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Più povertà per tutti (noi), per “uscire dalla crisi”

L’attenzione resta alta sull’andamento dei mercati e il governo starebbe vagliando ipotesi di nuove misure da mettere in campo se la situazione lo dovesse richiedere nei prossimi giorni. Le carte saranno scoperte tra mercoledì, quando il governo incontrerà le parti sociali, e giovedì, giorno in cui è prevista l’informativa del ministro dell’Economia Giulio Tremonti alle Commissioni Affari costituzionali e Bilancio di Camera e Senato. Al momento non sarebbe previsto, almeno così ha lasciato intendere il leader della Lega Umberto Bossi, un consiglio dei ministri da tenere in settimana. In ogni caso, da quanto si apprende, gli apparati tecnici starebbero mettendo a punto ipotesi per una eventuale nuova controffensiva. Nel mirino sarebbero le pensioni di anzianità, per le quali si potrebbe profilare un blocco, e l’età pensionabile delle donne il cui allungamento a 65 anni, già previsto dalla manovra di luglio, potrebbe vedere un’accelerazione. Si punta anche alla lotta all’evasione e in questo si inserisce una nuova campagna anti-evasori che contribuirà all’obiettivo di incasso di 11 miliardi di euro per quest’anno, come annunciato dall’Agenzia delle Entrate. Resterebbero anche in piedi ipotesi di patrimoniali sulle grandi ricchezze anche se – avverte la Cgia – l’anticipo di un anno, dal 2014 al 2013, del pareggio di bilancio porterà già ad un aumento della pressione fiscale fino al 44,3%. Dal blocco delle pensioni di anzianità per 12-18 mesi, all’anticipo, già nel 2012, delle norme di allungamento dell’età pensionabile per le donne. È ampio lo spettro degli interventi allo studio in materia previdenziale e, secondo quanto si apprende, i tecnici del governo starebbero recuperando in queste ore molte delle misure drastiche che avevano già messo a punto nella manovra, approvata a luglio, ma che poi erano state ‘ammorbiditè e diluite nel tempo. Possibile anche l’anticipo dal 2013 al 2012 della riforma che aggancia l’età pensionabile alle aspettative di vita. Un’altra delle misure che sarebbero state prese in considerazione è quella dell’allineamento della contribuzione tra i lavoratori dipendenti e i collaboratori: per questi ultimi è al 26% e potrebbe aumentare fino al 33%. Misura non facile da mettere in campo ma che potrebbe portare in cassa tra i 2 e i 2,5 miliardi di euro l’anno. C’è poi il capitolo delle pensioni di anzianità e qui le ipotesi vanno dal blocco ad un innalzamento dei requisiti: la quota che somma età anagrafica a età pensionabile potrebbe essere portata nel 2013 da 97 a 100. Per la Cgil si tratta di «misure da respingere: anzichè colpire ancora una volta pensioni e assistenza si recuperino le risorse necessarie dall’evasione e dalle rendite». Dai tagli allo sviluppo: in pieno agosto è al lavoro anche il Fondo Strategico Italiano, società controllata da Cassa depositi e prestiti (90%) e partecipata da Fintecna (10%). Il Cda si è infatti riunito oggi per dare avvio alle attività propedeutiche all’operatività. Si occuperà di «sviluppo del sistema economico nazionale mediante la crescita dimensionale, il miglioramento dell’efficienza operativa, l’aggregazione, l’accrescimento della competitività a livello internazionale delle imprese di rilevante interesse nazionale». (Ansa)

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Ma sentite cosa è stato capace di dire l’ex direttoore del Corriere della sera.

«Vendere tutto, tranne le Tofane e il Colosseo e per la Grecia il Partenone». È la soluzione estrema di Paolo Mieli contro la crisi dal palco di Cortina InConTra. «Avremo i vantaggi di incassare il ricavato di questa vendita ed eliminare la burocrazia – ha aggiunto – . S all’intervento dei privati, ma che sia tutto sottoposto a leggi severe. Se vendiamo una spiaggia, delle caserme, delle ex regge tutto e quello che andremo a vendere, tutto ciò sia ben custodito i privati che hanno dato prova di buona gestione». Per Mieli, «non c’è un solo caso di privato che abbiamo comprato un bene pubblico e lo abbiamo rovinato». «Si potrebbe addirittura pensare all’intervento delle banche – ha ipotizzato -, che acquistino l’intero patrimonio statale e lo reimmettano sul mercato guadagnandoci e, al tempo stesso, dando all’Italia la liquidità necessaria per eliminare il debito pubblico».

