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La “quadra” sulla manovra? Pagano ancora le pensioni

Ma le imprese vogliono cacciare i “vecchi” (che “costano troppo” e hanno maturato troppi diritti) per sostituirli con precari a basso costo. Potranno farlo perché Sacconi ha inseirto in manovra lo scardinamento completo dell’art. 18 (rimesso lla contrattazione aziendale! figuriamoci cosa accadrà nell’oltre il 90% si aziende italiane che sono al di sotto dei 15 dipendenti). Verrà licenziata gente che non può nemmeno andare in pensione, ma che nessuno vuole assumere.

Niente “tagli ai costi della politica”, naturalmente, a parte l’obolo “di solidarietà” calcolato sulla sola paga base dei parlamentari. Province e comuni restano come sono, limando le storture più evidenti.

Peggiora dunque la mazzata su lavoratori e ceti popolari in genere. Unica botta evitata (secondo noi solo rinviata) l’aumento dell’Iva. Dopo i dati diffusi da Confcommercio ieri, hanno preferito cercare di tener buono il miglior alleato – e la vera cifra sociale – di questo governo: i commercianti (senza dimenticare costruttori ed appaltisti che vivono a ridosso degli enti amministrativi di ogni genere, naturalmente).

In tutto ciò, il quotidiano di Confindutria trova modo di lamentare “l’assenza di riforme strutturali”, ovvero la non completata corrispondenza tra quanto previsto nella manoara e i “nove punti” del proprio “Manifesto per la crescita”.

 

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Da Il Sole 24 Ore

Tutte le novità: salta la super-Irpef, stretta sull’elusione

di Marco Rogari

ROMA. Completa abolizione del contributo di solidarietà sui redditi più elevati, con la sola eccezione dei parlamentari, riduzione di tre miliardi dei tagli a carico degli enti locali, Robin Hood tax inclusa, e salvataggio dei piccoli Comuni.

Sono gli assi portanti del faticoso accordo sulle modifiche alla manovra raggiunto nella maggioranza alla fine del vertice di Arcore durato sette ore, che ha sancito lo stop all’aumento dell’Iva sostenuto dal Pdl e alla patrimoniale anti-evasione caldeggiata dalla Lega. Ma che ha dato il libera a un primo intervento sulle pensioni di anzianità, vincolando le uscite con il solo canale contributivo a 40 anni effettivi di servizio senza più il computo dei riscatti per laurea e servizio militare, a una stretta sui vantaggi fiscali delle cooperative e a «nuove misure finalizzate a eliminare l’abuso di intestazioni e interposizioni patrimoniali elusive», come sottolinea una nota di Palazzo Chigi nell’esplicitare l’intesa. In altre parole, società di comodo e trust finiranno nel mirino del fisco.

Per le Province, invece della prevista abolizione degli enti sotto i 300mila abitanti, si procederà alla soppressione totale con il disegno di legge costituzionale già messo a punto nelle scorse settimane dal Governo, sotto la spinta del ministro, Roberto Calderoli, per riorganizzare l’assetto istituzionale e, soprattutto, dimezzare i parlamentari. Il Ddl sarà inviato al Quirinale con le integrazioni. Salvi anche i piccoli Comuni che resteranno in vita ma dovranno gestire in forma associata i servizi.

Resta però ancora da chiarire il meccanismo delle coperture. Non a caso l’opposizione è andata subito all’attacco chiedendo chiarezza sui numeri. La maggioranza garantisce che con le modifiche concordate i saldi restano invariati visto che l’alleggerimento dei tagli sugli enti locali (2 miliardi più un altro miliardo collegato alla Robin Hood) e la soppressione della super-Irpef verrebbero compensati dall’intervento sulle pensioni, dalla stretta sulle coop e dalle misure anti-evasione. Un somma di misure che però, secondo l’opposizione, non assicurerebbe gli effetti della manovra soprattutto il prossimo anno. In effetti l’intervento sulle pensioni, che vale 1,5 miliardi nel biennio 2013-2014, non dovrebbe produrre alcun risparmio nel 2012 a causa della già prevista finestra unica per le uscite attraverso la quale i pensionamenti vengono di fatto posticipati di un anno. Senza considerare che i 3 miliardi di minori tagli su Comuni e Province agiscono tutti sul 2012, che deve fare anche i conti con il minor gettito di 600 milioni per effetto dell’eliminazione della super-Irpef (3,8 i miliardi attesi alla fine del triennio). E i 3,6 miliardi mancanti nel 2012 difficilmente potrebbero essere coperti dalla sola stretta fiscale sulle società cooperative, considerando che solitamente misure anti-evasione e anti-elusione come quelle su società di comodo e trust non producono effetti immediati. A questo punto occorre attendere la trasformazione in emendamenti del’accordo siglato ad Arcore.

