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Il governo al calciomercato

Alessandro Robecchi

Il governo al calcio-mercato Gentile Bce, egregi signori del Fondo Monetario Internazionale, dottor Standard & dottor Poor’s, l’accavallarsi simultaneo di due importanti scadenze ha agitato ieri per qualche ora la vita della Repubblica Italiana. La chiusura del calciomercato e il temine ultimo per la presentazione degli emendamenti alla manovra economica (bis, ter e quater) hanno creato notevole agitazione e anche un po’ di sconcerto, che tenteremo di dissipare con una precisa ricostruzione delle frenetiche ore della serata di ieri.

Come saprete, Zarate è passato dalla Lazio all’Inter, cosa assai gradita a tutte le altre squadre e molto meno ai tifosi nerazzurri che avrebbero preferito tenersi Eto’o e rinunciare al riscatto dell’anno di militare nel computo della pensione. Dal canto suo, il governo ha preferito rinunciare al sacrificio del riscatto degli anni universitari in cambio di Nocerino e un nuovo portiere. Purtroppo però Nocerino, all’ultimo minuto, ha firmato per il Milan. Prontissima la risposa del governo che ha offerto un contributo di solidarietà per i redditi sopra i centomila euro più la comproprietà di Brunetta, riscattabile a fine campionato. L’Udinese ha rifiutato asserendo che Brunetta non è forte di testa, è rissoso, cattivo, e che comunque a lei serve un centrocampista di fantasia. Gago è invece passato dal Real Madrid alla Roma, arrivo confermato con un fax giunto in extremis all’hotel Gallia di Milano.

Con un fax arrivato in extremis all’hotel Chigi di Roma, invece, si opziona l’aumento dell’Iva di un punto percentuale, eventuali premi partita e gettoni per la Champions, più il taglio delle risorse per i Comuni, che passerebbe in prestito al Bologna. La doccia fredda di un nuovo infortunio a Umberto Bossi ha scompaginato i piani della Lega, che si è detta interessata a Brighi, che invece è stato ceduto dalla Roma all’Atalanta con promessa di riscatto se si aboliranno le province entro la fine del girone di andata. Ancora incerte, al momento, le sorti del contributo di solidarietà per i redditi medio-alti, che potrebbe far parte della manovra economica, ma anche passare al Lecce in cambio di un certo Giandonato che dicono giocasse nella Juventus, ma probabilmente è una pippa (se no la Juve se lo teneva, o lo scambiava con Prestigiacomo dell’Ambiente, considerato inutile dalla squadra di governo).

La fine delle agevolazioni fiscali per le cooperative resta al Palermo, mentre passano alla manovra economica di Tremonti Floccari, più una straordinaria stangata per i lavoratori statali, gli unici che non riescono a giocare nemmeno nelle serie minori. Per tutta la giornata si è attesa la decisione del Pd sull’adesione allo sciopero generale della Cgil, ma la direzione del maggiore partito di opposizione ha comunicato in serata che per una decisione definitiva aspetta le visite mediche di Cigarini, passato all’Atalanta, oltre al via libera della Federazione sulla cessione di Sacconi (dal ministero del Lavoro al Siena). Per qualche ora si è temuto per la sorte di Bonanni: il suo passaggio dalla Cisl al Napoli (in cambio di Lavezzi e due stecche di Marlboro) era dato per certo finché il suo agente ha smentito con un secco comunicato: «Per il governo Berlusconi Bonanni è considerato incedibile, di Angeletti invece possiamo parlare, ma so che interessa al Chievo».

In serata l’Unione Europea ha fatto sapere che «servono urgenti misure per la crescita». Brunetta, credendo si parlasse di lui, ha lasciato il consiglio dei ministri e si è offerto come centromediano alla Fiorentina, che ha rifiutato con raccapriccio considerandolo inaffidabile e comunque inferiore a Montolivo. In un comunicato congiunto Berlusconi, Calderoli e Galliani hanno detto che non è il caso di preoccuparsi e che troveranno la quadra. Certi di avervi rassicurato sulla mano ferma e decisa che guida l’economia italiana, oltre che sulla credibilità e sulle capacità dell’attuale governo del paese, porgiamo distinti saluti.

