Cominciamo col rinfrescare la memoria, o a dare qualche informazione ai più giovani che soltanto ora ne sentono parlare, iniziando con il succoso articolo di Maurizio Matteuzzi.
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Ricatti e disastri: il palmares del Fondo monetario internazionale
Maurizio Matteuzzi
Sic transit gloria mundi, fu il commento – da brividi per cinismo – di Berlusconi alla notizia del linciaggio di Gheddafi a Sirte. Sic transit gloria mundi (o quantomeno dell’Italia) viene da dire ora dopo la notizia che sarà il Fondo monetario internazionale a vegliare sullo stato dei conti del nostro paese e sul rispetto degli impegni presi dal governo Berlusconi per evitare che la barca (e la banca) affondi.
Fino a 10-15 anni fa, e per i 20-30 anni precedenti, l’Fmi era il bulldog che, per conto dei «paesi centrali», sorvegliava e azzannava al minimo sgarro i paesi dell’ex Terzo mondo – periferici o emergenti, sottosviluppati o «in via di sviluppo» -, dell’est, dell’ovest, del sud. Russia, Thailandia, Corea, Messico, Brasile, Bolivia, Argentina… se li ricordano ancora quei distinti killer sociali in colletto bianco, il francese Michel Camdessus, il tedesco Horst Khöler, l’americana Anne Krueger, nomi oggi dimenticati ma che allora facevano il bello e il cattivo tempo dando i voti (e i crediti) e decidendo i destini di interi paesi. In nome, sempre, delle regole ferree dell’economia (neo-liberista) e dei creditori.
Oggi l’Fmi fa da bulldog ai paesi «sfigati» di quel Primo mondo – l’Italia, la Grecia, il Portogallo – di cui solo pochi anni fa era lo spietato cane da guardia. Sic transit gloria mundi. La gloria passa, ma la memoria resta.
Fmi e Banca mondiale, entrambe creature di Bretton Woods, portano la resposabilità storica di 20 anni almeno di liberismo sfrenato in America latina (o anche 30 se il fischio d’inizio si fa risalire ai Chigago boys cileni del generale Augusto Pinochet e del professor Milton Friedman) che portarono alla disintegrazione di strutture sociali di paesi appena usciti, e devastati, da qualche decennio di dittature militar-fasciste. In America latina quelle degli anni ’80 e ’90 del secolo scorso furono due «decadi perdute», un mix di ortodossia economica e macelleria sociale, come quello che adesso il girotondo – per mano dell’Fmi – riserverà all’Italia.
La ricetta dell’Fmi in America latina era sempre una sola e la stessa: gli «aggiustamenti strutturali», propinati alla metà degli anni ’80 dopo la prima grande crisi del debito estero nell’82 in Messico. Aggiustamenti che prescrivono – impongono – privatizzazioni di tutto ciò che è pubblico, mano libera ai capitali, al mercato delle merci e dei servizi, azzeramento del miserrimo welfare dove c’era (in Argentina e in Cile, per esempio) e della spesa sociale. L’America latina fu, a partire dal golpe cileno del ’73, il laboratorio sperimentale delle ricette del Fondo monetario. Terra di conquista dei capitali «voltures» o «golondrinas», avvoltoi o rondini, comunque speculazione pura benedetta dalle liberalizzazioni e dalle libertà portate – imposte – dall’Fmi e dalla filosofia che c’era dietro. Dopo le nuove crisi del debito degli anni ’90, l’inflazione divenne il tabù intoccabile del Fondo (come lo è adesso della Bce) a cui sacrificare tutto il resto, a cominciare dalla crescita economica e dal welfare sociale. E dove la crescita ci fu, come nel Cile pinochettista e post-pinochettista, fu al prezzo di diseguaglianze sociali scandalose, da cui solo adesso, sotto la spinta del movimento degli studenti, il paese sembra volersi riscattare.
Quegli anni di egemonia del Fondo furono un disastro per l’America latina. La crisi in Brasile del ’98, la dollarizzazione completa in Ecuador del ’99, la «guerra dell’acqua» contro la californiana Bechtel e il presidente Sánchez de Lozada in Bolivia del 2000… Un ciclo che ebbe la sua conclusione «logica» con il collasso, economico, sociale, politico e umano, in Argentina del 2001. Collasso che arrivò dopo il decennio sfrenato del peronista neo-liberista Carlos Menem, quello del parità 1-1 fra il dollaro e il peso, quello del liberismo assoluto. Fu lo stesso Fmi che alla fine diede il colpo di grazia all’Argentina, quando il giocattolo andò in pezzi, negando crediti al suo allievo prediletto, il fantasmagorico ministro dell’economia Domingo Cavallo e provocando il default.
Da allora, nel primo decennio del XXI secolo, l’Fmi è stato praticamente espulso dall’America latina. O di fatto, attraverso leader di sinistra o progressiti – Lula, Chávez, Morales, Correa, i Kirchner … – o di diritto – con il pagamento anticipato del debito e l’uscita del Fondo e delle sue interferenze da Brasile, Venezuela, Argentina … E – sarà un caso o sarà il «socialismo del secolo XXI» -, da allora l’America latina è l’unica area del mondo che è cresciuta a ritmo sostenuto, non solo economicamente ma anche socialmente, e l’unica che ha resistito bene all’impatto della crisi globale del 2008. Adottando politiche alternative, estranee e contrarie a quelle dell’Fmi.
Adesso tocca all’Italia a sperimentare le ricette cucinate dalla signora Lagarde. Viene quasi da rimpiangere che non ci sia più Strauss-Khan. Perché con Berlusconi avrebbero certo trovato altri interessi comuni anziché infernizzare ancor di più la nostra vita già così grama.
