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Gli ultimi giorni di Berlusconi

Se ne sta andando ma non se ne va. Si favoleggia ormai di squadriglie di “caccitori di teste” di Confindustria che si aggirano per il centro di Roma per intercettare parlamentari del Pdl e offrire loro un confortevole futuro, certo meno visibile e soprattutto meno influente sulle sorti del paese e del sistema.

Se ne sta andando e il futuro prossimo sembra ancora più nero, per noi che lavoriamo, studiamo, ci barcameniamo con la pensione, cerchiamo lavoro. Il “protettorato” del Fondo monetario internazionale è qualcosa di più di una minaccia. E’ la certezza di una governance assolutamente indifferente alle conseguenze delle proprie imposizioni sulla “gente” perché sottratta ad ogni influenza elettorale.

Avremo decisioni prese nel cielo della finanza e calate come una scure sulle nostre vite da un personale irrangiiungibile, non influenzabile dal basso, che non risponde a nessun criterio di verifica democratica. Neppure quello, ampiamente manipolabile dal marketing (Berlusconi non è passato invano), di elezioni ogni tot anni.

Se ne sta andando e proprio il suo “resistere” fa uscir fuori rancori borghesi fino a pochi mesi insospettabili, ostilità represse col servilismo. Al punto che non si sa davvero dire chi sia peggiore. Se il Tappo di Arcore o i suoi ultratardivi becchini mediatici conto terzi. Gli stessi che ci ricordano amorevolmente che “abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi”. Noi?

 

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Da Il Sole 24 Ore

«Abbiamo rifiutato i fondi Fmi»

dal nostro inviato Gerardo Pelosi

 

CANNES – Un altro film. Dove non c’è spazio per allarmismo o preoccupazioni. Dove tutto fila liscio in una visione edulcorata e rassicurante della realtà. In questo film il Fondo monetario non è l’istituzione finanziaria che conosciamo con le sue regole ma una società di «certificazione» che non deve «monitorare» ma solo prendere atto dei progressi delle riforme, gli attacchi ai titoli italiani sono «una moda passeggera», la crisi è un’invenzione dei giornali perché i ristoranti sono pieni e chi si è impoverito lo è solo per effetto del cambio «irragionevole» lira/euro.
Un film dove il Governo ha una maggioranza solida in Parlamento che approverà in poco tempo tutte le riforme chieste dall’Europa, dove l’Italia può permettersi di rifiutare gli aiuti dell’Europa e del Fondo monetario (però mai offerti, secondo il direttore Christine Lagarde) e non vi è alcun «problema di credibilità» del Governo ma semmai «un antico pregiudizio contro tutti gli italiani».
Regista di questo film, neanche a dirlo, il premier Silvio Berlusconi, reduce, nella realtà, da una notte di trattative serrate concluse con la resa italiana alle pressioni del presidente americano Barack Obama, del presidente francese Sarkozy e del cancelliere tedesco Merkel per accettare il monitoraggio del Fondo monetario. Una resa concordata tuttavia con il Quirinale.
Nella conferenza stampa finale il presidente del Consiglio minimizza, però, la richiesta al Fondo monetario di verificare l’attuazione delle misure precisando che il suo ruolo sarà soltanto quello di «certificare l’avanzamento delle nostre riforme», non di controllare i conti pubblici. Un ruolo paragonabile a quello delle società di certificazione dei bilanci. Quindi, nessun commissariamento, nessuna «limitazione della sovranità nazionale».
Anzi, una richiesta italiana, quella al Fondo che dovrà servire, secondo Berlusconi, a responsabilizzare l’opposizione perché «votare contro le misure non significa votare contro il Governo ma votare contro l’Italia». Misure che andranno al Senato con la fiducia la settimana prossima e potranno essere approvate entro il 15 novembre. La riforma del mercato del lavoro non entrerà, invece, nell’emendamento perché «riteniamo giusto discuterne prima con le parti sociali».
Anche il ministro dell’Economia Giulio Tremonti viene in soccorso a Berlusconi precisando che «certificare vuol dire verificare il grado di attuazione delle riforme» mentre il controllo dei conti pubblici è riservato ad altre competenze cioè alla Commissione europea e all’Eurogruppo. Berlusconi sparge ottimismo, ricorda che l’Italia ha i fondamentali dell’economia forti, è il secondo Paese europeo per esportazioni, ha un sistema bancario solido, un risparmio privato molto forte con la gran parte degli italiani che ha casa di proprietà, che il debito pubblico è metà di quello francese ed è per la metà nelle mani degli italiani.
Per questi motivi «non siamo preoccupati», aggiunge. E smentisce che vi sia una forte crisi perché «l’Italia è un Paese benestante, i consumi non sono diminuiti, i ristoranti sono pieni». Il problema semmai riguarda l’introduzione dell’euro che «ha impoverito una fascia importante della popolazione italiana». Tutto colpa del cambio lira-euro al livello di 1.936 lire «da noi sempre ritenuto incongruo e penalizzante per l’Italia».
Quanto ai movimenti speculativi contro i titoli del debito che hanno colpito l’Italia dopo la Grecia, Berlusconi parla di «una moda passeggera il fatto che i mercati si avventano sui titoli del debito». Ma l’Italia onorerà comunque il suo debito, e si impegnerà per ridurlo. E, soprattutto, l’Italia non ha bisogno né di risorse del Fondo monetario internazionale né del Fondo europeo salva-Stati. Ma la smentita dal Fondo monetario è netta: nessuna offerta all’Italia.
Quanto poi al problema della credibilità, tema sollevato dallo stesso presidente francese Sarkozy l’altro ieri, il premier parla di «un antico pregiudizio che c’è nei confronti dell’Italia, per certi comportamenti del passato» come emerso anche nella vicenda Bini Smaghi alla Bce (i nostri amici francesi ci dicono les italiens, toujours les italiens)».
E su un eventuale cambio in corsa a Palazzo Chigi (sia pure con il sottosegretario Gianni Letta) Berlusconi esclude un Governo di larghe intese e confessa che a Cannes «mi sono guardato intorno e ho pensato che non vedo personalità in Italia in grado di rappresentare degnamente il nostro Paese, se non ci fossi io».