«non c’è un solo caso di privato che abbiamo comprato un bene pubblico e lo abbiamo rovinato»? Se fossimo dei fessachiotti legalitari gli potremmo ricordare che mafia, ndrangheta e camorra già ora gestiscono buona parte dei “beni comuni” (a cominciare proprio dalle spiagge!!) e sullo stato di quei beni ognuno può dare un giudizio. Tombale. Ma dobbiamo ammettere che in poche frasi Mieli sa riassumere il programma del capitale finanziario: tutto a noi, niente più stato (ma non sono mica anarchici, questi…) – polizia e Tofane a parte – e niente più a chi lavora.

Se Mieli avesse un valore sul mercato lo metteremmo in vendita più che volentieri. Ma sembra che sia stato già abbastanza “privatizzato”.

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da “il manifesto” del  9 agosto 2011

BCE La Banca centrale europea spiega al governo italiano come tagliare deficit e debito, almeno un po’
Vendete tutto: Eni e Iri, Terna e Cdp
Le privatizzazioni, prefigurate nella quasi lettera della Bce al governo, sono la prova di forza che ci attende

Guglielmo Ragozzino
Un mese fa, si svolse la grande manovra salva-tutto messa in scena, con tanto di voti di fiducia, dal governo italiano; e approvata in un batter di ciglia dal parlamento «responsabile». In quell’occasione sono stati calcolati gli introiti che le privatizzazioni messe in calendario per il triennio finale della manovra stessa avrebbero apportato. Il conto, molto ottimistico, di qualche specialista si aggirava intorno ai 140 miliardi di euro, purché si mettessero naturalmente sul tavolo tutte le perle del reame. A questo si aggiungeva che l’ammontare del prezioso tesoretto era pari a circa il 7% del debito pubblico, vicino ai 1.900 miliardi in quegli stessi giorni. I più ottimisti facevano inoltre notare che ne sarebbe così derivato un significativo alleggerimento in termini di deficit.
Nelle settimane seguenti il tema privatizzazioni è stato lasciato cadere, ma non perché fosse sopravvenuta la preoccupazione di perdere taluni strumenti decisivi, in mano al governo, per muoversi tra i potenti, in Italia e nel mondo; il fatto era piuttosto che l’attenzione era ormai rivolta altrove. È stato un bene, perché le eventuali privatizzazioni si sono assai ridotte di valore, sia quelle quotate in borsa: Eni, Enel, Finmeccanica, Terna, sia le altre, a partire da Poste, Ferrovie, Cassa depositi e prestiti o Cdp. Se il pacchetto valeva 140 miliardi ora vale 120 o 100, ammesso che qualcuno comperi bislacchi gioielli nostrani, a questi chiari di luna. D’altro canto anche il deficit è destinato a salire, per gli interessi raggiunti ultimamente da Bot e Btp.
Per essere estremamente fiscali, nel novero delle possibili privatizzazioni sarebbero da aggiungere le Fondazioni bancarie, cui molti si accostano con pensiero reverente e in un caso di smobilizzo accelerato, proprio per quell’ossequio, sono dimenticate; infine le società di servizi pubblici che comuni grandi e meno grandi hanno messo insieme in una serie di puzzle molto pericolosi. Tutte piuttosto fragili, spesso indebitate, queste imprese non hanno rappresentato mai occasioni di straordinaria attrattività, ma hanno vivacchiato, pagando ai comuni di riferimento dividendi esagerati, come del resto hanno fatto per anni anche Eni e soprattutto Enel nei confronti del Ministero del Tesoro, loro maggiore azionista attraverso la Cdp.
Le ex municipalizzate, fuse insieme, entrate nel mare della finanza, travestite in varie fogge, hanno dovuto affrontare il disastro del referendum; disastro dal loro punto di vista, naturalmente. Ma proviamo a immedesimarci nella situazione di una serie di gruppi finanziari, il cosiddetto sistema, cui faceva gola il business dell’acqua e ora per l’errore di quegli «ignoranti del refendum», come li ha definiti in un pubblico dibattito a Cortina – ascoltato a radio radicale – uno dei maggiorenti del sistema Cdp, ora va tutto a carte quarantotto. Chi vuole più, senza la gestione dell’acqua, le società un po’ squilibrate che rispondono a tanti sindaci, oltre che alla domanda di valore della borsa e in una piccola forma anche agli utenti?
A questo punto si innesta la presunta lettera dei capi della Banca centrale europea, Bce. Dopo il caso della Grecia «anche per l’Italia privatizzare da subito o farlo dal 2013 non è uguale, manda a dire la lettera della Bce a Berlusconi»; così scrive la mattina di ieri il «Corriere.it» e le smentite a sera non sono ancora arrivate.
Prendendo il riassunto della lettera per buono («buono» si fa per dire, naturalmente), occorre riflettere sulla smania della Bce per antieconomiche privatizzazioni in Italia. Il primo motivo è quello di normalizzare così il sistema italiano, ancora troppo poco liberalizzato. Le imprese del governo sono considerate troppo esposte alla cattiva politica degli intrighi e refrattarie alla buona politica della finanza universale. Le imprese del governo finiscono per diventare bastioni inavvicinabili in cui il lavoro prevale sul capitale, o almeno riesce a tenere le posizioni, diffondendo il cattivo esempio.
La Bce – quanto meno quella che appare dalla pseudo lettera – richiede una soluzione di forza, con decreto, per evitare soverchie discussioni e perdita di tempo. C’è poi un secondo motivo, forse ancora più importante. Occorre mettere in riga, attraverso governo e parlamento, quel paese di ignoranti o di squilibrati, che pretende di gestire la propria acqua e gli altri beni comuni; tutto quel popolo che incantato da una magia, due mesi fa ha votato in maggioranza per mantenere il diritto di gestire la propria acqua. Il rischio, temono alla Bce e dintorni, è che il referendum italiano faccia scuola e sia imitato nell’Europa e nel mondo. E questo, per dirla tutta, non si può sopportarlo.

