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Chi governa in Europa?

Partiamo con il “pezzo forte”, ossia il contenuto della lettera inviata dalla Bce a governo italiano. Naturalmente nella forma sintetica che è trapelata dalle “segrete stanze”.

Il decreto di Francoforte commissaria il governo

Dovrebbe essere arrivata sul tavolo del governo tra giovedì e venerdì da cui la precipitosa conferenza stampa di Berlusconi-Tremonti il 5 agosto. La lettera inviata da Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, attuale e futuro presidente della Bce, accoglie tutte le proposte di Confindustria ed è un diktat all’Italia in cambio dell’intervento sui titoli di stato. Ad anticiparne i contenuti il «Corriere della sera» di ieri che scrive: «l’accordo fra le parti era di mantenerla riservata», e giudica il così contenuto: «se non è un programma di governo poco ci manca».
PER DECRETO
Sulle liberalizzazioni la via indicata al governo italiano da Francoforte è il decreto, l’iter più rapido e indicato nei momenti d’urgenza. Di cui Berlusconi ha in effetti abusato in questa legislatura.
LAVORO
La Bce entra a gamba tesa e chiede una vera e propria svolta sui contratti di lavoro: «meno rigidità nelle norme sui licenziamenti dei contratti a tempo indeterminato (in pratica l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ndr), interventi sul pubblico impiego, superamento del modello attuale imperniato sull’estrema flessibilità dei giovani e precari e sulla totale protezione degli altri, una contrattazione aziendale che incentivi la produttività», anticipa il «Corsera».
PRIVATIZZAZIONI
L’Eurotower incalza l’Italia anche sulle liberalizzazioni: anche in questo caso la Banca centrale europea chiede di avanzare il più rapidamente possibile. Si parla di cessioni anche per le società pubbliche locali.
NEL BUNKER EUROTOWER
Dunque ieri giornata convulsa nella sala operativa della Bce a Francoforte. Gli acquisti di titoli italiani e spagnoli sono iniziati immediatamente in apertura e proseguiti a più riprese fino alla chiusura dei mercati. Un’operazione concentrata e andata avanti tutto il giorno a colpi di tranche da 50 e 100 milioni di euro.
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Quel tecnocrate in barca Draghi e il precedente 1992

Era il 2 giugno 1992, festa della Repubblica, quando a bordo del «Britannia», il panfilo della regina Elisabetta, oltre centro tra banchieri, uomini d’affari, pezzi da novanta della finanza internazionale anglo-americana (tra gli ospiti eccellenti anche George Soros), si incontrarono per un summit urgente organizzato straordinariamente al largo delle coste tirreniche, tra le acque di Civitavecchia e quelle dell’Argentario. Argomento forte del meeting a bordo, le privatizzazioni. Le privatizzazioni italiane. Ai tempi di quella crociera sulla terra ferma andavano forte le inchieste di Mani Pulite e la prima Repubblica si apprestava a cedere il passo. A bordo si discusse anche di «riforme», naturalmente. Ma soprattutto del programma di dismissioni da parte dello stato. Le privatizzazioni, ovvero come «finanziarizzare» il sistema economico italiano. C’è chi rintraccia in quel passaggio l’origine della «finanziarizzazione» del sistema economico nazionale, il momento in cui l’industria lasciò il passo all’economia di carta. A quella riunione parteciparono anche diversi italiani, tra loro un giovane Mario Draghi, allora direttore generale del tesoro che nel suo discorso sostenne che il principale ostacolo ad una «riforma» del sistema finanziario in Italia era rappresentato dal sistema politico. Il ministro del Tesoro era Piero Barucci, il governatore di Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, anche lui invitato a bordo del panfilo. A palazzo Chigi invece c’era Giuliano Amato. Imbarcato anche Romani Prodi e il direttore di Bankitalia Lamberto Dini. E non finisce qui perché c’era anche, lo ha confermato lui stesso solo di recente, anche l’attuale ministro Giulio Tremonti. «Solo come osservatore» a bordo del natante di sua maestà: «Fu solo il prezzo da pagare per entrare tra i primi nel club dell’euro».
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da “il manifesto” del 9 agosto 2011

Loris Campetti
OGGI INCONTRO SEPARATO CON MARCEGAGLIA, BONANNI E ANGELETTI
«Massacro sociale» concordato con i «complici» Solo domani toccherà anche alla Cgil
Sgarbo di Tremonti a Susanna Camusso che dovrà esprimersi sui tagli al welfare, alle pensioni e ai diritti dei lavoratori. Sulle privatizzazioni il no della Cgil è già arrivato

 