Il termine per la presentazione delle modifiche in commissione Bilancio al Senato è scaduto ieri sera: 600 i ritocchi già formalizzati, a cominciare da quello sul raddoppio del contributo di solidarietà sui calciatori arrivato dalla Lega, ai quali se ne dovrebbero aggiungere un’altra ottantina dal Pd. I correttivi collegati all’accordo di maggioranza giungeranno, via governo o relatore, prima della fine della settimana. Domani è stata convocata una riunione di maggioranza al Senato e giovedì un Consiglio dei ministri, che potrebbe anche autorizzare la fiducia. Per il momento la commissione conta di chiudere i lavori entro venerdì per consentire all’Aula di Palazzo Madama di cominciare l’esame del testo il 5 settembre e approvarlo entro il 10.

Alla fine, dunque, la maggioranza ha trovato la quadra. Il vertice con Silvio Berlusconi, Umberto Bossi e il ministro Giulio Tremonti, allargato allo stato maggiore di Pdl, Lega e Responsabili e al relatore della manovra al Senato, Antonio Azzollini (Pdl) si è rivelato decisivo. Il premier ha ottenuto l’eliminazione in toto del contributo di solidarietà (abolite le due soglie di 90mila e 150mila euro e la doppia aliquota del 5 e del 10%), che, oltre che per i parlamentari, dovrebbe restare in vigore solo per i dipendenti pubblici e i pensionati, come previsto dalle precedenti manovre. Tremonti l’ha spuntata sull’Iva: il capitolo sarà affrontato nell’ambito della delega fiscale. Il Pdl ha ottenuto un primo intervento di freno sulle pensioni di anzianità, anche in linea con le richieste di frondisti e Responsabili. E la Lega ha incassato l’alleggerimento del taglio agli enti locali e un intervento anti-evasione almeno in parte sulla falsariga della patrimoniale contro gli evasori.

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Si è scelto di rinviare le riforme strutturali

di Giampiero Falasca

Alla fine anche le pensioni entrano, seppure in maniera ridotta rispetto alle attese e con qualche sorpresa, nel pacchetto di emendamenti alla manovra.

Sono state scartate le diverse ipotesi di intervento di cui si è parlato in questi giorni: anticipazione della crescita dell’età di pensionamento di vecchiaia delle donne nel settore privato, congelamento delle pensioni di anzianità e crescita delle quote, applicazione del contributivo pro rata, cosa che renderebbe uguali, nel sistema previdenziale, giovani e anziani. Tutte queste misure avevano l’indubbio merito di essere interventi strutturali.
Al posto di queste misure, spunta a sorpresa una regola di cui non si era mai discusso: la “sterilizzazione” dei periodi di studi universitari e di servizio militare, per le persone che intendono andare in pensione con 40 anni di contributi.

Questo tipo di pensione è soggetto a una disciplina particolare: mentre tutte le pensioni di anzianità sono ormai soggette tramite il meccanismo delle quote al raggiungimento di un’età minima, se si raggiungono i 40 anni di contributi (di cui 35 effettivamente lavorati), viene meno il requisito anagrafico.
Secondo il comunicato reso noto ieri al termine del vertice di maggioranza alla presenza di Silvio Berlusconi e Umberto Bossi, si dovrebbe ritardare la data di pensionamento escludendo il diritto di calcolare gli anni di servizio militare e quelli impiegati per il conseguimento della laurea.
Nel comunicato si precisa che i periodi relativi al percorso di laurea e al servizio militare rimangono comunque utili ai fini del calcolo della pensione; questo significa che, pur non potendo essere utilizzati per il calcolo dei 40 anni, questi periodi servono per calcolare l’importo dell’assegno.