Sic transit gloria mundi, fu il commento – da brividi per cinismo – di Berlusconi alla notizia del linciaggio di Gheddafi a Sirte. Sic transit gloria mundi (o quantomeno dell’Italia) viene da dire ora dopo la notizia che sarà il Fondo monetario internazionale a vegliare sullo stato dei conti del nostro paese e sul rispetto degli impegni presi dal governo Berlusconi per evitare che la barca (e la banca) affondi.
Fino a 10-15 anni fa, e per i 20-30 anni precedenti, l’Fmi era il bulldog che, per conto dei «paesi centrali», sorvegliava e azzannava al minimo sgarro i paesi dell’ex Terzo mondo – periferici o emergenti, sottosviluppati o «in via di sviluppo» -, dell’est, dell’ovest, del sud. Russia, Thailandia, Corea, Messico, Brasile, Bolivia, Argentina… se li ricordano ancora quei distinti killer sociali in colletto bianco, il francese Michel Camdessus, il tedesco Horst Khöler, l’americana Anne Krueger, nomi oggi dimenticati ma che allora facevano il bello e il cattivo tempo dando i voti (e i crediti) e decidendo i destini di interi paesi. In nome, sempre, delle regole ferree dell’economia (neo-liberista) e dei creditori.
Oggi l’Fmi fa da bulldog ai paesi «sfigati» di quel Primo mondo – l’Italia, la Grecia, il Portogallo – di cui solo pochi anni fa era lo spietato cane da guardia. Sic transit gloria mundi. La gloria passa, ma la memoria resta.
Fmi e Banca mondiale, entrambe creature di Bretton Woods, portano la resposabilità storica di 20 anni almeno di liberismo sfrenato in America latina (o anche 30 se il fischio d’inizio si fa risalire ai Chigago boys cileni del generale Augusto Pinochet e del professor Milton Friedman) che portarono alla disintegrazione di strutture sociali di paesi appena usciti, e devastati, da qualche decennio di dittature militar-fasciste. In America latina quelle degli anni ’80 e ’90 del secolo scorso furono due «decadi perdute», un mix di ortodossia economica e macelleria sociale, come quello che adesso il girotondo – per mano dell’Fmi – riserverà all’Italia.
La ricetta dell’Fmi in America latina era sempre una sola e la stessa: gli «aggiustamenti strutturali», propinati alla metà degli anni ’80 dopo la prima grande crisi del debito estero nell’82 in Messico. Aggiustamenti che prescrivono – impongono – privatizzazioni di tutto ciò che è pubblico, mano libera ai capitali, al mercato delle merci e dei servizi, azzeramento del miserrimo welfare dove c’era (in Argentina e in Cile, per esempio) e della spesa sociale. L’America latina fu, a partire dal golpe cileno del ’73, il laboratorio sperimentale delle ricette del Fondo monetario. Terra di conquista dei capitali «voltures» o «golondrinas», avvoltoi o rondini, comunque speculazione pura benedetta dalle liberalizzazioni e dalle libertà portate – imposte – dall’Fmi e dalla filosofia che c’era dietro. Dopo le nuove crisi del debito degli anni ’90, l’inflazione divenne il tabù intoccabile del Fondo (come lo è adesso della Bce) a cui sacrificare tutto il resto, a cominciare dalla crescita economica e dal welfare sociale. E dove la crescita ci fu, come nel Cile pinochettista e post-pinochettista, fu al prezzo di diseguaglianze sociali scandalose, da cui solo adesso, sotto la spinta del movimento degli studenti, il paese sembra volersi riscattare.
Quegli anni di egemonia del Fondo furono un disastro per l’America latina. La crisi in Brasile del ’98, la dollarizzazione completa in Ecuador del ’99, la «guerra dell’acqua» contro la californiana Bechtel e il presidente Sánchez de Lozada in Bolivia del 2000… Un ciclo che ebbe la sua conclusione «logica» con il collasso, economico, sociale, politico e umano, in Argentina del 2001. Collasso che arrivò dopo il decennio sfrenato del peronista neo-liberista Carlos Menem, quello del parità 1-1 fra il dollaro e il peso, quello del liberismo assoluto. Fu lo stesso Fmi che alla fine diede il colpo di grazia all’Argentina, quando il giocattolo andò in pezzi, negando crediti al suo allievo prediletto, il fantasmagorico ministro dell’economia Domingo Cavallo e provocando il default.
Da allora, nel primo decennio del XXI secolo, l’Fmi è stato praticamente espulso dall’America latina. O di fatto, attraverso leader di sinistra o progressiti – Lula, Chávez, Morales, Correa, i Kirchner … – o di diritto – con il pagamento anticipato del debito e l’uscita del Fondo e delle sue interferenze da Brasile, Venezuela, Argentina … E – sarà un caso o sarà il «socialismo del secolo XXI» -, da allora l’America latina è l’unica area del mondo che è cresciuta a ritmo sostenuto, non solo economicamente ma anche socialmente, e l’unica che ha resistito bene all’impatto della crisi globale del 2008. Adottando politiche alternative, estranee e contrarie a quelle dell’Fmi.
Adesso tocca all’Italia a sperimentare le ricette cucinate dalla signora Lagarde. Viene quasi da rimpiangere che non ci sia più Strauss-Khan. Perché con Berlusconi avrebbero certo trovato altri interessi comuni anziché infernizzare ancor di più la nostra vita già così grama.
da “il manifesto” del 5 novembre 2011
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