Loris Campetti
Ce lo ordina l’Europa, dirà domani Tremonti snocciolando tagli al welfare e alle pensioni pubbliche e private, disegnando nuove relazioni sindacali ancora più penalizzanti per chi lavora, modifiche alla Costituzione e allo Statuto dei lavoratori, privatizzazioni e liberalizzazioni a go-go. Lo dirà alla carovana dei suoi interlocutori, uniti (quasi solo) dal nome con cui vengono identificati: «parti sociali». Parlerà ai vertici confindustriali, ai banchieri, ai cooperatori, agli artigiani, agli imprendotori agricoli e, naturalmente, alle confederazioni sindacali. Per ora si è limitato a spedire loro una letterina ma già oggi incontrerà i più «fidati», Marcegaglia, Bonanni e Angeletti a Villa Madama (una residenza del Tesoro), cioè la Confindustria e quei sindacati che il ministro d’assalto Sacconi chiama ora «sindacati complici», ora «sindacati riformisti».
Fosse per Sacconi, la Cgil verrebbe tenuta decisamente fuori dalla porta, non solo oggi ma anche domani, ma questo atteggiamento non aiuterebbe certo Emma Marcegaglia che ha fatto di tutto per riportare Susanna Camusso ai tavoli che contano. Sarebbe un peccato per la presidente di Confindustria perdere la firma della segretaria della Cgil, convinta non senza qualche fatica a siglare prima l’accordo sulla riforma del sistema contrattuale, che non ha entusiasmato il suo sindacato, e poi il documento «unitario» presentato (proprio dalla Marcegaglia) al governo con i diktat delle parti sociali, che ha lasciato sgomente la base e buona parte del vertice della Cgil. Se è vero che bisognerà far pagare i costi della crisi a lavoratori, pensionati e giovani privi di ogni forma di rappresentanza, è fondamentale che la Cgil venga coinvolta, fino a farla diventare il terzo sindacato riformista, o complice che dir si voglia. Questa soluzione sarebbe ideale, una ciambella perfetta. Ma non tutte le ciambelle escono dal forno dei pasticceri con il buco.
Un obiettivo più facile da declamare che da realizzare, l’ingabbiamento della Cgil dentro una manovra classista destinata a provocare un massacro sociale. Una volta ribadito, come ha fatto Camusso, che il governo italiano è commissariato dall’Europa e dalla Bce (e perché, la Grecia, la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda?), la Cgil dovrà pure pronunciarsi sui pesanti aggravi a una manovra già ingiusta che domani saranno annunciati (e oggi anticipati ai soli compagni di merenda) dal ministro Tremonti. Difficilmente Camusso, ammesso che accetti di fare l’ospite poco gradita in seconda convocazione, potrà alzare più di tanto la voce contro la decisione di «costituzionalizzare» il pareggio di bilancio, proposta contenuta nel primo dei sei punti della parti sociali. In quel documento c’era anche un inno alle privatizzazioni, contro cui pure Susanna Camusso si è dichiarata contraria («l’unico punto di disaccordo»). E se è vero che su spinta della Confindustria, almeno della sua parte più intransigente, il governo annuncerà l’intenzione di assumere in decreto legge il modello contrattuale aziendale di Marchionne in deroga al contratto nazionale di lavoro, come risponderà la Cgil? Va bene che Susanna Camusso non è Maurizio Landini, ma forse c’è un limite a tutto. Ieri da Corso d’Italia è arrivata una nota della segretaria confederale Vera Lamonica, che in relazione alla minacciata scure sulle pensioni ha definito quella del governo «una manovra nata iniqua e che diventa ancora più cruda adottando misure che produrranno ingiustizie e diseguaglianze da respingere. Anziché colpire ancora una volta pensioni e assistenza (innalzamento dell’età pensionabile delle donne nel privato e i tagli indiscriminati a tutto il territorio all’assistenza, dall’indennità di accompagnamento, alle pensioni di invalidità e di reversibilità), si recuperino le risorse necessarie dall’evasione, dalle grandi ricchezze e dalle rendite». Parole chiare, che presupporrebbero l’avvio di grandi iniziative di lotta nel paese, più che l’attesa di convocazione nella sala d’attesa di Palazzo Chigi.
Un altro provvedimento di cui ieri si è parlato riguarda il precariato: gira un’ipotesi tremontiana non molto dissimile da quella sostenuta dall’area «riformista» del Pd, che prevederebbe un purgatorio di tre anni per i nuovi assunti (via l’articolo 18, tanto per fare un esempio) con la garanzia di un contratto a tempo indeterminato. Puzza di americano, di doppio livello salariale e di penalizzazioni certe e subito e stabilizzazioni promesse. Alla Chrysler di Marchionne i nuovi assunti hanno diritti e retribuzioni ben diverse da quelli dei lavoratori più anziani sopravvissuti alla cura del nuovo padrone «italiano». Che risponderà la Cgil?
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La Bce compra titoli di Roma e Madrid. E Parigi potrebbe ora rischiare la sua tripla A
La Ue: «L’Italia e Spagna non hanno bisogno di piani di aiuti»