Si tratta di un intervento che può produrre uno spostamento molto rilevante della data di pensionamento e rompe in qualche modo il patto che è stato fatto con i lavoratori interessati. Questi, negli anni, hanno maturato un serio affidamento circa la rilevanza del servizio militare (che può essere fatto valere previa domanda) o del periodo di laurea (che addirittura è soggetto a un riscatto molto oneroso); oggi si trovano di fronte a una improvvisa retromarcia da parte del sistema previdenziale. Insomma, una norma punitiva molto lontana da quelle riforme strutturali sulla previdenza che dovrebbero puntare a far crescere l’età media di pensionamento, senza interventi retroattivi. L’effetto punitivo della norma è amplificato dal fatto che siamo di fronte al terzo intervento nell’ultimo biennio sulle pensioni maturate con i 40 anni di contributi.

La manovra dello scorso anno, in sede di conversone della legge 122/2010, aveva introdotto anche per questi trattamenti il sistema delle finestre mobili, generando non poche polemiche. Secondo il nuovo sistema delle finestre, la fruizione della pensione spetta dopo 12 mesi dalla data di maturazione dei requisiti, in caso di svolgimento di lavoro subordinato, oppure dopo 18 mesi, in caso di lavoro autonomo o parasubordinato.
La manovra di luglio di questo anno ha ulteriormente appesantito il sistema delle finestre mobili, per le persone che maturano la pensione con 40 anni di contributi, introducendo delle finestre aggiuntive rispetto alle vecchie. Per chi matura i requisiti nel 2012, la pensione slitta di un mese; i mesi salgono a due per chi matura il diritto nel 2013, e arrivano tre per le pensioni maturate a partire dal 1° gennaio 2014.

Da questa data, quindi, la finestra per chi consegue la pensione con i 40 anni di contributi va da 15 a 21 mesi, secondo l’attività lavorativa svolta. L’attesa aggiuntiva non interessa solo quanti maturano la pensione entro il 31 dicembre 2011, oltre a un gruppo predefinito di 5mila persone, da selezionare tra quelle che matureranno il diritto dopo tale data e che abbiano determinate caratteristiche (lavoratori in mobilità, titolari di prestazioni a carico dei fondi di solidarietà).
La misura, concordata durante il vertice di ieri, in attesa di una valutazione compiuta alla luce dell’emendamento, costituisce dunque l’ultima modifica di una serie di interventi settoriali e selettivi, che lambiscono l’estemporaneità.
Si rinuncia a intervenire sui grandi temi che modernizzebbero in maniera strutturale il sistema previdenziale. Di questo passo, le riforme previdenziali non finiranno mai.


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da La Stampa

Iva bloccata, sparisce la supertassa

Vertice di sette ore nella villa del premier: correttivi per le pensioni, saltano i tagli a Province e piccoli Comuni

PAOLO FESTUCCIA

ROMA
Si riparte da capo. Sette ore di vertice e la manovra anticrisi varata a Ferragosto esce quasi nuova di zecca dal vertice di Arcore tra Pdl e Lega. Da una parte del tavolo Berlusconi, dall’altra Bossi. Nel mezzo il titolare dell’Economia Giulio Tremonti, con una nutrita schiera di ministri, e il segretario del Pdl, Angelino Alfano. C’è Calderoli, i capigruppo, ma pure Maroni, che entra ed esce per rabbonire i sindaci in protesta. Le prime indiscrezioni si fanno attendere, poi prima delle sette il responso: l’Iva non si tocca, e salta pure il superprelievo, inizialmente previsto per i redditi oltre i 90 mila euro (resterà in vigore solo per i redditi dei parlamentari). I correttivi riguarderanno le pensioni. Questa, la sintesi di una giornata, che comincia a metà mattina e arriva quasi a sera. Quando fonti della maggioranza annunciano l’accordo e assicurano che i saldi del Dl anticrisi (45,5 miliardi) «resteranno invariati». Certo. Ma i cambiamenti sono tanti. E che novità, perché dal fascicolo dei tagli si escludono anche le Province. Niente eliminazione per decreto, ma cancellazione (per tutte) con legge costituzionale: più o meno identico percorso per il dimezzamento dei parlamentari.