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Le misure Bce non convincono. Gli investitori vogliono le riforme

L’intervento della Banca centrale europea somiglia troppo a un salvataggio e non basta a far tornare l’ottimismo a Piazza Affari. I mercati attendono il dettaglio delle misure annunciate dal governo

di ANDREA GRECO

 

MILANO – Arrivano i rinforzi della Bce 1. La decisione dell’istituto centrale di sostenere con acquisti i titoli governativi di Italia e Spagna – si dice con investimenti fino a 400 miliardi di euro – inizilamente libera dal panico Piazza Affari e la Borsa di Madrid. Milano recupera fino al 4 per cento per poi limare attorno al 2,5 per cento e quindi passare in negativo. Bene i titoli sovrani, la cui distanza con il bund tedesco si chiude fino a meno di 300 punti base. Ora i Btp costano all’Italia il 5,32 per cento, poco più di quel che paga la Spagna, ma nei due casi il recupero è potente.

Tuttavia gli operatori non sono ottimisti. Troppa paura e perdite accumulate nelle ultime settimane, e troppo simile a un salvataggio di ultima istanza delle istituzioni sovranazionali quello che si osserva sui monitor. E tutt’intorno infuriano ancora le cattive notizie. La perdita della tripla A del debito pubblico americano ha fatto cadere gli indici borsitici di Tokyo e Shanghai, i cui Paesi sono grandi creditori degli Stati Uniti. Nell’attesa che riapra Wall Street, l’oro, il tradizionale bene rifugio, guadagna il 5 per cento e sfonda la soglia record a 1.700 dollari l’oncia. Il petrolio, miglior indicatore della crescita mondiale, perde un 3 per cento e attacca quota 105 dollari. E il dollaro è messo in difficoltà da quasi tutte le altre valute.