 

In un terribile lunedì per le borse europee in cui Milano è quella che per una volta ha perso meno, la mattinata si era aperta con messaggi al miele per l’Italia di Silvio Berlusconi commissariata dall’Unione europea. «Italia e Spagna non hanno bisogno di piani di aiuti», aveva esordito la Commissione Europea attraverso un portavoce nel corso del briefing quotidiano con la stampa. «Il commissario europeo agli affari monetari Olly Rehn venerdì scorso ha sottolineato che i fondamentali economici di Italia e Spagna sono solidi» e i due paesi hanno anche annunciato «ulteriori misure per il consolidamento dei conti pubblici». Dunque, tutto a posto e niente in ordine, perché da lì a poco sarebbe cominciata comunque una giornata nera.
La Bce, che nelle settimane precedenti ha fatto sapere di non aver comprato titoli di stato dei paesi europei, questa volta è intervenuta comprando titoli italiani e spagnoli. E infatti la Commissione europea esprimeva «fiducia nelle necessarie decisioni che la Bce ha preso e sta prendendo per assicurare la stabilità finanziaria dell’Eurozona», assicurava il portavoce dell’esecutivo di Bruxelles Olivier Bailly. Tutto questo mentre la francese Christine Lagarde, nuovo direttore del Fondo monetario internazionale, accompagnava la musica pro-Italia: «Accolgo con favore le dichiarazioni della Banca centrale europea, dei leader di Germania e Francia e del G7, e il loro rinnovato impegno a prendere tutte le misure necessarie in modo coordinato per garantire la stabilità e la liquidità nei mercati finanziari. Questa collaborazione contribuirà a mantenere la fiducia e stimolare la crescita economica globale».
Nessuno ha smentito finora che a dettare le condizioni di questo salvataggio a Berlusconi sia stato il presidente francese Nicolas Sarkozy, d’intesa con la cancelliera Angela Merkel. Un aut aut cui Roma si è allineata: o accelerate i tempi della manovra, o la Bce non muoverà un euro. Ma perché la telefonata di Sarkozy e non di altri? Probabilmente perché il presidente francese è il politico che ha i rapporti meno cattivi con Berlusconi in Europa e anche perché è il capo di un altro paese che in Europa non se la passa tanto bene. Dopo il declassamento del debito degli Stati Uniti da parte dell’agenzia di rating Standard&Poor’s, in Europa ci si chiede se la prossima tripla A a cadere possa essere quella francese. Dunque, l’imperativo di Sarklozy: salvare Italia e Spagna per evitare di trovarsi in prima linea. Nella zona euro, la tripla A ce l’hanno la Francia, la Germania, l’Olanda, l’Austria, la Finlandia e il Lussemburgo. Ma Parigi ha il deficit pubblico più alto, il 7,1% del Pil, e un deficit primario del -3,1% contro il -1,6% dell’Olanda, il -0,9% dell’Austria e a fronte di un’eccedenza della Germania dello +0,4. Per settembre, Sarkozy ha promesso una manovra durissima che toccherà in particolare le pensioni. Con presidenziali all’orizzonte.
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da Repubblica apprendiamo che anche i leghisti hanno ammainato qualsiasi velleità “autonomista” pur di rimanere incollati alla “cadrega”.

 

Bossi: “Non ci saranno elezioni nel 2012
La Bce ci commissaria? Va bene così”

Il leader leghista a colloquio con Tremonti: cerca di tranquillizzare le imprese e getta acqua sul fuoco delle tensioni nella maggioranza e delle accuse dalle opposizioni. “La lettera da Francoforte? E’ arrivata”

