggetti diversi da quelli indicati per legge di adottare atti normativi o amministrativi generali». Insomma: autorizzazioni «fai-da-te», in barba a ogni potere (e controllo) pubblico.
In questo scenario «il dialogo semplificato tra imprese e pubblica amministrazione» diventa un obbligo a «pagare presto» le forniture, unitamente a una (questa sì, sperabile) accelerazione dei tempi della giustizia civile.
Persino l’auspicata spending review diventa uno strumento per garantire adeguati flussi di investimenti per le «grandi opere infrastrutturali», fino a prevedere project bond. Uno sguardo particolare viene riservato all’«efficienza energetica» e alla «green economy», ma per il peso che questa ha tra le imprese nazionali, mica per gli effetti sull’ambiente…
Colpisce – non certo positivamente – l’esibita indifferenza per gli effetti sociali di un simile programma, che va in coppia con quanto disposto da «art. 8» della manovra e disgraziatissimo «accordo del 28 giugno» tra imprese e sindacati. Aumentare l’età pensionabile e al tempo stesso chiedere libertà di licenziamento per i lavoratori più anziani (e costosi) significa voler gettare sul lastrico masse di persone non più ricollocabili sul mercato del lavoro. Persone che sono in questo momento il pilastro fondamentale del reddito familiare (il fenomeno dei giovani che «restano in casa» ha ragioni economiche, mica «culturali»), per cui è escluso il passaggio alla pensione e qualsiasi altra forma di sostegno al reddito (considerate «spese da ridurre»). Un dispositivo criminogeno, perché chi non lavora e non ha redditi, comunque deve vivere. Cioè «consumare». In qualsiasi altro modo, se non tramite il lavoro.
Rinaldini: esposto contro Camusso per il 28 giugno
Il regalo finale agli immobiliaristi, una «chicca» in stile Tremonti
Il ministro dismette ormai da anni: dalle cartolarizzazioni alla storica sede dell’Eur, ceduta nel 2001
La vicenda parte nel 2001. Già allora in tutta Roma esistevano numerose sedi distaccate che non trovavano collocazione negli edifici di proprietà. Il ministro doveva dunque sapere che ogni anno lui stesso pagava centinaia di migliaia di euro per affitti alla proprietà immobiliare. Invece di pianificare un acquisto sufficiente a far risparmiare, vende la sede dell’Eur per consentire una squallida operazione immobiliare. Così le tre torri vengono avviate alla demolizione. Fecero in tempo ad abbattere tutte le murature perimetrali, perché le proteste bloccarono lo scempio e ora sono ancora in piedi le strutture di cemento armato.
C’era un piccolo problema che il geniale staff del geniale ministro non aveva calcolato. Gli edifici erano pieni di fannulloni che lavoravano. La soluzione? Un altro bel regalo alla proprietà immobiliare. Vengono presi in affitto due edifici nella zona della Cristoforo Colombo, duemila metri quadrati circa ciascuno, tra loro distanti altre un chilometro. Fatti i conti paghiamo da molti anni oltre due milioni di euro all’anno.
E questo sarebbe Quintino Sella! Ha ragione Mattei sul manifesto di ieri: questo governo non può vendere nulla perché le proprietà appartengono ai cittadini. Certo ci vorrebbe un sistema di informazione e una forza in Parlamento in grado di lanciare l’allarme. Per la stampa è presto detto. Un grande proprietario immobiliare, Francesco Gaetano Caltagirone, possiede anche Il Messaggero. Il Tempo è di proprietà di un altro immobiliarista. La stampa romana plaude dunque entusiasta alla vendita. E in Italia siamo pieni di Gazzette di Parma che hanno fatto il tifo per una cricca come quella appena andata a casa.
Più difficile fornire una spiegazione sull’atteggiamento dell’opposizione. Forse qualche motivazione si può rintracciare nel fatto che alcuni anni fa l’amministrazione di «centrosinistra» della provincia di Roma ha svenduto tutti i gioielli di famiglia. Così fan tutti.