Perché l’Italia, in un simile contesto, si rialzi davvero, serve il dettaglio delle misure sulla nuova manovra, annunciata ma non spiegata da Silvio Berlusconi venerdì. Il tasso di credibilità del Cavaliere e del suo governo è molto ridotto, in Borsa come nel Paese e fuori dai confini. Gli investitori vogliono vedere riforme vere, non un maquillage o nuovi tagli a pioggia. Mercato del lavoro, investimenti, liberalizzazioni e privatizzazioni pensate e gestite con serietà. Altrimenti, le condizioni dei nervi di tutti sono tali che basterà poco per tornare agli incubi della settimana scorsa.

Il bilancio in pareggio non basta allo sviluppo

di Gianni Trovati e Giovanni Parente


Di nuovo in Parlamento. Le bizze borsistiche che hanno imperversato la scorsa settimana riportano la politica a fare i conti e a ristrutturare le regole di bilancio, con un obiettivo: strappare un anno al calendario e arrivare al pareggio del bilancio entro il 2013. Oltre al progetto per scolpire nella Costituzione il concetto che entrate e uscite dovranno viaggiare di pari passo, le Commissioni parlamentari che si riuniranno in settimana sanno già che la partita in corso si gioca su due tavoli.

Uno nel medio-breve periodo con il possibile anticipo del riordino fiscale e assistenziale (con il primo risparmio di 4 miliardi che potrebbe arrivare, quindi, già nel 2012) che metterà nel mirino tutti i bonus e le agevolazioni non “protetti” da principi costituzionali o norme europee, e che non evitano doppie imposizioni. L’altro è un obiettivo di sistema: rimettere mano ai 720 miliardi di spesa pubblica (più i fondi da ripartire e quelli per il riequilibrio territoriale, molto “volatili” e quindi esclusi dal calcolo) non solo nell’ottica del risparmio, ma cercando di fare più attenzione alla crescita.

Lo hanno chiesto a chiare lettere le parti sociali al Governo: un impegno forte, anche in questo caso senza aspettare. Lo impongono ancora di più i dati Istat sulla produzione industriale in discesa a giugno e su un Pil “inchiodato” che rischia di non crescere neanche dell’1% a fine anno.

I numeri della spesa pubblica – fotografata dalla Ragioneria generale dello Stato in una serie di analisi rilasciate negli ultimi giorni – testimoniano, invece, che l’obiettivo dello sviluppo è decisamente passato in secondo piano. A partire dal 2008, le risorse sono state indirizzate a tamponare l’emorragia causata dalla crisi economica iniziata esattamente tre anni fa. Il debito pubblico ha presentato il suo conto (salato), drenando 17,5 miliardi in più di risorse pubbliche per interessi e rimborsi, con una dinamica che l’agitazione degli spread non fa che peggiorare. Ma è dalle parti dei fondi destinati agli ammortizzatori sociali (+43% in tre anni) e alle politiche previdenziali (che includono anche i trasferimenti agli enti) che vanno cercati i segnali più evidenti di politiche assorbite dallo sforzo di tamponare i graffi della congiuntura, senza passare finora a una vera e propria «fase 2» di rilancio. Una fase di cui il progetto di riforma del mercato del lavoro annunciato nella conferenza stampa di venerdì a Palazzo Chigi ha iniziato a far intravedere almeno qualche spiraglio.

Così a farne le spese sono state soprattutto le voci più strategiche. Primi fra tutti, gli incentivi allo sviluppo industriale, che hanno dovuto fare a meno di 400 milioni di euro (-9,4%). Non è andata molto meglio a ricerca e innovazione, con una riduzione di oltre mezzo miliardo. Il “mal comune” del segno meno accompagna anche tante altre «missioni». Dalle infrastrutture alla mobilità (che include anche la sicurezza stradale e nel complesso ha perso 3,5 miliardi di euro), senza dimenticare capitoli che rappresentano il core business dell’economia del Paese. Per esempio, lo promozione e la competitività del turismo made in Italy hanno visto la dotazione fondi più che dimezzata (ora è meno di 37 milioni di euro). La stessa sorte ha riguardato il “tesoretto” destinato ogni anno al sostegno delle imprese per l’internazionalizzazione. Una sponda utile soprattutto per le Pmi (ovvero la spina dorsale del sistema produttivo italiano) chiamate a far conoscere i propri prodotti o a espandersi su nuovi mercati.