GEMONIO – “Commissariati? L’importante è che la Bce compri i titoli italiani”. E’ secca la risposta di Umberto Bossi alle evidenti condizioni poste dai principali leader europei e dalla Bce 1 al governo italiano prima di dare il via libera all’acquisto di titoli italiani. Un modo per eludere l’evidente affanno dell’esecutivo, che ha portato il Senatur a convocare l’incontro con il ministro Tremonti per dare una qualche risposta alle pressioni e alla evidente delusione delle imprese. E, dopo l’incontro con il ministro dell’Economia a Gemonio, il Senatur prima conferma l’arrivo a Roma della lettera spedita dalla Bce, poi spiega: “E’ la realtà che è venuta a trovarci: per tanto tempo il Paese ha speso più di quanto poteva e un bel giorno la realtà ha preso il treno ed è venuta a trovarci. Dobbiamo andare dietro alll’Europa e fare le riforme. La Bce ci condiziona? Positivamente”. A breve, inoltre, il Senatur vedrà Berlusconi: “Dobbiamo andare a trovarlo”. Bossi, infine, tenta di gettare anche acqua sul fuoco delle tensioni nella maggioranza e di frenare le critiche di opposizioni e sindacati 2: “Non c’è il problema di elezioni adesso”. Tace, invece Tremonti. Che quando Bossi cita la lettera della Bce si rifugia dietro un secco: “Non parlo”.

Il tutto in attesa del nuovo incontro con le parti sociali in programma mercoledì alle 17 (dove non si esclude possa essere presente anche il premier), del faccia a faccia tra Bossi e Berlusconi e, soprattutto, dell’informativa di giovedì del ministro dell’Economia alle commissioni Affari costituzionali e Bilancio di Camera e Senato (a cui prenderanno parte tutti i leader, da Casini a Alfano, a Di Pietro).

L’opposizione.
“Verranno giorni difficili e amari per il nostro Paese. La crisi è stata colpevolmente negata, occultata, esorcizzata dai pubblicitari di Palazzo Chigi. Oggi questa crisi esplode, continua ad esplodere ogni giorno, percuote il mondo nostro come una febbre misteriosa e crescente” scrive Nichi Vendola in una lettera aperta ai militanti di Sel e al popolo della sinistra, che appare questa mattina sul sito internet di Sinistra Ecologia Libertà. E contro il governo si scaglia anche l’Idv che, per  il capogruppo dell’Italia dei valori in Senato Felice Belisario, “è il vero e unico tappo che impedisce al paese di trovare la strada d’uscita dalla crisi”.

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Più cauto, decisamente, il Corriere della sera, che qualche frequentatore del Britannia dovrebbe averlo – se non in redazione – nella struttura di controllo.

Il triangolo europeo

Franco Venturini

Se Mao Tse Tung fosse vivo e fosse europeo, almeno a parole saprebbe come affrontare l’onda sismica dei mercati: serve, direbbe, un «grande balzo in avanti». Lui aveva il gusto delle definizioni, e avrebbe capito, nell’abissale diversità tra la Cina totalitaria del 1958 e l’Europa democratica di oggi, che per affrontare il pericolo non basta arretrare. Non basta scavare trincee difensive che di volta in volta si dimostrano incapaci di fermare il nemico invisibile della sfiducia, anche se gli europei, così facendo, sono giunti a un risultato paradossalmente positivo: è stata fatta chiarezza, l’euro è nudo con o senza contagi provenienti dagli USA, nudi sono i suoi dirigenti politici, in bilico è l’intera eurozona (e dunque l’intera Europa) sospesa tra il fallimento e un rilancio epocale.

Certo, che quelli attuali non siano tempi di grandi leader, e non soltanto in Europa, è cosa risaputa. Ma il tramonto degli statisti non deve necessariamente portare a una cecità suicida. E qui nasce un primo problema: la natura odierna del vecchio asse franco-tedesco. Nella stonata orchestra europea sono ancora loro, Sarkozy e Merkel, a battere il ritmo con i loro comunicati congiunti, a distribuire elogi o rampogne, a fissare il limite del possibile alla vigilia di ogni vertice. Ma con una novità di grande rilievo: la coppia è diventata una triade, perché, malgrado tutte le evidenti differenze di ruolo rispetto ai governi nazionali, la Banca Centrale ha assunto compiti di leadership e di intervento come mai prima aveva fatto. In realtà l’Europa di oggi è guidata da un asse Sarkozy-Merkel- Trichet, che da ottobre diventerà Sarkozy-Merkel- Draghi.

Ed è all’interno di questo trio che si colloca la decisiva questione tedesca, quella che può consentire o vietare il «grande balzo in avanti» di cui l’eurozona ha bisogno. Finalmente consapevole di essere sull’orlo del burrone e dei danni che anche la Germania subirebbe da una caduta, la signora Merkel ha accettato il 21 luglio di potenziare il Fondo salva-Stati (FESF) e di accrescere la sua flessibilità consentendogli di elargire prestiti, di intervenire sul mercato secondario dei titoli di Stato e persino di ricapitalizzare banche in difficoltà. La messa a punto del nuovo meccanismo prenderà nel migliore dei casi fino al vertice di fine settembre, e nel frattempo la BCE sta surrogando compiti che poi spetteranno al Fondo. I più ottimisti vedono in questi accordi la nascita di una sorta di «Fondo monetario europeo», e sottolineano che è stato fatto un passo importante nella giusta direzione. Cosa certamente vera. Ma pur compiendo uno sforzo che deve esserle costato parecchio, Angela Merkel non ha ancora varcato il suo Rubicone.