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Francesco Piccioni

Retromarcia sulle pensioni Saltano i conti Affossato in pochi minuti il divieto di calcolare università e militare per l’anzianità. Il buco torna ad essere di 7 miliardi Una manovra da disturbo bipolare. Poco più di 24 ore dopo averla partorita in un vertice di ben sette ore con i «grandi capi» della coalizione di governo, la misura che aboliva il calcolo degli anni di università e quello di servizio militare ai fini dell’anzianità di lavoro è stata cancellata durante un incontro a due non proprio epico: Maurizio Sacconi e Roberto Calderoli.

Esultano giustamente tutti quelli che avevano dato vita a un tam tam di protesta che avrebbe svegliato un morto (dai medici, che rischiavano di restare al lavoro anche una decina di anni in più, ai valligiani con dodici mesi di marcia giovanile tra gli alpini). La platea degli interessati, all’inizio minimizzata («poche decine di migliaia»), è risultata poi composta da ben 665mila persone.

A far cadere le ultime resistenze, però, non sono state considerazioni di ordine sociale o di «giustizia», ma la cruda osservazione dei tecnici ministeriali: è incostituzionale, un sacco di gente ha già pagato il riscatto della laurea e saremo sommersi da ricorsi che perderemo di sicuro. Messa via anche questa posta che doveva assicurare 1,5 miliardi tra il 2013 e il 2014, la domanda di tutti – in primo luogo dei «mercati» – è diventata: da dove si prendono le risorse per raggiungere il saldo finale di 45,5 miliardi che è stato promesso alla Ue? Il problema si è dimostrato subito molto più complesso; e le cifre più alte. Nel «compromesso di Arcore» erano state cancellate due voci crudeli, ma dal gettito sicuro: il «contributo di solidarietà» per i redditi oltre i 90.000 euro l’anno (è rimasta solo per i dirigenti pubblici) e una robusta limata ai tagli per i comuni. In totale quasi 7 miliardi, che ora sono di nuovo tutti lì da trovare.

La risposta demagogica è arrivata subito: «inaspriremo la lotta all’evasione». L’idea per farlo non è neppure male – affidare ai Comuni competenze di polizia tributaria, vista la loro conoscenza del territorio e dei «possidenti» visibili, incentivandoli con il diritto a trattenere una quota rilevante (il 50% o persino oltre) delle cifre recuperate – ma è strumento di cui si può fissare il gettito solo «a consuntivo». Ovvero dopo che una cifra è stata recuperata. Ma non si può indicarne una preventivamente, come posta di bilancio «certa». In assenza di un coordinatore che parlasse per conto del governo c’è stata una fila di dichiarazioni cervellotiche, con cui questo o quell’esponente della maggioranza provava a mettersi in vista.

Il leghista Castelli ha buttato lì che si potevano recuperare «350 milioni aumentando le tariffe autostradali». Qualcun altro, più seriamente, ha rispolverato l’aumento dell’Iva (4 miliardi, più o meno), pur conoscendone le controindicazioni (deprime i consumi, quindi incide negativamente sulla crescita). Altri ancora hanno preso a girare come avvoltoi sul bottino pensionistico. Proponendo chi un recupero dello «scalone» previsto dalla riforma Maroni (blocco totale del pensionamento per due o tre anni, all’ingrosso), oppure un anticipo dell’innalzamento dell’età pensionistica (da 60 a 65 anni) per le donne che lavorano nel settore privato. Naturalmente è un’idea di Brunetta. In serata qualche conferma più ufficiale: niente ritocco delle pensioni in questa manovra, provvederà con quella d’autunno (il tempo di mettersi d’accordo meglio). Ancora Brunetta.