Insomma, per ora il colpo d’ascia ai costi della politica appare rimandato. Così come l’eliminazione dei piccoli comuni, che però avranno l’obbligo di unire le funzioni fondamentali (a partire dal 2013), e di ridurre il numero dei consiglieri che non potranno più beneficiare né di indennità o gettoni di presenza. Una mini-stretta, che se da un lato allenta la morsa dei tagli, dall’altro attribuisce agli Enti locali maggiori poteri e responsabilità nel contrasto all’evasione fiscale con vincolo di destinazione agli stessi del ricavato delle conseguenti maggiori entrate.

Quindi, la «guerra» alle società di comodo. Nelle intenzioni della maggioranza (oltre alla riduzione di vantaggi fiscali per le società cooperative), e soprattutto nel mirino del ministro Calderoli, «è finita la pacchia per chi utilizza trust per non pagare tasse», ci saranno una serie di misure fiscali finalizzate a eliminare l’abuso di intestazioni patrimoniali elusive. Queste due nuove misure, si spiega, serviranno a sostituire il gettito derivante dal cosiddetto contributo di solidarietà. «La riduzione dei tagli agli Enti locali – spiega Osvaldo Napoli, presidente facente funzione dell’Anci – non sarà di due miliardi, ma di tre. Ora il mio auspicio è che la maggior parte ora venga destinata ai comuni».

Tagli a parte, comunque, la vera novità del vertice di ieri a Arcore riguarda le pensioni. Dopo gli ultimatum di Bossi e i proclami dei leghisti, il carroccio alla fine cede, e così resteranno fuori dal calcolo degli anni di lavoro necessari a raggiungere l’anzianità i periodi di laurea o di servizio militare.
E La Lega annuncia: raddoppio del contributo di solidarietà per i calciatori e tassa più alta sulle rimesse degli stranieri che lavorano in nero e spediscono i soldi guadagnati in Italia nel loro Paese

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Pensioni, enti locali e fisco: ecco le novità della manovra

STRETTA SULLE PENSIONI
Non potranno più essere riscattati gli anni di università e del servizio militare
TONIA MASTROBUONI
Dall’interminabile vertice di Arcore è emersa ieri una piccola rivoluzione sul fronte delle pensioni che, di fatto, manda quasi in soffitta quelle di anzianità. Quelle, cioè, cui si ha diritto indipendentemente dall’età anagrafica dopo un tot di anni di lavoro. E che consentono a chi ha cominciato a lavorare molto presto di ritirarsi dal lavoro altrettanto precocemente.

Il comunicato diffuso al termine del vertice spiega che il decreto di correzione dei conti che continua oggi il suo iter al Senato introdurrà una norma, suggerita dal ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, che cancellerà la possibilità di allungare gli anni di lavoro riscattando quelli passati all’università o a fare il servizio militare o civile, ai fini del calcolo della pensione. Se, per esempio, una persona ha lavorato per 37 anni e ha riscattato i 3 anni passati a studiare, finora può andare in pensione perché totalizza 40 anni. Con la norma messa a punto ieri dalla maggioranza non sarà più possibile: dovrà aspettare fino al raggiungimento di 40 anni effettivi passati a lavorare, altri tre anni.

Naturalmente, i tre anni riscattati vengono calcolati comunque, ai fini della pensione. Dunque non spariscono dal computo dell’assegno previdenziale. Ed è facile, allora, dedurre sin d’ora che la norma colpirà molto più chi andrà in pensione con il vecchio sistema pensionistico retributivo – quello in vigore dagli anni ’70 alla riforma Dini del 1995. Il motivo è semplice: con quel sistema si va in pensione con un assegno calcolato solo sugli ultimi stipendi. Due, quattro o sei anni in più di contributi riscattati dall’università non cambiano nulla, ai fini del cosiddetto “tasso di sostituzione”. Per quella platea il vantaggio di raggiungere la soglia dei 40 anni è solo anagrafica, non economica, è il privilegio di andare in pensione prima dei 60, in moltissimi casi. D’ora in poi sarà molto più difficile.