Ci accorgiamo solo ora di aver commesso un errore. Non è completamente vero che Tremonti opera in piena autonomia. Qualche disinteressato suggerimento arriva. Quella stessa Confindustria che ha fatto trionfare il berlusconismo, alza al voce nelle sue ultime ore di vita per riuscire a portare a casa l’argenteria. Il documento «per salvare l’Italia» mette le mani nel piatto: vendere! Anzi, con prosa vagamente risorgimentale, afferma che occorre limitare «l’enorme perimetro della manomorta pubblica sull’economia italiana».
Manomorta? Quando mai. E’ molto vispa quella mano e ci vuol rubare il futuro.
Marchionne invita ad andare avanti e agire il più presto possibile, «come dopo un terremoto»
È come dopo un terremoto, dice Sergio Marchionne parlando del momento che il Paese sta vivendo. L’ad Fiat utilizza questa metafora parlando alla Reggia di Venaria Reale, a una cena di beneficenza per l’Abruzzo, regione in cui è nato e con la quale mantiene un forte legame. «È una specie di prova per l’Italia e per tutti noi», afferma e ripete l’invito «a guardare avanti e iniziare ad agire, il più presto possibile».
Secondo Marchionne, stiamo vivendo un momento storico che «richiede coraggio e lucidità, richiede di prendere coscienza che la strada sarà faticosa e lunga, ma non impossibile». E, aggiunge, «come spesso accade nella vita, sono i momenti più difficili che ti costringono a tirare fuori il meglio di te stesso».
«Sappiamo che il mondo ci sta guardando – insiste Marchionne – e spesso non gli piace quello che vede. Non possiamo più permetterci di perdere tempo e rinviare i problemi. Non lo meritiamo noi nè il nostro passato. Se siamo in grado di immaginare un futuro migliore, allora abbiamo anche la responsabilità di costruirlo». Marchionne conclude con un’esortazione: «Adesso è il momento di dimostrare che siamo all’altezza della situazione e che siamo degni della storia che abbiamo alle spalle. Questa è l’Italia che ci piace e che piace al mondo».
Con l’amministratore delegato ci sono i top manager di Fiat e Chrysler. In sala sono presenti anche il sindaco Piero Fassino e il presidente della Regione, Roberto Cota, che oggi gli ha scritto una lettera in cui sollecitava il manager italo-canadese a «far presto nell’interesse di tutti» per individuare i modelli e i tempi degli investimenti per Mirafiori.
«Marchionne mi ha assicurato che per il futuro di Mirafiori prenderà una decisione a breve. Nei prossimi giorni ci incontreremo», ha riferito il Presidente della Regione Piemonte dopo l’incontro con l’amministratore delegato della Fiat.
Senza crescita, tagli e sacrifici inutili
di MARCO RUFFOLOLa conferma arriva dagli economisti: con una crescita prossima allo zero nel 2012, i conti pubblici italiani non saranno più in sicurezza. L’azzeramento del deficit sul Pil si allontana nel tempo e soprattutto la riduzione del debito è destinata a bloccarsi. A meno che non si metta mano a una manovra ancora più pesante dei 60 miliardi già decisi. Il governo ci sta già pensando e ha messo al lavoro la Ragioneria per simulare i risparmi che si otterrebbero da nuovi interventi sulle pensioni, da una rivalutazione delle rendite catastali, dalla valorizzazione dei cespiti patrimoniali. Anche questa volta, poi – c’era da scommetterci – c’è chi nel governo e nella maggioranza spinge per fare l’ennesimo condono, magari sia fiscale che edilizio. Il tutto solo per riportare debito e deficit sulla strada tracciata dal Tesoro nel suo Documento di economia e finanza, e quindi non per finanziare la crescita. Ci diranno che ad essere tagliati saranno gli sprechi e non le spese buone: difficile a farsi dal momento lo “spending review”, cioè il processo di revisione delle spese iniziato da Padoa-Schioppa, e tanto sbandierato da questo governo, in realtà è stato abbandonato negli ultimi anni. In queste condizioni, è facile prevedere che i tagli e le tasse che ci dovremo attendere deprimeranno ancora di più la crescita. E se invece dello zero, il Pil avrà un segno negativo (ad esempio meno uno) ecco che il debito pubblico non solo non si ridurrà ma tornerà ad aumentare.
Come dire: inutili sacrifici.