Il problema della crescita va letto anche da un altro angolo visuale. Agli enti territoriali sono arrivati 4,5 miliardi in meno, tra compartecipazioni e rimborsi. Anche questo ha contribuito ad alimentare un circolo non propriamente virtuoso.
Meno soldi in cassa per Regioni, Province e Comuni hanno comportato una maggiore difficoltà a far fronte agli impegni nei confronti dei fornitori e, soprattutto, hanno moltiplicato la «cautela» nel programmare misure e azioni per lo sviluppo direttamente sul territorio. A dimostrazione del fatto che, probabilmente, non basterà soltanto correre senza un’inversione completa del senso di marcia.

da Il Sole 24 Ore

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Liberare nuove risorse per investire

di Fabrizio Forquet


La scrivania dietro cui siede il ministro dell’Economia è forse l’unica eredità di Quintino Sella fatta propria dai suoi successori del dopoguerra italiano. Il vincolo del pareggio di bilancio in Costituzione è perciò una sorta di risarcimento alla sua memoria. Ed è, soprattutto, un obbligo morale per un Paese che ha il quarto debito pubblico del mondo.

Eppure quel Paese, anche dopo l’esplosione della prima grande crisi della finanza pubblica italiana all’inizio degli anni 90, ha continuato a comportarsi nella gestione delle proprie risorse come un pessimo padre di famiglia. Soprattutto nell’incapacità di tagliare la spesa corrente, unica vera misura strutturale per ridurre il disavanzo e quindi in prospettiva il debito.

La spesa pubblica italiana nell’ultimo decennio ha visto un aumento costante, passando da 592 miliardi a 742 miliardi. Niente male per un Paese che nel frattempo era chiamato a risanare i propri conti pubblici, per abbattere un debito schizzato al 120% del Pil.

Anche perché, per bilanciare quelle uscite e ridurre il deficit, si è fatto ricorso evidentemente a un aumento delle entrate a detrimento, inevitabilmente, della crescita economica.

A peggiorare la situazione, poi, la scelta, comprensibile politicamente ma nefasta dal punto di vista economico, di penalizzare la spesa in conto capitale, a favore di quella corrente. Mentre quest’ultima galoppava, infatti, la prima si contraeva, togliendo al Paese l’ossigeno degli investimenti pubblici.

Una tendenza, questa, che si è confermata negli ultimi tre anni, cui fa riferimento il lavoro presentato nelle pagine che seguono: dal 2008 al 2011, nell’ambito del bilancio dello Stato, le «missioni» più penalizzate sono state proprio quelle più orientate allo sviluppo: i trasporti hanno perso il 30% delle risorse, le infrastrutture il 14%, come accaduto anche per ricerca e innovazione.

Sono cifre importanti per cogliere molte delle ragioni delle difficoltà di oggi. Per capire perché l’Italia, dopo vent’anni da quel drammatico ’92 in cui Giuliano Amato evitò la bancarotta del Tesoro, rischia ancora di essere “uno Stato da vendere” sui mercati finanziari internazionali.

Cifre importanti non solo da capire, ma anche per trarne una lezione per il presente e l’immediato futuro.
Solo una politica che abbia la responsabilità e il coraggio di affrontare davvero il moloch della spesa corrente, irrobustendo contemporaneamente quella in investimenti, potrà dare un futuro al Paese.

L’obbligo di pareggio di bilancio in Costituzione è un passo non sottovalutabile, ma ora bisogna dimostrare di saper incidere sulla spesa pubblica, di saper ridurre il perimetro dello Stato, anche al costo di imporre duri sacrifici al Paese.
Non si tratta di colpire servizi essenziali, ovviamente. Ma davvero non si capisce perché in Italia si debba continuare ad andare in pensione a 60 anni, quando in altri Paesi europei ben più solidi del nostro l’età pensionabile è già stata portata a 67 anni. È oltre un decennio, poi, che si parla di risparmiare attraverso gli acquisti centralizzati della pubblica amministrazione, ma poi ogni ministero – se non ogni dipartimento o direzione centrale – continua a fare da sé, vanificando gli obiettivi di bilancio. La sanità non va tagliata, ma va certamente razionalizzata, soprattutto nel Mezzogiorno dove il trade off tra spesa e servizi è inaccettabile per un Paese civile. Ancora: il pubblico impiego non può restare l’unico segmento dell’occupazione italiana a non risentire della crisi in termini di retribuzioni e posti di lavoro. E per finire i costi della politica: il taglio simbolicamente più importante, il primo da fare per rendere accettabili tutti gli altri.