Invece, per chi è andato e andrà in pensione con il nuovo sistema post-Dini, il sistema contributivo, la pensione viene calcolata in base ai contributi di tutta la carriera lavorativa. Quegli anni in più riscattati dagli studi contano, eccome, per calcolare l’assegno previdenziale. Giuliano Cazzola, parlamentare Pdl e esperto di previdenza, precisa che «con questa correzione non si pregiudicano i diritti dei lavoratori che hanno riscattato la laurea o fatto il servizio militare in quanto questi periodi restano validi anche ai fini del requisito contributivo per il pensionamento di anzianità ordinario (35 anni di contributi oltre al requisito anagrafico) e per la pensione di vecchiaia».

In sostanza, il provvedimento garantirà, come recita il comunicato diffuso al termine del vertice di Arcore, il «mantenimento dell’attuale regime previdenziale già previsto per coloro che abbiano già maturato quarant’anni di contributi con esclusione dei periodi relativi al percorso di laurea e al servizio militare che rimangono comunque utili ai fini del calcolo della pensione».

La novità, secondo un’autorevole fonte governativa porterà un beneficio alle casse dello Stato «nullo nel primo anno, per poi salire a mezzo miliardo nel 2013 e un miliardo nel 2014 e aumentare anche successivamente». E il senso è proprio quello «di evitare che troppi italiani vadano in pensione troppo presto». Sono 80mila i pensionandi ogni anno che hanno riscattato i contributi militari mentre circa 10-11 mila sono i lavoratori che hanno recuperato gli anni per ottenere la laurea. Tra i circa 134mila lavoratori Inps che nel 2010 sono andati in pensione grazie all’anzianità, l’età media era ancora di 58,3 anni. La maggior parte è uscita dunque con 40 anni di contributi e presumibilmente ha cominciato a lavorare molto presto riscattando anche gli anni del militare e dell’università.

L’economista Elsa Fornero, tra le maggiori esperte di previdenza in Italia, parla di una norma «meschina e estemporanea» che introduce un principio di «penalizzazione nei confronti degli uomini» per il riferimento alla leva militare. «È un’ulteriore occasione mancata per una riforma, quello del contributivo pro rata per tutti, davvero equa», ha concluso.

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SALVI I MINI-COMUNI E PER LE PROVINCE ABOLIZIONE RIMANDATA
Prevista una riforma costituzionale per eliminare i 110 enti
ANDREA ROSSI MAURIZIO TROPEANO
«Nella riunione è stato ribadito che l’esistenza delle Province, fondamentali nel quadro istituzionale del Paese, non è in discussione. Siamo invece pronti a una riforma organica, nel pieno rispetto della Costituzione». È il 26 agosto: Giuseppe Castiglione, presidente in quota Pdl dell’Unione delle province, riassume l’esito dell’incontro con il segretario del Pdl Angelino Alfano. Tre giorni, ed ecco il ribaltone: le Province, che tra mille eccezioni sembravano in larga parte destinate a sopravvivere, spariranno. E spariranno tutte, non solo quelle con meno di 300 mila abitanti. I Comuni con meno di mille abitanti, invece, che avrebbero dovuto essere sterminati in 1936 (anche qui con non poche eccezioni), si salveranno.

I municipi portano a casa la pelle dopo dieci giorni di mediazione serrata, condotta dal vice capogruppo del Pdl alla Camera Osvaldo Napoli, presidente facente funzioni dell’Anci. Una trattativa in tre mosse: lunedì scorso il summit nella sede della Lega a Milano, giovedì e venerdì due vertici con il ministro per la Semplificazione Roberto Calderoli ed Alfano. Calderoli ha ceduto poco a poco, non senza le pressioni di buona parte dello stato maggiore leghista, a cominciare dal governatore del Piemonte Cota, preoccupato per gli effetti della misura sulle vallate dove il Carroccio fa incetta di consensi. Senza dimenticare i dati sciorinati dai tecnici dell’Anci e dell’Unione delle comunità montane, secondo cui l’eliminazione dei piccoli centri avrebbe fruttato non più di sei milioni di euro l’anno alla voce «tagli ai costi della politica.

