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Aria di crisi sociale. Media al capezzale dell’Italia

La seconda parte, sottintesa, del concionare formigoniano e confindustriale è un po’ meno ecumenico: “voi straccioni avete vissuto con salari troppo alti e pensioni troppo generose”. Mentre i “benestanti” hanno tutto il diritto di continuare a essere tali, vista l’ideologia liberale secondo cui “prima o poi” la ricchezza privata si tramuterà in “investimenti”. Il fatto che la proprietà italiana sia sostanzialmente “tesaurizzatrice” (tende cioè a mettere i soldi “in caldo”, per esempio nell’immobiliare) invece che imprenditrice, viene accuratamente glissato.

Qui si innesta quella differenziazione con la “sinistra aspirante parlamentare” (Sel, oltre l’Idv, in primo luogo) che senza dirlo accetta i paletti imposti da Bce & co., ma “tempera” socialmente il ragionamento – o prova a farlo – puntando il dito sull’ineguale redistribuzione del reddito nei decenni passati e quindi anche nel prossimo futuro. Bisognerà abituarsi a questa contrapposizione fasulla nel “discorso pubblico”. Soprattutto bisognerà sforzarsi di riconoscerla nei “luoghi comuni” che seminerà a piene mani.

Ma ridurre gli stili di vita al di sotto della media fin qui percepita come “normale” è un’operazione socialmente rischiosa. L’Italia non è più da decenni contenitore di “tensioni rivoluzionarie”, ma una frantumazione del tessuto sociale presenta comunque rischi enormi. L'”anomia relazionale” rischia di radicalizzarsi. Il fantasma di banlieu percorse da bande alla ricerca di un reddito purchessia diventa meno astratto. Alcuni quartieri metropolitani offrono già ora squarci di visione su un futuro “post-atomico”.

La sfera normalmente incaricata di evitare il degrado sociale verso l’anomia (che è l’opposto dell’anarchia, va detto) è “la politica”. Che si ritrova però oggi – e soprattutto in prospettiva – senza più risorse per effettuare la necessaria “mediazione sociale” (welfare, sanità, assistenza, istruzione, processi inclusivi, ecc) e contemporaneamente azzerata nella qualità, dopo anni di clientelismo sostitutivo della “formazione di una classe dirigente”. La “balcanizzazione della politica” allora rischia di diventare lo specchio rotto che moltiplica e rafforza la balcanizzazione sociale. In assenza di un’alternativa politica al tempo stesso “radicale” (perché capace di affrontare alla radice il nodo gordiano della crisi) e “realistica” (perché altrettanto capace di valutare esattamente rapporti di forza sociali e passaggi), lo scenario peggiore è sempre il più probabile.

E questa preoccupazione comincia a far capolino nei media – o nei giornalisti – meno disattenti. Un piccolo panorama di giornata.

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da Repubblica

Riconquistare il futuro

di BARBARA SPINELLI
UN ASPETTO impressionante, nella crisi che traversiamo, è l’impreparazione dei popoli. Non è l’impreparazione di chi si sente riparato. La crisi, inasprendo ineguaglianze divenute smisurate lungo gli anni, pesa sui popoli da tempo. Ma questa volta gli animi sono impauriti, disorientati, come se mancasse loro una bussola che indichi dove sta, veramente, il Nord. Nei Paesi più colpiti, come la Grecia, la disperazione può sfociare in guerra civile: come può sdebitarsi una nazione così sprofondata nella recessione, senza sfasciarsi? Nei Paesi che stanno meglio, come la Germania, cresce un isolazionismo antieuropeo non meno intirizzito. In Italia il disorientamento è diverso: la democrazia è talmente guastata, il legame sociale talmente liso, l’opinione talmente disinformata, che ciascuno scorge nella crisi qualcosa che concerne gli altri, mai se stesso.

Anche se diversi, i popoli hanno però questo, in comune: non sanno la storia che fanno. Vivono come in una caverna: fuori c’è un aperto da cui dipendono – l’Europa, il mondo – ma di cui non sanno nulla. Non vedono il futuro, sempre aperto visto che lo scriviamo noi. Non vedono che il futuro è ormai cosmopolitico nei fatti, non nella teoria. La cosa che più temono è cambiare ottica. Ogni novità appare ominosa, mai si presenta come occasione d’imparare la vita all’aperto. Come in Balzac, gli impauriti accettano che il passato domini il presente, e del presente diventano i proscritti.