Anche l’idea di aumentare la tassazione degli utili delle società cooperative – su cui era già stato messo mano – non è apparsa affatto risolutiva; i tecnici si sono preoccupati di chiarire che in ogni caso «siamo lontanissimi dal coprire quell’ammanco». Fantasiosa, infine, l’ipotesi che la «Robin Tax» sulle società energetiche possa dare un gettito molto superiore a quello fin qui calcolato (5,6 miliardi in tre anni invece che l’1,8 computato dal Tesoro).

Su tutto, l’aria pesante dei «mercati». Anticipato dal Financial Times (la negoziazione sulle misure della manovra trasmette un messaggio confuso»), è arrivato nel pomeriggio l’altolà dell’Unione europea. Diplomaticamente, è stato fatto parlare il portavoce del Commissario per gli affari economici, Olli Rehn. «Nell’analizzare i contenuti della manovra italiana, la Commissione europea dedicherà particolare attenzione alle misure strutturali destinate ad agevolare e sostenere la crescita per verificare che esse rispettino i parametri fissati nelle raccomandazioni rivolte dall’Ue all’Italia lo scorso giugno». E «siamo fiduciosi» sulla possibilità che tali provvedimenti, nella versione definitiva della manovra «abbiano un peso maggiore» rispetto a oggi. Come dire: siete su una strada sbagliata, anche se troverete i 45 miliardi.

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Tommaso De Berlanga

 Con gli squali non si scherza

Le borse mondiali corrono, cercando di dimenticare un agosto da infarto. Ma se si guardano ai «fondamentali» – le attese sui profitti futuri delle aziende quotate – non si vede alcun motivo per un rally. La crescita rallenta, specie nei paesi più avanzati, è già quasi a zero; ergo, le aziende non possono sperare di far molto meglio. La relativa euforia dell’ultima settimana, dunque, sembra motivata da «ragioni esterne» ai mercati.

Non ci vuol molto a capire che queste ragioni sono rappresentate dall’impegno della Federal Reserve statunitense e della Bce a «fare tutto il necessario per sostenere l’economia». Impegni «politici», dunque, per quanto le due istituzioni ci tengano molto a mantenere un profilo solo «tecnico». Ma i loro stessi statuti le obbligano – più l’americana che l’europea – a mettere in campo «azioni» per realizzare obiettivi «spontaneamente» irraggiungibili per via di mercato. Entrambe, per esempio, hanno comprato titoli di stato per sostenerne il valore e contenere le differenze di rendimento – i citatissimi spread – entro limiti non destabilizzanti. In ogni caso, il loro «portafogli» è in definitiva garantito dagli stati di riferimento: uno esistente (gli Usa), l’altro in fieri e sorpreso dalla crisi a metà del guado (l’Europa).

Sta di fatto, quindi, che il capitalismo attuale sembra aver ridisegnato globalmente il ruolo degli Stati nazionali: non più di governo e sostegno di territori limitati, vincolati dal consenso delle rispettive popolazioni, ma di «sostegno ai mercati» anche – o forse soprattutto – a dispetto delle condizioni di vita delle popolazioni civili e dei livelli di vita raggiunti nel dopoguerra. La fine del «modello sociale europeo» è stata decretata nelle stanze dei manager finanziari, prima di diventare operativa a Bruxelles o Francoforte.

Cosa significa questo per l’Italietta berlusconiana alle prese con la manovra? Che o si corrisponde alle «aspettative» degli «investitori istituzionali» – in soldoni: le grandi banche internazionali – o non si riescono più a piazzare i propri titoli di stato durante le «aste». È accaduto alla Grecia e all’Islanda, con risposte politiche ed esiti completamente diversi.