Un forcing che ha convinto il governo a fare marcia indietro, mandando al macero anche le unioni tra Comuni, che sarebbero scattate dai 5 mila abitanti in su. I municipi oltre al sindaco che avrebbe comunque continuato ad essere eletto – manterranno anche i consigli comunali, seppure a ranghi ridotti: tre consiglieri di maggioranza, due d’opposizione. Però entro il 2013 dovranno accorpare i servizi. Le aggregazioni funzionali saranno vincolanti, e non riguarderanno solo i centri con meno di mille abitanti. Le unioni di servizi si estenderanno su aree più vaste, in cui sorgono mini-Comuni ma anche paesi più grandi, inglobando 15-20 mila residenti. E avranno non poche competenze, sottratte alla gestione parcellizzata: ragioneria, contabilità e bilancio; servizi sociali; scuole; urbanistica; trasporti; commercio e terziario. Secondo le stime, i costi di funzionamento delle amministrazioni locali potrebbero essere abbattuti del 30 per cento.

Salvati i campanili, la scure del governo è caduta sulle 110 Province. La prima stesura della manovra prevedeva di eliminarne 38, poi scese a 22. Ieri è arrivata la sorpresa: una legge costituzionale le abolirà tutte. Un quadro ben diverso da quel che si aspettavano i vertici dell’Upi (Castiglione e il vice Antonio Saitta del Pd) dopo l’incontro con Alfano. Ora si aggrappano alla speranza che gli emendamenti partoriti dal vertice di Arcore siano il frutto di un malinteso, un fraintendimento durante la stesura del testo, dettato dall’urgenza di fare in fretta. Nel vertice con l’ex guardasigilli, infatti, Castiglione e Saitta avevano ottenuto precise garanzie, e raggiunto un’intesa di massima sul riordino e la riduzione del numero delle province attraverso una legge costituzionale. La mediazione tra Bossi e Berlusconi invece, permetterà alle 22 Province a rischio di sopravvivere, ma solo per il tempo necessario a modificare la Costituzione. Poi saranno eliminate, e con loro tutte le altre. Le loro competenze passeranno alle Regioni.

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CACCIA AL TESORO DEI RICCHI NULLATENENTI
Tramontata la tassa sui redditi più alti, il gettito verrà recuperato con la lotta all’evasione
PAOLO BARONI
I «ricchi nullatenenti» finiscono nel mirino del Fisco. L’«accordo di Arcore» cancella con un colpo di spugna l’odiato – già da molti, Berlusconi in primis contributo di solidarietà, ma in cambio apre la caccia a trust e società di comodo. Al posto della gabella del 5-10% sui redditi più alti, confermata solo per i parlamentari, arriveranno infatti una serie di «nuove misure fiscali finalizzate a eliminare l’abuso di intestazioni e interposizioni patrimoniali elusive». Il giro di vite riguarderà anche l’abuso di diritto, ovvero tutta quella serie di comportamenti grazie ai quali i contribuenti, a cominciare dalle aziende, cercano le soluzioni fiscali più vantaggiose. Inoltre si metterà mano, per ridurle ulteriormente, anche alle agevolazioni fiscali riservate alle cooperative. Ma visto che in questo campo tutte le manovre dei governi di centrodestra hanno già picchiato duro, nel 1998, nel 2001 ed ancora nel 2008, il grosso del «bottino» arriverà dalla lotta all’elusione.