Questa impreparazione non è tuttavia priva di speranze, in Italia. Basta una cifra – 1 milione 200 mila che condannano la legge elettorale – e subito si capisce come il popolo voglia riprendersi il futuro, partecipare al suo farsi. Come sia disgustato da politici che usano il popolo, che gli tolgono sovranità nell’attimo in cui ne magnificano il primato. L’essenza del populismo è questo bluff. Nei quattro ultimi referendum c’è sete non solo di verità ma di società maggiorenne, e non stupisce che tanti partiti li abbiano avversati o vissuti passivamente.

È stato difficile, trovare i banchetti per affossare il Porcellum: indicazioni assenti, orari fasulli, reticenze nelle sedi del Pd. Se fosse stato facile, forse avrebbero votato 3-4 milioni. Cosa dicono infatti i referendum? Dicono che sì, i popoli sono impreparati, ma perché qualcuno li vuole così: incavernati, frammentati, dunque malleabili. Dicono che la formazione dell’opinione pubblica – ingrediente fondamentale in democrazia – è stata guastata dal dominio politico sulle tv. I firmatari del referendum giudicano che la politica, come organizzatrice del bene comune, non fa il suo mestiere ma protegge poteri e ricchezze di clan.

Paul Krugman spiega bene come tali poteri si nutrano di dottrine economiche “completamente divorziate dalla realtà”, fondate sulla menzogna: la menzogna secondo cui non c’è crescita se vengono tassati i ricchi, e quella secondo cui la crisi nasce da troppi regolamenti e non, come i fatti dimostrano, da assenza di regole (New York Times, 29-9-11). Le parole di Napolitano, venerdì a Napoli, smascherano questo fallimento: non sono parole politiche, quelle che promettono mini-Stati padani, ma “grida che si levano dai prati”. Così come è grida la difesa di una legge elettorale nella quale “conta soprattutto mantenere buoni rapporti con il partito che ti nomina, non con gli elettori”.

In questo la crisi economica somiglia alla guerra che Samuel Johnson descrive nel ‘700: le sue “maggiori calamità sono la diminuzione dell’amore della verità, e la falsità dettata dall’interesse e incoraggiata dalla credulità”. Questo fanno i moderni pretendenti politici: invece di guidare incoraggiano la credulità, assecondano gli interessi di chi vuol conservare privilegi e ineguaglianze che la deregolamentazione liberista ha creato.

Ma soprattutto di Europa i politici non sanno parlare, in nessun Paese dell’Unione: la evocano sempre come nostro obbligo, mai come nostra opportunità. Denunciano sempre la sua inconsistenza, senza chiarire che se l’Europa è debole è perché i governi la mantengono in questo stato, non affidandole poteri e aggrappandosi al proprio diritto di veto. Loro compito sarebbe di far capire come stiano davvero le cose, di smettere le illusioni di cui nutrono se stessi e gli altri. È perché i politici non sono all’altezza – la politica è nulla, senza pedagogia delle crisi – che i popoli s’immobilizzano. Il populismo lusingandoli li sfrutta, per occultare quel che accade: una crisi che rovina non solo l’economia, ma quel che tiene unite le società e dunque la democrazia. Una diserzione delle classi dirigenti, restie a spiegare come solo in un governo europeo ritroveremo la padronanza (la sovranità) che tutti stiamo perdendo, governati e governanti. Secondo alcuni, il populismo è il marchio del XXI secolo. Orfano di alfabeto, proscritto dal presente: ecco il popolo-Golem che i populisti plasmano. Ora i popoli gli si rivoltano contro. Erano consumatori, anziché cittadini. Costretti d’un colpo a consumare meno, sgomenti, si riscoprono cittadini.

La paura può divorare l’anima, la storia non essendo progressista lo testimonia. Ma può anche aguzzare la vista. Nell’800, una prima previdenza pubblica nacque perché il socialismo incuteva spavento. Bismarck, in Germania, fu il primo a creare lo Stato che protegge i deboli e l’interesse generale, trasformando la paura di perdere il passato in costruzione del futuro. Così la destra storica in Italia. Le prime norme a tutela del lavoro, della vecchiaia, dell’invalidità, degli infortuni vennero dal liberale Giolitti. La destra di oggi non somiglia in niente a quella di ieri. Va detto che l’Italia, pur anomala, non è un caso isolato. È venditrice di illusioni perfino la Germania, sono populisti Sarkozy e Cameron, per non parlare di governi liberticidi o corrotti come Ungheria o Bulgaria. Se oggi i governanti volessero ritentare la via di Bismarck, dovrebbero abituare i popoli a pensare che da soli non ce la faranno. Ogni giorno constatiamo che la statura conta, nella globalizzazione: sei forte se rappresenti non uno staterello (la Padania ad esempio) ma se competi con le grandezze demografiche della Cina, dell’India, del Brasile, degli Usa, della Russia.