L’Italia ha in scadenza titoli per 130 miliardi da qui al 31 dicembre, senza contare la dinamica del fabbisogno. E nel 2012 – «anno Maya» del debito mondiale – deve rifinanziarsi per 250 miliardi (senza calcolare annessi e connessi). Una manovra abborracciata, con buchi evidenti, suonerebbe come una presa in giro agli occhi delle grandi banche. E gli interessi da garantire diventerebbero tali da stroncare qualsiasi velleità di risanamento del debito pubblico. La Grecia sta ancora lì a dimostrarcelo.

Sentirsi too big too fail, dopo Lehmann Brothers, significa dimenticare che si è anche too big to save. Sarebbe meno traumatico dichiarsi indisponibili a restituire il debito contratto con l’estero – la «soluzione islandese» – piuttosto che giocare di furbizia con chi i bilanci, anche truccati, sa leggerli meglio di chi li scrive.

da «il manifesto» del 1 settembre 2011

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Al ritorno dalle vacanze estive, gli italiani si trovano di fronte una maggioranza di governo «impantanata» sulla manovra economica, sulle cui misure prevale ancora il caos. Lo scrive il Financial Times in un lungo articolo dedicato alla situazione dell’Italia, alle prese con il piano di austerità richiesto dalla Bce. «La crisi porta a galla le debolezze dei principali attori della commedia italiana», titola il quotidiano londinese. «Stando alle notizie riportate dalla televisione di Stato – afferma l’Ft – gli italiani al ritorno dalla pausa estiva potrebbero essere perdonati per ritenere che poco sia cambiato da quando sono partiti per le vacanze», perchè «in un certo senso hanno ragione». «La disfunzionale e scandalistica coalizione di governo di Silvio Berlusconi, – prosegue il Ft – è infatti ancora in disordine e impantanata nelle dispute sull’aspetto finale che dovrà avere il pacchetto di austerità di emergenza». La manovra italiana occupa anche le pagine del Wall Street Journal che esprime tutte le sue perplessità per i continui cambiamenti emersi negli ultimi giorni. «L’Italia di Berlusconi – titola il giornale – inciampa in una raffica di piani di austerità». «Nell’arco di due mesi – scrive nell’articolo il Wsj – Berlusconi ha svelato una valanga di misure e contromisure da far girare la testa alla Borsa di Milano così come nelle stradine acciottolate dei paesini italiani».

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da Il Sole 24 Ore

Gettito strutturale ma la stima è incerta

 

Le nuove coperture per garantire l’«invarianza dei saldi» della manovra in discussione al Senato saranno individuate per gran parte sul fronte fiscale. La faticosa caccia ai 4 miliardi che, dopo le modifiche annunciate lunedì nel vertice di Arcore, tuttora mancano all’appello sta dunque per chiudersi facendo ricorso a un nuovo pacchetto di misure antievasione per circa 2 miliardi, cui comunque dovrebbero affiancarsi i risparmi attesi dalla nuova formulazione dell’emendamento sulle pensioni all’esame dei tecnici dell’Economia, dalla riforma della giustizia civile e dalla riorganizzazione degli uffici giudiziari.
L’arma di riserva resta l’aumento di un punto dell’aliquota ordinaria dell’Iva, che potrebbe propiziare 3,7 miliardi attraverso uno spostamento di beni nelle tre attuali aliquote del 4, 10 e 20%, ma al momento l’ipotesi è ritenuta improbabile da diversi esponenti della maggioranza.