Uno sforzo non da poco se si considera che in tre anni il contributo di solidarietà doveva fruttare 3,7 miliardi di euro di gettito. Il relatore della manovra-bis, il senatore Pdl Antonio Azzollini, assicura che l’operazione sarà «a parità di gettito». E «la verifica della copertura sarà rigorosa come sempre». Non è la tassa anti-evasori che proponeva nei giorni scorsi il ministro Calderoli, ma ci si avvicina non poco. «Adesso iniziamo con le norme sulle società, poi con la delega fiscale passeremo alle persone fisiche», gongola il ministro. Che proclama: «La pacchia è finita». La caccia per stanare chi vive da nababbo beffandosi del Fisco, insomma, è aperta. Nel mirino, stando alle stime, all’incirca 35 mila società. Che in base ai dati della Guardia di finanza solo nel 2010 hanno eluso tasse per 3 miliardi di euro, su un totale di 50 di evasione accertata.

Il fenomeno interessa non poca gente. Secondo l’associazione consumatori Contribuenti.it quasi la metà (il 47%) dei contratti di locazione per le ville più ricercate e invidiate, da Porto Cervo a Forte dei Marmi, da Capri a Sabaudia, Positano, Ravello e Panarea, da Portofino a Taormina e Amalfi sono infatti intestati a nullatenenti. Ancora più impressionante il dato relativo agli yacht: il 64% delle barche di lusso che circolano in Italia, sono intestate a nullatenenti, prestanome e società di comodo, italiane o estere. Idem per tutti gli altri tipi di «passion investiments», dalle auto fuoriserie agli oggetti d’arte. Lo scopo? È sempre lo stesso: spostare l’attenzione del Fisco dal nome del vero proprietario che in molti casi – si nasconde dietro gli affittuari o proprietari ufficiali facendosi beffe di ogni tipo di redditometro.

Adesso per loro sembra arrivato davvero il momento di pagare il conto. E se il governo non vorrà ritrovarsi con un buco di 3-4 miliardi questa guerra, dopo tanti proclami, dovrà combatterla per davvero. Diverso è il discorso sulle coop. Allo Stato, dopo gli interventi degli anni passati, queste imprese sono tassate come tutte le altre, ad eccezione di una parziale riduzione dell’aliquota relativa agli utili portati a riserva in un fondo indisponibile e indivisibile. Secondo le centrali cooperative, per nulla contente di questo nuovo giro di vite, stiamo parlando non di miliardi, ma di un valore, nel 2010, «di qualche decina di milioni di euro». Fonti del Pdl parlano invece di 750 milioni, una bella differenza.


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da “il manifesto”

 

Giorgio Salvetti MILANO
Enti locali Enti localiTagli neppure dimezzati e abolizione di tutte le provincie ma solo per via costituzionale COMUNI Il corteo di Milano non azzera i tagli. La mobilitazione continua
La protesta dei sindaci

 