La Germania non vuole che la Ue diventi una «unione di trasferimenti ». Respinge cioè un criterio di solidarietà istituzionalizzata che la costringerebbe a pagare per chi non ha fatto sacrifici. Quei sacrifici che i tedeschi hanno fatto nell’ultimo decennio, e che sono all’origine della loro attuale crescita e prosperità economica. No, dunque, agli eurobond che avrebbero l’effetto di mettere in comune il debito complessivo. Linea dura con la Grecia, e, oggi, linea severa benché pragmatica con l’Italia e con la Spagna che non hanno fatto le riforme necessarie o le fanno troppo lentamente.

Un simile approccio ha fondate motivazioni storiche e costituzionali. Ma la vera questione che si pone è di volontà politica. La popolarità della signora Merkel ha già molto sofferto, l’opinione pubblica è poco propensa a «pagare per gli altri» oltre un certo limite, nel 2013 in Germania si vota. Sarà tanto forte e tanto europeista, il Cancelliere, da disinnescare la rotta di collisione tra lecite convenienze politiche e visione da statista, tra democrazia nazionale e futuro dell’Europa? Se la risposta tedesca fosse positiva diventerebbe accettabile una responsabilità comune davanti ai debiti nazionali, gli eurobond diventerebbero strumento coerente del nuovo assetto, dal Fondo salva-Stati si potrebbe passare a quella forma di governo finanziario sovrannazionale che oggi non esiste e che proprio con la sua assenza stimola i mercati e rende vulnerabile l’euro. Il tutto, beninteso, continuando a tenere sotto pressione (come in Italia) governi reticenti e opposizioni poco propositive, ritardi tattici e (è ancora il caso dell’ Italia) tentativi di tutelare i propri interessi elettorali facendo scattare il ben noto «ci costringono gli altri».

La posta in gioco, dietro la mannaia dei mercati, è questo «grande balzo in avanti» che a conti fatti risulterebbe ben più ambizioso di quello di Mao. Tanto ambizioso che nemmeno a Maastricht fu possibile compierlo. Tanto necessario che bisogna sperare nella Germania, e nella nuova «triade» europea.

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Più algido e silenziato del solito anche Il Sole 24 Ore.

La Bce compra, lo spread scende. Ma è un’altra giornata in altalena

articoli di Serafini, Bufacchi, Moussanet – All’interno analisi di Merli, Monticini e Vaciago


di Laura Serafini
L’intervento della Bce abbassa la febbre del rischio Italia. Ma l’acquisto mirato dei BTp da parte della Banca centrale europea non è sufficiente a stabilizzare la pressione sui titoli italiani. Il mercato si conferma venditore del debito pubblico tricolore: la riprova si legge nell’andamento dello spread, il divario tra BTp a 10 anni e Bund tedeschi della stessa durata, che ieri attorno alle 18 si attestava a 308 punti, dopo aver toccato il minimo a inizio mattinata di 288 punti.

La Bce ha iniziato attorno alle 10 a comprare BTp e Bonos spagnoli e i rendimenti dei titoli sono scesi nel giro di poco di 100 punti base. In realtà il calo dei rendimenti era iniziato già dal primo mattino, a riprova che l’effetto annuncio sulla nuova determinazione della Banca centrale europea aveva riportato un po’ di ottimismo sul mercato.

Ma il bilancio sull’andamento negativo delle Borse asiatiche e, a fine mattinata, i segnali che Wall Street avrebbe aperto in ribasso dopo il declassamento di S&P del rating degli Stati Uniti, hanno riportato il pessimismo tra gli investitori. Che per tutta risposta restano alla larga dai titoli di debito pubblico europei, ad eccezione dei Bund tedeschi. Continua, dunque, la corsa ai beni rifugio considerati sicuri: il rendimento dei Bund decennali ieri ha segnato un altro record, scendendo fino a 2,24 per cento. In realtà non si capisce perché gli investitori continuino a comprarli: ormai rendono decisamente meno dell’inflazione, che in Germania luglio è stata del 2,4 per cento. (Pensano forse che in agosto i prezzi tedeschi aumenteranno?). Altra cartina di tornasole su quanto sta accadendo sui mercati è l’andamento tra i titoli francesi e i Bund: lo spread ieri è rimasto a livelli record, a quota 89 punti.