La rinuncia ai risparmi (1,5 miliardi a partire dal 2013), attesi dalla norma sullo scomputo degli anni di università riscattati e del servizio militare ai fini del calcolo dell’effettiva anzianità contributiva, ha imposto una ricognizione aggiuntiva sul fronte delle coperture. Si tratta di compensare il venire meno del «contributo di solidarietà» del 5% sui redditi superiori a 90mila euro e del 10% oltre i 150mila euro (3,8 miliardi) e l’annunciata riduzione dei tagli a carico degli enti locali (2 miliardi).
Si agirà pur sempre sulla leva fiscale, attraverso il nuovo pacchetto antievasione ed elusione. Copertura garantita? Il buon senso, prima ancora del rispetto puntuale delle norme di contabilità pubblica, imporrebbero di non “prenotare” anzitempo gettito futuro che comunque appare di difficile quantificazione ex ante. Ma l’esigenza di far quadrare i conti, unita all’urgenza, ancora una volta appaiono predominanti. Del resto, la prassi a utilizzare i proventi attesi dalla lotta all’evasione a beneficio delle manovre di finanza pubblica è prassi ormai ricorrente. Da Bruxelles non dovrebbero giungere al riguardo obiezioni, poiché comunque quelle che si mettono in cantiere dovrebbero essere entrate strutturali. A patto naturalmente che si tratti di un gettito assolutamente certo. Diverso sarebbe il discorso qualora si prospettasse malauguratamente l’ipotesi di un nuovo condono, in quanto si tratterebbe di un’entrata una tantum. Da questo punto di vista, l’invito giunto a più riprese dalla commissione europea è a far fronte solo con entrate permanenti.
D.Pes.

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dal Corriere della sera

Fidarsi delle leggi e delle istituzioni

Almeno oggi l’abbiamo fatta franca. Domani, chi lo sa: la nostra via è piena di trappole, ci vuol poco a mettere un piede in fallo. Ma sono trappole di Stato, inganni tessuti da Sua Maestà la Legge. Come l’idea di revocare il riscatto della laurea e del servizio di leva ai fini pensionistici, con buona pace dei 665 mila italiani che ci avevano creduto, sborsando anche fior di quattrini. O come la trovata speculare del Pd, che ha proposto una tassa aggiuntiva del 15% per chi aveva profittato dello scudo fiscale del 2009, confidando nella garanzia di pagare non più del 5% sui capitali rientrati dall’estero.

Insomma di volta in volta cambiano le vittime, non l’abitudine di stracciare i patti stipulati con l’una o l’altra categoria di cittadini. Eppure quest’abitudine inocula un veleno nella nostra convivenza, perché ci insegna a diffidare delle istituzioni, e a disprezzare in ultimo tutto ciò che è pubblico, di tutti. C’è infatti un principio che in ogni Stato di diritto regola i rapporti fra governanti e governati: il principio dell’affidamento. Non è scritto nero su bianco nei testi normativi, tanto non serve, sarebbe come scrivere che la legge è fatta di parole. Ciò nonostante, la Consulta vi si è riferita in 500 casi, mentre in altre centinaia di decisioni ha usato l’espressione «buona fede», «fiducia», «correttezza» e via elencando. D’altronde pure la Costituzione evoca il concetto di lealtà (art. 120), non meno che la fedeltà e l’onore (art. 54). Non è un caso, così come non è affatto fortuita l’assonanza fra leale e legale. Altrimenti – dice Pericle ad Alcibiade, in un dialogo che ci ha trasmesso Senofonte – la legalità sleale diventerebbe una sopraffazione.

Quante volte ce n’è invece toccata l’esperienza? Succede quando le leggi parlano ostrogoto per non farsi capire, per occultare regalie a questa o a quella lobby. Quando si travestono per mostrarsi caste e sante (la legge n. 194 del 1978, quella che ha depenalizzato l’aborto, s’intitola «Norme per la tutela sociale della maternità»). Quando mettono in circolo 35 mila fattispecie di reato – come avviene in Italia – sicché un poverocristo può inciamparvi senza nemmeno sospettarne l’esistenza. Quando sono retroattive, stabilendo oggi le regole di ieri (così trasformando l’innocenza in una colpa, e degradando i giudici ad altrettanti poliziotti, come osservava Montesquieu). Quando ipocritamente si qualificano leggi d’interpretazione «autentica» (furono appena 6, nei primi quarant’anni del Regno d’Italia; ne sono state approvate 150, nei primi quarant’anni della Repubblica), per conseguire effetti retroattivi senza dichiararlo. Quando frodano i risultati d’un referendum (come sul finanziamento pubblico ai partiti, abrogato nel 1993 dagli italiani, riesumato sotto mentite spoglie da una legge del 1997). O infine quando revocano promesse dettate dalla legislazione preesistente.