Non sono scelte facili. Ma al punto in cui siamo arrivati non ci sono più alternative. I tagli di spesa vanno fatti, e subito. Perché solo in questo modo si potranno liberare le risorse necessarie agli investimenti e alla crescita. Qualunque alternativa sarebbe più dolorosa, come ben dimostra il dibattito sulla patrimoniale.

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Se lo Stato non cambia, l’economia non riparte

Piero Ostellino

Qualsiasi misura di breve periodo (congiunturale), ancorché necessaria, urgente e utile, rischia di essere il dito nella falla della diga se non è accompagnata da una realistica analisi della crisi e da misure di medio-lungo periodo (strutturali). La chiave di lettura della crisi attuale sta in un articolo di Luigi Einaudi del 1933, La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana .

Nell’articolo denunciava, di fronte alla situazione di allora, «l’incapacità dell’Italia a superare, entro gli schemi tradizionali della sua costituzione politica, la crisi del dopoguerra».
La svolta era avvenuta nel 1876 – con la caduta della Destra storica e l’avvento della Sinistra – a seguito della quale banchieri, industriali, corporazioni, erano stati indotti, dall’eccesso di interessi protetti dallo Stato, ad «accaparrarsi il favore dell’opinione pubblica colla stampa e il voto del Parlamento». È ciò che è avvenuto, in Italia, dagli anni Settanta del secondo dopoguerra ad oggi e ancora sta accadendo; è quanto è accaduto, in Europa, per vocazione «costruttivista» (l’Ue come prodotto della Ragione, non dei conti con la Realtà); è accaduto persino negli Stati Uniti, e in altre parti del mondo, dove il liberalismo ha ceduto il passo allo statalismo. Quello che non avevano capito, allora, e sembrano non capire, adesso, sia la classe politica, sia molti osservatori è che nel confronto fra socialisti, fautori del modello prussiano di controllo pubblico dell’economia, del «collettivismo burocratico» e mercantilisti, da un lato, e liberali, dall’altro, in gioco era, è, la natura dello Stato, non una linea di politica economica.

Allora, i liberali italiani, Einaudi, Maffeo Pantaleoni, Vilfredo Pareto, Antonio de Viti de Marco e persino due democratici, come Gaetano Salvemini e Piero Gobetti, avevano capito che il protezionismo economico bismarckiano era il cavallo di Troia che avrebbe (aveva) introdotto nella politica il virus del nazionalismo e del militarismo, cioè una concezione dello Stato «come potere assoluto» che – a differenza del liberalismo inglese di Gladstone, liberoscambista e pacifista – individuava nella politica di potenza e, infine, nella guerra lo strumento della propria affermazione (Roberto Vivarelli: Liberismo, protezionismo, fascismo – Un giudizio di Luigi Einaudi , Rubbettino). Oggi, solo i liberali paiono aver capito che il socialismo, il controllo pubblico dell’economia, il «collettivismo burocratico», il mercantilismo hanno prodotto, nel recente passato, oltre alla stagnazione economica, quell’arrembaggio ai conti pubblici di cui parlava Einaudi nel 1933 e che, se assecondato, aggraverebbe, invece di risolvere, la crisi attuale. Confondere l’intervento (contingente) dello Stato nell’economia, nei casi di crisi, con «la morte del liberalismo economico» (come metodo di produzione della ricchezza) è consegnare le nostre libertà, non solo quelle economiche, ma anche e soprattutto quelle civili, all’arbitrio della classe politica e delle sue dissennate spese.