Crescita economica verso lo zero. Il Paese dice addio ai tagli al debito
Gli economisti: i conti non sono più in sicurezza, la strada è più ripida con le nuove regole Ue. Entro il 2016 lo Stato dovrà ridurre la spesa primaria del 5,3%. Inevitabili nuovi sacrifici
di ROBERTO PETRINI
Un ostacolo dopo l’altro. Neanche il tempo per tirare il fiato, dopo la corsa estiva per fissare il pareggio di bilancio nell’anno 2013, che per l’Italia si profila un altro sforzo da far tremare i polsi. La nuova meta si chiama “regola del debito”, l’ha approvata mercoledì scorso il Parlamento europeo insieme ai più stringenti criteri della “sessione di bilancio” dell’Unione, e prevede nuovi e dolorosi interventi a partire dal 2015. In pratica, per evitare sanzioni, gli Stati dovranno ridurre di un ventesimo l’anno la parte di debito che eccede il 60 per cento del Pil: per il nostro paese, a conti fatti, si tratta di un taglio di 3 punti l’anno del fatidico rapporto, pari a circa 40 miliardi.
Tutto ciò mentre dall’Istat giungono nuove preoccupanti notizie: il rapporto deficit-Pil è salito nel secondo trimestre dell’anno al 3,2 per cento contro il 2,5 del secondo trimestre 2010. Dove trovare le risorse per rispettare la “regola del debito”? Il dibattito è aperto, dalle privatizzazioni, all’evasione fiscale, alle pensioni, alla patrimoniale.
Ma la chiave di volta resta – come segnalato più volte dalla Banca d’Italia – la crescita. Solo con una crescita del Pil del 2 per cento annuo (tutto sommato non distante dalla media europea), il nodo della nuova “regola del debito” avrebbe potuto essere affrontato con strumenti meno dolorosi. Secondo alcune stime, con un maggiore crescita, agendo
soprattutto sul debito e con minor forza sul deficit-Pil, nel 2020, l’Italia avrebbe potuto raggiungere un rapporto debito-Pil del 98,6 per cento(con un taglio di circa 20 punti percentuali). Una cura da cavallo, a colpi di riduzione dello stock di debito, magari aiutata da una patrimoniale, ma possibile e meno violenta in termini di tagli annuali al deficit.
Ma la crescita non c’è e, addirittura, per il prossimo anno si teme “quota zero”. Inoltre la questione del debito, sotto la pressione della crisi estiva, è stata affrontata puntando sul pareggio di bilancio (di cui si profila anche l’ingresso in Costituzione): il “pareggio” è stato anticipato al 2013 con una cura da 59,7 miliardi in tre anni. In direzione di quanto stabilito dal Parlamento europeo: il rapporto debito-Pil comincerà a scendere di poco più di due punti l’anno come indica il Def.
Così si è scelto il percorso più ruvido. Il mix bassa crescita-pareggio di bilancio, secondo il calcoli di Bankitalia, comporterà un taglio, dal 2010 al 2016, del 5,3 per cento della spesa primaria corrente, la carne viva del bilancio dello Stato. Dunque, se l’economia non ripartirà, bisognerà aspettarsi nuovi sacrifici. Se con la crescita bassa la situazione è difficile a quota zero o in recessione diventa complicatissima. Lo dimostra Francesco Daveri, in un articolo per lavoce.info 1 dove individua più di un rischio sul percorso di rientro del debito pubblico fissato dal governo.
Secondo il Def, il rapporto debito-Pil dovrebbe cominciare ad invertire la rotta fin dal 2012, scendendo a quota 119,5 per raggiungere il 112,6 per cento nel 2012. Ma questo scenario è ancorato ad una crescita già scarsa, sotto l’1 per cento. E se nel 2012 l’Italia totalizzasse “crescita zero”? A quel punto la riduzione del debito sarebbe “virtualmente azzerata”. E in recessione dell’1 per cento? Un dramma: il debito aumenterebbe di quasi due punti. Il messaggio è il seguente: “Di fronte ad un eventuale rapido peggioramento della situazione economica, per mettere davvero “in sicurezza” i conti, sarà importante agire in fretta, mettendo le esitazioni e i passi falsi dell’estate 2011, rapidamente in soffitta”.
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