Non che la lealtà alloggi nelle tombe. Le situazioni cambiano, la borsa della spesa non è sempre tintinnante. E c’è inoltre da pensare a quelli che verranno, ai diritti delle generazioni future cui si riferisce la Carta di Nizza del 2000. Ma c’è una condizione, una soltanto, che può farci accettare la revoca degli impegni assunti dallo Stato. Eguaglianza, ecco il suo nome. La legge leale è una legge eguale, che non separa i figli dai figliastri.

Michele Ainis

 

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da La Stampa

 

“E’ stata colpa di Sacconi”

“Sulle pensioni è stato fatto
un errore”, Sacconi indiziato
numero uno. “No a inasprimenti, adesso dobbiamo far pagare a tutti le tasse”

UGO MAGRI

ROMA
Berlusconi ammette l’« errore» del governo sulle pensioni. Ma, ancor più della ricaduta in patria, lo preoccupa l’immagine internazionale. Teme che i mercati giudichino il governo allo sbando.
Oggi profitterà del summit parigino sulla Libia «per tranquillizzare l’Europa e la Bce sulla serietà della manovra».

Appena Berlusconi si troverà davanti il presidente della Commissione Ue Barroso e tutti gli altri capi di governo, dirà loro «che siamo impegnati a rispettare i saldi finali, dunque non devono preoccuparsi delle notizie dall’Italia perché, in collaborazione con Tremonti, abbiamo saldamente in mano la situazione». Stessi concetti, anticipa un premier parecchio determinato, esprimerà oggi per telefono ai vertici Bce coi quali il rapporto è strettissimo da prima di Ferragosto. Furono proprio loro, svela Berlusconi, «ad avvertirci che avevano notizia di un nuovo attacco speculativo cui stavolta si sarebbero associate grandi banche e pure certi fondi d’investimento d’oltreoceano». Momenti difficili e concitati, in cui da Francoforte lanciarono il famoso ultimatum: «Noi possiamo aiutarvi, però prima dovete anticipare di un anno la manovra già decisa». A tal fine, tramite Bankitalia, «ci diedero un elenco di misure» con cui far fronte all’emergenza, «raccomandandosi di procedere in tutta fretta, perché nel weekend dovevano riunire i governatori che a loro volta avrebbero informato i rispettivi governi» sull’anticipo dei sacrifici in Italia. Il governo «fece del suo meglio» ma, invoca ora comprensione il premier, «avemmo meno di 4 giorni per fare la manovra». E sebbene «io avessi lavorato 20 ore al giorno sui provvedimenti», alcuni aspetti lo lasciarono insoddisfatto.

L’idiosincrasia del Cavaliere per la parola «tasse» è a tutti nota. Non si stenta a credere, dunque, che davvero il cuore gli «grondasse sangue» quando varò il contributo di solidarietà. Da subito decise di cancellarlo. Ma come riuscirci a saldi invariati? La via maestra sarebbe stata alzare l’età pensionabile, riconosce. Peccato che ci fosse «il no assoluto» della Lega. Sennonché, colpo di scena. Durante il vertice di lunedì ad Arcore, «arriva a Tremonti la telefonata del ministro Sacconi che gli dice: Cisl e Uil potrebbero accettare un intervento limitato agli anni dell’università e del servizio di leva». A nome della Lega interviene a quel punto Calderoli e annuncia «lo possiamo accettare», cosicché la misura entra nel comunicato finale. Confessa candidamente il premier: «Pensavamo che riguardasse poca gente, invece poi abbiamo scoperto che riguardava oltre 600 mila persone, compresi quanti avevano già pagato». Una misura «troppo odiosa», chiaramente non poteva reggere, tra l’altro «Calderoli è stato completamente sconfessato dagli altri leghisti».