Che fare, allora? Se il problema è politico, non economico, la soluzione non può che essere politica. È la natura dello Stato che deve cambiare. Come? Proviamo a proporre qualche soluzione.

Primo:
mettendo in vendita il patrimonio dello Stato (caserme, edifici, aree non utilizzate) e privatizzando alcuni servizi pubblici (come le Poste) per reperire risorse sul mercato e dare subito una gran spallata al debito.

Secondo: deregolamentando la Pubblica amministrazione e liberalizzando il mercato (dagli Ordini professionali, al diritto societario, alle relazioni industriali), per consentire alla società civile – invece di ingegnarsi per ottenere i favori del governo – di operare in un quadro normativo che riduca le occasioni di corruzione, contenga il familismo amorale e il clientelismo, impedisca gli abusi, massimizzi, al tempo stesso, le libertà individuali, il merito, la propensione a scommettere e a intraprendere.

Terzo: riformando le procedure e accelerando i tempi di attuazione della giustizia civile, per trasformarla, da un «disservizio» quale è ora, in un «servizio» sia nelle controversie di parte, sia nella riscossione dei crediti (disservizio che, oggi, scoraggia gli investimenti esteri); razionalizzando i compiti della giustizia penale la cui tendenza è stata, a volte, persino quella di condizionare le libere transazioni di mercato in base a considerazioni politiche, se non addirittura clientelari.

Quarto: eliminando quelle normative illiberali, anche recentissime – da Antico regime o da Paese di «socialismo reale» – che appesantiscono i rapporti del cittadino con lo Stato e gli rendono difficile la vita.

Si tratta di ridurre l’eccesso di intermediazione pubblica che, oggi, accresce i costi delle stesse transazioni private; di contenere entro limiti di ragionevolezza (anche sociale) i costi dello Stato; infine, di portare la pressione fiscale a un livello che persino la Dottrina sociale della Chiesa suggerisce di non superare. La crescita c’è se c’è più Stato dove è necessario, se c’è più società civile dove è possibile; se ci sono maggiori libertà per tutti, nel rispetto delle libertà di ciascuno; più soldi nelle tasche di chi, poi, li spenderà, facendo ripartire i consumi, o li investirà, aumentando la produzione.

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da Liberazione del 7 agosto

Intervista a Rodotà: «Questo è un assalto frontale alla Costituzione e al lavoro»

Checchino Antonini (Liberazione del 07/08/2011)

Intervista a Stefano Rodotà, giurista, professore emerito alla Sapienza di Roma
«Da da qualunque parte si guardi è una mossa ideologica, un colpo di mano costituzionale, una politica che continua a colpire i più deboli». Al telefono con Liberazione, Stefano Rodotà, giurista, docente emerito alla Sapienza, parla all’indomani degli annunci di Tremonti e Berlusconi sull’anticipo dei sacrifici e sulle manomissioni della Carta e dello Statuto dei lavoratori. Dice, in sostanza, che quelli che insegue il governo sono «interventi depressivi» perché «tolgono potere d’acquisto. L’attacco alla Costituzione è esplicito sia contro l’articolo 41 sia con l’introduzione del vincolo di bilancio. L’obbligo di pareggio, lo ha spiegato anche Boeri alla luce delle recenti difficoltà di Obama, diventa lo strumento per ricattare la politica perché condiziona l’impostazione di bilancio. In Italia s’è insistito molto sulla rigidità imposta dal Patto di stabilità e quest’altra rigidità priva i governi della possibilità di rispondere con strumenti adeguati alle situazioni di difficoltà. Le misure annunciate rendono più difficile il governo dell’economia a meno che non si vogliano prendere ad esempio gli Usa che hanno appena sacrificato ciò che restava del welfare e ridotto l’effetto positivo di una riforma sanitaria non particolarmente esaltante».

Quali potrebbero essere le conseguenze?

S’è detto che questo è in commissariamento del governo Berlusconi da parte della finanza internazionale, dell’alleanza Bce-Merkel-Obama. In realtà così si tende a ridurre lo spazio per la politica. Se l’obiezione è quella che la politica italiana è particolarmente corrotta e dissennata allora il problema dovrebbe essere quello di fare una politica dignitosa. Invece, così si introduce solo un potere di ricatto che viene dai ceti conservatori.