La flessione dei rendimenti dei titoli italiani e spagnoli è da attribuire, dunque, in buona parte all’effetto calmierante dell’intervento della Bce.
Ed è probabile che il costante superamento dello spread tra titoli italiani e tedeschi rispetto a quello tra spagnoli e tedeschi sia dovuto al maggior impatto ottenuto dall’Eurotower, a parità di somme investite, sui titoli del debito iberico perché è dimensionalmente inferiore a quello italiano. Anche se, a onor del vero, lo spread tra i due paesi periferici è tornato ad allargarsi nel tardo pomeriggio: allo 18 era attorno a 13 punti, con il rendimento sui BTp a 10 anni pari a 5,33%, contro un 5,2% dei Bonos spagnoli. Lo spread tra Bonos e Bund è sceso fino a 284 punti in mattinata, per tornare a 295 punti nel pomeriggio.

La giornata di ieri sembra rivelare ancora scetticismo del mercato nei confronti della politica italiana, anche dopo le misure annunciate venerdì sera. Vanno nella giusta direzione, come indicato dal vertice della Bce e della Commissione europea, ma non sono ancora sufficienti. Perlomeno fino a quando gli annunci non saranno tradotti in provvedimenti legislativi che ne renderanno leggibili gli effetti pratici nel breve periodo. È dunque probabile che la pressione sui rendimenti dei titoli italiani continui almeno fino a giovedì, quando potrebbe tenersi – ma non v’è certezza – un consiglio dei ministri per approvare un decreto che dia attuazione all’anticipo dei target di pareggio del bilancio.

I dubbi degli operatori sono ancora consistenti perché, oltre che sulla capacità del governo di effettuare tagli alla spesa pubblica, gli interrogativi si concentrano sull’altra variabile che a fronte del contenimento dei costi consente il pareggio, ovvero la crescita. Il consensus del mercato sul ritmo di crescita stimato per l’Italia nel 2012 e nel 2013 è meno ottimista rispetto alle previsioni del governo. E questo contribuisce a rendere ancora più importante la sfida che l’esecutivo si trova ad affrontare questa settimana.

La domanda che molti si pongono è fino a che punto la Bce riuscirà a contrastare il trend di vendite sui titoli di debito pubblico dei paesi periferici, visto che oltre a Italia e Spagna, sta continuando a comprare i titoli irlandesi e portoghesi. Secondo le stime degli operatori delle sale operative la Banca centrale, ieri, avrebbe speso circa 5 miliardi in titoli italiani e spagnoli. Le Borse, nel frattempo, sono andate a picco: la forte flessione segnata da Parigi e Francoforte, rispettivamente oltre il 4 e il 5%, contro un -2,5% di piazza Affari, potrebbe anche far pensare che gli investitori stiano penalizzando i paesi ai quali viene chiesto un sacrificio per andare in soccorso di altri, anche se questo per ora si traduce soltanto nell’intervento della Bce.

La situazione in questi giorni è comunque esasperata dalle incertezze che arrivano dagli Stati Uniti, per cui una ripresa di fiducia oltreoceano potrebbe aiutare il difficile percorso in cui sono impegnate in queste ore l’Europa, ma soprattutto l’Italia. (L. Ser.)

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Un’Eurotower che somiglia sempre più alla Fed

di Alessandro Merli


La crisi del debito sovrano in Europa sta forzando profondi cambiamenti dell’unione monetaria, anche se è ancora troppo presto per valutare se saranno decisivi nell’uscita dalla crisi e nella sopravvivenza stessa dell’euro.
I più importanti riguardano da un lato le politiche economiche dei Governi nazionali e il potere di condizionamento esercitato dalle autorità europee e dai partner, come è avvenuto nel caso dell’Italia e della Spagna, e dall’altro il ruolo della Banca centrale europea. Gli ultimi giorni hanno creato dei precedenti significativi che, seppure causati dall’urgenza degli eventi e apparentemente nati come procedure ad hoc, possono però portare a modifiche permanenti dell’assetto istituzionale dell’Eurozona.

Sul fronte delle politiche economiche, l’area euro ha avuto fin dall’inizio la difficoltà di imporre ai Paesi membri una disciplina fiscale coerente con la moneta unica. I criteri di Maastricht e il Patto di stabilità nelle sue diverse versioni (compresa quella sconfessata da Germania e Francia quando sono state loro a violarne i limiti) si sono rivelati insufficienti. Finché la prima fase della crisi ha portato ai salvataggi di Grecia, Irlanda e Portogallo, con la concessione di aiuti internazionali in cambio di un programma rigoroso e verificato a brevi intervalli da quella che nei Paesi destinatari è stata ribattezzata la troika (i tecnici di Commissione, Bce e Fondo monetario): fin qui però nulla di radicalmente diverso da quanto applicato in passato ai Paesi emergenti e in via di sviluppo che si sono trovati in posizioni simili.