Inizialmente il populismo sorge come risposta democratica alle oligarchie. Un laccio stringe il capo al suo popolo, e questo laccio, simbolo della sovranità popolare, comanda su tutto, non tollerando né istituzioni intermedie né autorità sovranazionali. Il populismo semplifica, quando per uscire dalla crisi urge complicare, differenziare i poteri. Si parla spesso di una ricaduta nel Trattato di Westfalia, che consacrò gli Stati sovrani assoluti. Si dimentica che l’Europa nel 1648 era in ascesa, mentre oggi precipita frantumandosi. Due guerre mondiali l’hanno emarginata storicamente, e resuscitare Westfalia è grottesco oltre che pericoloso.

L’Italia è in questo un laboratorio. Il deserto tra leader e popolo non resta vuoto, viene occupato da nuove oligarchie: più mafiose di prima, indifferenti al bene comune. Al posto del legame sociale s’insedia l’identità (etnica, religiosa, sessuale) fondata sul rigetto dell’altro. Le liste di politici gay, apparse in rete giorni fa, è un episodio da Ultimi Giorni dell’Umanità. In una democrazia decente i giornali le ignorano. Se non lo fanno è perché il populismo è l’aria che tutti respiriamo. La crisi diventa occasione se si dice la verità. Bisogna cominciare a dire che in Occidente non riusciremo a crescere come ieri. Secondo gli esperti, ci vorranno 40-50 anni perché i salari dei Paesi emergenti (Cina, India, Brasile, Russia) raggiungano i nostri. Il nostro futuro sarà fatto di meno consumi. Non di crescita zero, purché sia un crescere diverso. Fu inventata per questo l’Europa unita. Perché non aveva più senso, costruire il futuro facendosi governare dalle menzogne sul passato.

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da un punto di vista meno sociale e più politico, è la stessa preoccupazione che emana dal direttore de Il Sole 24 Ore.

Se l’Italia rischia l’effetto balcanizzazione

di Roberto Napoletano

 

Da fine giugno a fine settembre l’indice generale dei titoli italiani è caduto in Borsa del 25,3% contro il 16,1% dei titoli spagnoli. Nello stesso arco di tempo l’indice settoriale dei titoli bancari è calato per l’Italia del 31,7% contro il 19,2% della Spagna. Nel frattempo lo spread tra i titoli di Stato della Repubblica italiana e quelli tedeschi è passato dai 185 ai 377 punti attuali, ma soprattutto ha superato in curva gli spagnoli di una quarantina di punti sotto la spinta determinante di una grave perdita di credibilità della classe politica in generale e di quella di Governo in particolare.

Il declassamento di tre gradini dello Stato italiano, deciso ieri da Moody’s, esprime una valutazione molto severa e conferma la delicatezza della situazione. Se abbiamo chiesto prima al ministro dell’Economia e poi al presidente del Consiglio di farsi un esame di coscienza (siamo in grado di prendere le decisioni che servono?) e di trarne le conseguenze, mettendo nel conto delle proprie decisioni il prezzo che il Paese sta pagando sull’altare del decoro violato delle sue istituzioni, il motivo è solo questo.

Non c’è nulla – proprio nulla – di politico in questa presa di posizione, ma piuttosto piena coscienza di un giudizio dei mercati che diventa giorno dopo giorno più preoccupante. Nessuno (in casa e fuori) può dubitare che le banche italiane siano più solide e produttive di quelle spagnole. Così come nessuno, in buona fede, può sostenere che i nostri fondamentali siano più deboli di quelli iberici: a parte il debito pubblico, non c’è parametro che non sia nettamente favorevole a noi in termini di rapporto deficit/Pil, debito delle famiglie e delle imprese.

Probabilmente non poteva accadere diversamente, ma sarebbe stato meglio che il virus della balcanizzazione della politica non contagiasse anche il mondo delle imprese, quasi in una specie di “mandrakite”, perché quando la casa brucia la prima cosa da fare è spegnere l’incendio, non accendere altri focolai.