Si sostiene che l’articolo 41 freni le imprese.

L’articolo 41 – quello per cui l’iniziativa economica privata è libera ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana – non è un’imposizione “sovietica”, c’è stato in quell’articolo un contributo importante dei liberali. Il riferimento all’utilità sociale è semplicemente la constatazione che nessuna attività possa fare astrazione dal contesto in cui si produce. La Thatcher diceva che la società non esiste. Quell’articolo non ha impedito l’impresa e si attacca per abbandonare il complesso di garanzie che offre la Costituzione. Non è così che si restituisce all’impresa la libertà di muoversi. In che cosa si tradurrà dunque l’annuncio, in mano libera all’impresa? Lo trovo preoccupante.

Sacconi s’è già pronunciato per cancellare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, Tremonti ha già detto che le misure sulla sicurezza sarebbero eccessive.

Guardi, invece la lungimiranza dei padri costituenti: prima della dignità e della libertà hanno voluto mettere la sicurezza. Senza l’articolo 41 viene meno uno degli architravi della Carta: il rapporto tra libertà di impresa e contesto. Si tratta di una norma molto di bandiera con un valore simbolico significativo che cambierà la percezione del sistema costituzionale. E’ un fatto di estrema gravità

Dunque è un golpe?

E’ una parola questa da adoperare con prudenza. Certamente è un attacco frontale alla Costituzione che fa corpo con un progetto di diminuzione dei diritti. E’ un colpo di mano estivo.

Eppure mai come ora la “libertà” d’impresa è così spudorata.

Ecco dov’è il carattere pretestuoso: una cosa è liberare le imprese da vincoli burocratici, un’altra è liberarle dalla tutela dei lavoratori. E questo è inammissibile. L’articolo 36 dice che la retribuzione deve garantire un’esistenza libera e dignitosa. E non mi pare che nell’ultima fase, con la riduzione del lavoro a merce, sia stato così. L’unico obiettivo sembra colpire il lavoro, una lettura unilaterale ma anche sbagliata perché la componente lavoro non ha responsabilità in questa crisi. Boeri, che non mi pare un estremista, avverte che il primo effetto dei tagli sarà quello di colpire le famiglie povere. Così si perpetua e accresce una situazione di disuguaglianza in una situazione in cui sarebbero necessarie riforme, ad esempio, nell’accesso al credito. Il silenzio confindustriale è piuttosto eloquente. Non si è riusciti nemmeno a fare una tassa sulle auto di grande cilindrata che colpirebbe in maniera indolore i possessori di beni lusso. La patrimoniale, chiesta da Amato, non dagli estremisti, si fa tranquillamente in altri paesi europei. E sarebbe il contrario di questo irrigidimento delle norme costituzionali. Questa era l’occasione per chiamare i ceti più ricchi, come dice la Costituzione, a partecipare alle spese pubbliche in proporzione alle loro sostanze.

Ritiene che possano passare queste misure?

L’anticipazione della manovra certo che può passare, Fli e Rutelli già hanno detto di sì. Oggi l’attenzione va posta prima sui contenuti di questa manovra accompagnati minacciosamente dallo Statuto dei lavori di Sacconi, i lavori che diventano merce e sottratti alle garanzie costituzionali. Per la “riforma” costituzionale, invece, ci può aiutare il tempo: servono due letture delle Camere a distanza di tre mesi l’una dall’altra, dunque ci sono almeno nove mesi davanti a noi. Inoltre sulla materia è possibile avere un referendum confermativo.

Su entrambi gli aspetti è decisiva la mobilitazione, non crede?

Questo è un momento molto grave per la democrazia. E’ necessaria una grande consapevolezza culturale, rendersi conto dei rischi che si corrono. Certo che è necessaria la mobilitazione a partire da tutte le forze che hanno incarnato la reazione sociale alla crisi nei mesi scorsi, studenti, precari, donne, mondo della cultura. Quei soggetti che hanno reso possibili i risultati elettorali di primavera nelle città e ai referendum. Tutti dovranno essere consapevoli che quello che hanno fatto lo devono rifare.

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