L’espansione del contagio a Italia e Spagna ha inaugurato la settimana scorsa modalità diverse: niente programma sottoscritto in modo formale con le controparti internazionali, niente troika, niente finanziamenti diretti ai Governi. Si è assistito però a un commissariamento di fatto, con una combinazione di pressioni fortissime dei mercati finanziari, della Bce (in cambio dell’acquisto di debito sul mercato secondario), delle altre capitali (Berlino e Parigi): una combinazione – il ‘vincolo esterno’ ricordato da Mario Monti – che si è rivelata, anche per effetto dell’emergenza, più efficace dello strumentario formale adottato in passato.

L’illustrazione più chiara si è avuta nel caso italiano, con l’inversione a 180 gradi fra i discorsi del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, in Parlamento, mercoledì scorso, e la conferenza stampa, neppure quarantott’ore dopo, di annuncio, tra l’altro, dell’anticipo del pareggio di bilancio al 2013. In mezzo c’è stato il tracollo dei mercati, ma anche la lettera Trichet-Draghi e i richiami da Berlino.

La parte giocata dalla Bce su questo primo fronte apre una discussione sul secondo. Avendo, come in altre occasioni, riempito un vuoto istituzionale (chi è il prestatore di ultima istanza, il lender of last resort, dell’area euro?), la Bce è destinata ad assumere questo ruolo in modo permanente oppure ha semplicemente ‘guadagnato tempo’, in vista dell’arrivo di un Efsf, il fondo europeo salva-Stati, con un mandato più ampio come concordato al Consiglio europeo del 21 luglio, e magari con risorse più consistenti? La preferenza dell’istituto di Francoforte è chiaramente per un supplenza temporanea. «I mercati non recepivano il messaggio – ha detto ieri il suo presidente, Jean-Claude Trichet – e quindi abbiamo dovuto deviare dalle nostre regole». La Bce è consapevole, se non altro perché questo viene sottolineato da un corposo dissenso interno, che a rischio ci sono la sua credibilità e indipendenza (già più volte messa in discussione nel corso della crisi) e la distinzione fra ruolo monetario e fiscale con la proibizione statutaria a monetizzare il debito pubblico.

Gli interventi sulle obbligazioni di Italia e Spagna sollevano una serie di interrogativi: gli acquisti saranno costanti (i mercati hanno la possibilità di verificarli ogni lunedì, attraverso i dati pubblici della Bce)? Le dimensioni sufficienti, in un mercato enorme come quello del debito italiano, a comprimere gli spread ed evitare che si finisca in un bailout (come è avvenuto, nonostante gli interventi Bce, a Grecia, Irlanda e Portogallo)? La Bce riuscirà a sterilizzare, se necessario attraverso l’emissione di propri bond, le operazioni, pur così ingenti, perché non si riflettano sull’inflazione? La domanda di fondo, però, è se gli interventi della Bce siano semplicemente il precursore di quelli dell’Efsf o se – vista anche l’opposizione tedesca, ribadita ieri, ad aumentare le risorse di quest’ultimo – finiscano per diventare una funzione permanente. A quel punto, sostiene Stephen King, capo economista della Hsbc, la Bce assomiglierebbe sempre di più alla Federal Reserve del 2008-2009, con una massiccia espansione del proprio bilancio (e dei rischi assunti). L’alternativa potrebbe essere il collasso dell’euro o una grave depressione economica in Europa.

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Deboli mercati in deboli Paesi

di Michael Spence

I drammatici crolli che si registrano sui mercati azionari di tutto il mondo sono una conseguenza dell’interazione di due fattori: i fondamentali economici e le risposte della politica, o piuttosto, la mancanza di risposte politiche. In primo luogo, i fondamentali. I tassi di crescita negli Usa e in Europa sono bassi e molto al disotto anche delle recenti previsioni. La crescita lenta ha avuto delle forti ripercussioni negative sulle valutazioni dei titoli ed entrambe le economie sono a rischio di una più grave contrazione.

Il rallentamento di un’economia è destinato a provocare una flessione nell’altra e nelle principali economie emergenti che fino a questo momento sono riuscite a mantenere ritmi elevati di crescita, in presenza dei risultati fiacchi registrati nei Paesi avanzati. La capacità di recupero delle economie emergenti non si estenderà alla recessione double-dip in atto in America e in Europa: non sono in grado di controbilanciare da soli il brusco crollo della domanda nei Paesi avanzati, nonostante vantino bilanci solidi nel settore pubblico.