MILANO
Uno sconto di due miliardi sui tagli agli enti locali e una mezza marcia indietro sull’eliminazione dei piccoli comuni. La lunga giornata dei sindaci si è conclusa con una cocente delusione. Neppure la più grande manifestazione bipartisan promossa dall’Anci a Milano è riuscita a far cambiare idea al ministro Tremonti. Quando ieri mattina i sindaci hanno riempito il Pirellone si aspettavano di avere già in tasca almeno un dimezzamento del taglio di 6 miliardi ai municipi che era previsto dal decreto di Ferragosto. Ma la gran parte dei sindaci italiani non era disposto ad accontentarsi di questa mediazione al ribasso. Tutti chiedevano che i tagli fossero azzerati perché questa è la terza manovra in pochi mesi che si abbatte pesantemente sugli enti locali obbligandoli a tagliare i servizi. E invece, nonostante uno straodinario corteo, è andata ancora peggio di quanto previsto.
Alla fine della giornata i comuni hanno annunciato che la protesta continuerà e si sono già dati appuntamento oggi a Roma. Le sorprendeti conclusioni del vertice di Arcore hanno deluso persino il prudente presidente facente funzione di Anci Osvaldo Napoli. «Dal vertice è venuto qualche timido riconoscimento per la situazione finanziaria degli enti locali – ha dichiarato in serata – ma in attesa di conoscere i dettagli dell’accordo, il giudizio si configura più negativo che positivo». Eppure nei giorni scorsi era stato proprio Napoli a condurre una trattativa interna alla maggioranza che sembrava avere strappato a Tremonti almeno il dimezzamento dei tagli ai comuni. E se anche lui è deluso, significa che i sindaci italiani sono davvero arrabbiati. Tanto che Napoli poco dopo si corregge: «Le notizie più precise che arrivano dal vertice riferiscono di una riduzione dei tagli agli enti locali di 3 e non di 2 miliardi». Ma ormai nessuno si fida più.
Eppure la giornata era cominciata alla grande, tre miliardi sembravano già in cascina e si pensava di poter puntare alla totale abolizione dei tagli. La sala Gaber del Pirellone dopo pochi minuti è stracolma. Molti sindaci non riescono neppure a entrare. Lo stesso Napoli si mostra sicuro e combattivo: «Tremonti stavolta dovrà capire che le richieste a saldi invariati che arrivano dalla maggioranza dovrà subirle». Ma la sua linea moderata, giocata sul filo di lana nel tentativo di bilanciare il braccio di ferro tra Pdl e Lega, non piace quasi a nessuno. I sindaci non sono venuti a Milano per accontentarsi.
Bastano pochi minuti per capire che bisogna uscire e portare la protesta nelle strade. Non si era mai vista la polizia scortare un corteo di due mila persone con la fascia tricolore e i gonfaloni in spalla. In testa ci sono Giuliano Pisapia e Gianni Alemanno, il sindaco leghista di Varese Attilio Fontana e Piero Fassino, il sindaco di Verona Flavio Tosi e il sindaco di Genova Marta Vincenzi. Ma soprattutto ci sono i sindaci di tanti comuni medi e piccoli giunti da ogni regione d’Italia, specialmente dal nord che tanto dovrebbe stare a cuore ai capi leghisti ospiti del premier. «Lena c’è», è la scritta fatta con un pennello su uno straccio. “Azzano c’è… ancora”, recita un altro cartello. Tre sindache portano un drappo nero al posto dello striscione. Sono a lutto. Ma il clima è tutt’altro che triste. A passo spedito si corre verso piazza Scala. Davanti al comune di Milano è pronto un piccolo palco. «Siamo noi, siamo noi la risorsa dell’Italia siamo noi», cantano i primi cittadini come allo stadio. In testa un cappellino giallo. Al microfoni i rappresentanti dei piccoli comuni chiedono l’abolizione di quell’articolo 16 che vorrebbe fare piazza pulita del loro lavoro. Poi tocca ai big. Pisapia e Alemmano denunciano l’impatto disastroso della manovra sui loro bilanci. Applausi per tutti. Si canta l’inno di Mameli. La festa però finisce qui.
Una delegazione dei sindaci va in prefettura ad aspettare Bobo Maroni. Il ministro che più si era battuto per i comuni è in arrivo da Arcore. I sindaci si aspettano buone notizie. Invece mezz’ora dopo escono con la faccia scura mentre Maroni sgomma di nuovo verso la villa di Berlusconi. «Non basta ridurre l’impatto di questa manovra. Bisogna rivederla, anzi azzerarla. Altrimenti non siamo nelle condizioni di sostenibilità economica per garantire i servizi. Maroni porti chiaro il messaggio al governo». Le parole dure del sindaco Alemanno sono il segnale che non è andata bene. I tagli non sono azzerati, neppure dimezzati. I piccoli comuni sono salvi ma sono obbligati ad accorpare le funzioni, ridurre i membri dei consigli e tagliare i gettoni di presenza. «Un pasticcio – commenta Mauro Guerra, coordinatore Anci dei piccoli comuni – non si possono imporre accorpamenti dall’alto senza conoscere il territorio. Quanto alla riduzione del gettone è ridicolo, si risparmiano 17 euro per consigliere».
Il bilancio di una giornata bella ma finita male è tutto nel commento del sindaco di Milano. «I comuni ancora una volta vengono colpiti da scelte miopi e irresponsabili – dichiara Giuliano Pisapia – Contro l’accetta del governo l’unica soluzione è la mobilitazione permanente dei sindaci».


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