Questo giornale ha come azionista di maggioranza la Confindustria, un’associazione che rappresenta le imprese italiane ed esercita il suo ruolo di editore in modo moderno e liberale per la semplice ragione che cambia ogni quattro anni la guida e garantisce con i suoi comportamenti l’autonomia della direzione e della redazione. Per questo possiamo (e vogliamo) dire con chiarezza che anche Confindustria non è immune da pesantezze e lentezze ed è, di certo, auspicabile che acceleri ulteriormente (non è vero che non è stato fatto niente) sui terreni dello snellimento della sua struttura organizzativa (senza rinunciare ai valori fondanti dell’identità e della rappresentatività sul territorio) e di una flessibilità condivisa e innovativa declinata alla voce fatti (di parole ne abbiamo già sentite troppe).

Quello che, però, davvero ci preoccupa è l’esplodere incontrollato di tante, troppe soggettività, che rischia di trovare proprio nel mondo delle imprese il suo terreno più fertile. Diego Della Valle, l’uomo che ha legato il suo nome ad uno dei marchi più prestigiosi e globalizzati di questo Paese, si esprime pubblicamente con i modi e il linguaggio del cittadino comune, non si pone il problema della soluzione del caso Italia (di questo si tratta), sa che non tocca a lui, ma vuole legittimamente mettere a verbale che le cose non vanno e sottolineare che così non si può proseguire. Con la sua uscita si è guadagnato un posto nella memoria storica del Paese, ma rischia di non contribuire a tirarlo fuori dalle secche in cui è precipitato.

Di Sergio Marchionne voglio dire subito che apprezziamo la capacità di rompere schemi convenzionali, ha preso la prima azienda privata italiana (sulla quale nessuno scommetteva più un centesimo), è riuscito a tenerla in vita e a globalizzarla fortemente, e può ora dire con orgoglio che è pronto ad affrontare la sfida decisiva (ancora tutta da giocare) di un suo riposizionamento sul mercato mondiale dell’auto conservando in Italia una delle teste pensanti e una parte rilevante della sua forza produttiva. Il Sole 24 Ore, come ha scritto bene ieri Alberto Orioli, sarà sempre con Marchionne sulla frontiera della modernizzazione in entrata e in uscita del mercato del lavoro non perché lo chiede la Bce, ma perché sa bene che cosa “precarizza” un’intera generazione e che cosa va fatto per ridurre tale piaga non più tollerabile.

Proprio per questo, però, solo ragioni di “mandrakite” possono, ai nostri occhi, giustificare la scelta (in nome di questa bandiera) di uscire da quella stessa Confindustria che ha perseguito prima la strada dei nuovi contratti con gli accordi separati (senza i quali l’intesa di Pomigliano sarebbe stata impossibile) ed è, poi, riuscita a blindarli con la successiva firma della Cgil. Non ci resta che sperare in un chiarimento e nella prevalenza di uno spirito di responsabilità che il momento oggettivamente impone.

Lo stesso spirito che vede, per la prima volta, unite tutte le organizzazioni imprenditoriali (dall’industria al credito, dalle assicurazioni alla cooperazione, commercianti e artigiani) non in un cartello elettorale ma in un lavoro faticoso di servizio, da classe dirigente, che ha prodotto una proposta in cinque punti per la crescita ed è stata messa a disposizione del ceto politico del Paese perché dimostri (con i fatti) di saperne cogliere la cifra autentica. Occorrono subito decisioni trasparenti e cogenti frutto di un lineare – e obbligato – esercizio della responsabilità politica.

Se la minipatrimoniale (Il Sole 24 ore non l’ha prevista nel suo manifesto in nove punti per la crescita pubblicato sabato 16 luglio, lo stesso giorno del varo della prima manovra: quella che rinviava tutto) non convince, se ne faccia a meno, ma si abbiano il coraggio e la dignità di rendersi conto che senza provvedimenti per la crescita mai e poi mai si risolverà (anche) il problema numero uno del maxi-debito pubblico.

La responsabilità politica ha due vie: o fa (e dimostra di esserne capace) o si ritira, alza bandiera bianca. La responsabilità della classe dirigente (tutta) è una sola: avere la forza di sottrarsi al richiamo delle sirene nefaste della balcanizzazione. In gioco è l’Italia, la forza dirompente della crisi globale sta esaurendo anche i minuti di recupero che ci erano stati concessi. Non si venga, poi, a dire che non si era stati avvisati.

 

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