Berlusconi nega che ora sussistano problemi di copertura. Pure lui, come Tremonti, è convinto che la lotta all’evasione darà grandi frutti. Ieri si sono visti Befera (direttore generale delle Entrate) e Ghedini (avvocato del premier) per studiare misure efficaci, un giro di vite spiegato da Berlusconi con queste parole mai udite prima dalla sua bocca: «Al punto cui siamo arrivati, non si può bastonare chi già paga le tasse. E’ tempo che tiri fuori i soldi chi non le ha mai pagate». Lotta senza quartiere all’evasione, dunque. Senza esagerare, tuttavia, poiché «mica possiamo precipitare in un sistema di polizia tributaria», dove si applicano strumenti di tortura alla Torquemada. Al momento il «buco» da colmare viene stimato dal premier in un paio di miliardi o poco più, perché Tremonti sta lavorando alacremente alle coperture, molte le ha già trovate e altre ne troverà. Ma può accontentarsi l’Europa di quxeste promesse? Come reagirà la signora Merkel, sempre così scettica sui nostri impegni di maggior rigore? Come la prenderanno i mercati?

Il Cavaliere ritiene che facciano molto danno all’estero certe dichiarazioni, di Casini in particolare, su un governo in stato confusionale. Tuttavia è sereno perché ritiene di avere un asso nella manica. Si chiama «clausola di salvaguardia» e l’idea, in verità, non è sua ma è nata nella mente fervida di Calderoli. Consiste nell’impegno a varare un aumento dell’Iva nel caso malaugurato in cui la lotta all’evasione non desse i frutti sperati. L’aliquota del 20 per cento «salirebbe al 21 o anche al 22», in modo da garantire entrate rispettivamente per 4 e 8 miliardi. Potrebbe anche trattarsi di un aumento dell’Iva solo temporaneo, per 3-6-12 mesi. L’importante è che in Europa possano fidarsi di noi, e sappiano che «abbiamo un paracadute» sempre disponibile in qualunque momento. Spera di vincere così le inevitabili diffidenze.

I mercati si chiedono anche quando verrà approvata la manovra definitiva. Qui però Berlusconi ha un vincolo: «Ho già detto in maniera chiara che le misure non sono fisse e intoccabili». Casomai se ne dimenticasse durante l’esame parlamentare del decreto, provvederebbe il Presidente della Repubblica a rammentargli il metodo del dialogo che significa, concretamente, niente approvazione a tappe forzate oppure a colpi di fiducia. Ma anche disponibilità all’ascolto nei confronti dell’opposizione e delle parti sociali. L’impegno del premier parrebbe sincero. «Siamo aperti a esaminare al Senato qualunque proposta migliorativa che fosse avanzata da chiunque». Il governo intende procedere «non più in una logica di divisione partitica ma sulla base solo del buonsenso». Tutto può essere cambiato, ad eccezione dei saldi finali. In caso contrario, l’esame parlamentare del decreto da 45 miliardi si trasformerebbe nell’ennesimo assalto alla diligenza.

In conclusione: Berlusconi mastica amaro per la cattiva figura sulle pensioni di cui ritiene colpevole Sacconi (il ministro a sua volta ritiene di essere stato a sua volta illuso da Bonanni e da Angeletti, altrimenti mai si sarebbe mosso). Comunque il premier è convinto di avere l’occasione per riscattare il prestigio internazionale del governo. «Alla Bce e all’Europa oggi dirò che la nostra è una manovra seria, e che manteniamo lo stesso impegno di due settimane fa a rispettare tutti gli obiettivi di risanamento».

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