La contrazione della domanda interna negli Usa rispecchia un aumento dei risparmi, con conseguenze negative per i bilanci dei nuclei familiari, la disoccupazione e il disavanzo fiscale. Ciò cui sta assistendo il mondo è un rallentamento della crescita correlata nei Paesi avanzati (con alcune eccezioni) e in tutte le aree sistematicamente importanti dell’economia globale, incluse forse anche le economie emergenti. E il crollo dei prezzi dei titoli fino a livelli che rispecchiano in modo più realistico i fondamentali economici indebolirà ulteriormente la domanda e la crescita aggregata. E quindi aumenterà il rischio di una forte recessione e di un ulteriore disavanzo fiscale. Questi due fattori dovrebbero determinare una correzione nei prezzi dei titoli che li riporterà in linea con le previsioni riviste delle prospettive a medio termine dell’economia globale.

Ma la situazione è più disastrosa di un’importante correzione. Anche se le aspettative vengono rispettate, si registra una crescente perdita di fiducia tra gli investitori sull’adeguatezza delle risposte politiche ufficiali in Europa e negli Usa (e in misura minore nelle economie emergenti).
In Europa, gli spread di rischio stanno aumentando sul debito sovrano di Spagna e Italia. I rendimenti si attestano sul 6-7% (considerata in genere come una zona pericolosa) per entrambi i Paesi. Unitamente a prospettive di crescita del Pil lente e in discesa, il peso del debito sta diventando talmente oneroso da sollevare dei dubbi sulla capacità dei due Paesi di stabilizzare la situazione e riprendere la crescita da soli.

Sono necessarie politiche credibili a livello della Ue e dei singoli Paesi per stabilizzare la situazione. Ma non si vede ancora nulla all’orizzonte sui due fronti. La volatilità del mercato è stata in parte una reazione all’apparente aumento del rischio di paralisi o rinuncia della politica.

Per quanto riguarda gli Usa, l’integrità del debito sovrano è stata messa in discussione per troppo tempo. In questi ultimi mesi di tentennamenti a livello politico, i titoli del Tesoro sono diventati un asset a rischio maggiore. Pertanto, una volta scongiurato il rischio immediato di default, gli investimenti sono stati dirottati in massa dagli asset a rischio e investiti in titoli del Tesoro in attesa che migliorino le cattive notizie sul fronte economico.

Sono ben pochi i segnali provenienti dal dibattito politico negli Usa che fanno prevedere una crescita e una strategia orientata all’occupazione. Gli impedimenti competitivi e strutturali alla crescita sono stati per la maggior parte ignorati. Non viene quasi riconosciuto il fatto che la domanda aggregata interna non può essere riportata ai livelli registrati prima della crisi se non attraverso la crescita. In effetti, il tasso di risparmio delle famiglie continua ad aumentare.

I dettagli possono sfuggire agli elettori e ad alcuni investitori, ma l’attenzione della politica non è concentrata su un ritorno ai livelli di crescita e di occupazione nel medio e nel lungo periodo. Al contrario, c’è molta incertezza riguardo a quando e alla possibilità che questi temi fondamentali vengano posti in cima all’agenda.

Nelle economie emergenti, per contro, l’inflazione è una sfida, ma il principale rischio per la crescita deriva dai problemi che affliggono i Paesi avanzati. Inoltre, sono necessarie riforme e profondi cambiamenti strutturali per sostenere la crescita e questi potrebbero essere posticipati o ritardati in un’economia globale in fase di decelerazione.

Riportare i valori azionari in linea con prospettive di crescita realistiche non è probabilmente un risultato disprezzabile, anche se andrà ad aggiungersi al crollo della domanda nel breve periodo. Ma l’incertezza, la mancanza di fiducia e la paralisi o il blocco della politica potrebbero facilmente peggiorare ulteriormente la distruzione del valore, provocando ingenti danni in tutte le aree dell’economia globale. Queste prospettive negative potrebbero cambiare, anche se forse non nel breve periodo. Ci sarà un ritorno alla stabilità, ma non fino a quando la politica interna dei Paesi avanzati, insieme a un coordinamento internazionale delle politiche, non cambierà direzione e ripristinerà in modo credibile un livello di crescita complessiva, con una stabilizzazione fiscale gestita in modo da sostenere la crescita e l’occupazione.

In breve, ci troviamo di fronte a due problemi interrelazionati: un’economia globale che sta perdendo vigore nella lotta per una ripresa della crescita e l’assenza di una risposta credibile da parte della politica. Sono troppi i Paesi che sembrano concentrati più sui risultati politici che su quelli economici. I mercati semplicemente rispecchiano queste debolezze e questi rischi.

(Traduzione di Patrizia Nonino)

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