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da La Stampa

Il Pdl si sgretola. Il governo è senza numeri

UGO MAGRI

Sempre ieri mattina, sul «Corsera» è apparsa la lettera di altri sei deputati (Antonione, Bertolini, Pittella, Stracquadanio, Gava e Destro) che chiedono a Berlusconi di consentire un governo con una più larga base parlamentare, in pratica di farsi da parte dal momento che l’ostacolo è lui. È finita qui? Non ancora. Vuole decidere il da farsi Tortoli, idem Pippo Gianni. Risulta in bilico Mazzuca. Il repubblicano Nucara lo è ancora di più. La componente ex-Fli (Urso, Ronchi più altri due) si sta domandando che resta a fare sulla nave che affonda. Raccontano a Montecitorio del disagio di Pionati. E l’elenco potrebbe continuare poiché Scajola e i suoi seguaci per il momento stanno alla finestra in attesa degli sviluppi, ma potrebbero dare il colpo di grazia.

Davanti alla frana, che sembra inarrestabile, i «berluscones» non restano con le mani in mano. Stanno tentando operazioni di recupero anzitutto con i sei firmatari della lettera. Il premier (che si trova a Cannes per cose ben più importanti, ma si tiene aggiornato tramite Bonaiuti) è ancora sicuro di poter esercitare una moral suasion specie con Stracquadanio, nel passato un ultrà dei più scatenati e con qualche vena di protagonismo. Come al solito, si considera un fuoriclasse. Verità è invece che il pasticcio l’ha combinato lui, promuovendo nel governo Galati in Calabria, col risultato di far scappare la D’Ippolito e di mandare in bestia Pittella. Oppure frustrando le legittime ambizioni della Bertolini, una fedelissima la quale si è vista nominare ministro la concorrente bolognese Bernini (che da titolare delle Politiche europee non ha certo brillato per le presenze a Bruxelles).

Si può parlare di effetto boomerang: cedendo in passato al ricatto degli scontenti, il Cavaliere ha generato «malpancisti» a grappoli. La fortuna del premier, invece, è che al momento gli regge la trincea del Senato, dove sono in corso peraltro grandi manovre. Oltre al solito Pisanu, sono lì lì per andarsene Dini, Vizzini e qualcun altro. Se basteranno a rovesciare il banco, lo scopriremo il 15 novembre, quando si voterà la fiducia alla legge di stabilità, comprensiva del maxi-emendamento con le misure «europee». Dovesse farcela Berlusconi, la palla passerebbe alla Camera per una conta ancora più incerta. Ma forse non ci sarà bisogno di attendere fine mese, perché martedì prossimo si voterà sul Rendiconto dello Stato.

I vertici Pdl sanno perfettamente che lì potrebbe scattare l’agguato, e non si faranno cogliere alla sprovvista. L’argomento che usano per convincere i dissenzienti (sul piano politico, s’intende) è così riassunto dal capogruppo Cicchitto: «Chi dovesse dissociarsi finirebbe per provocare, senza rendersi conto, le elezioni anticipate». Nessun governo tecnico nascerebbe, e per giunta i deputati perderebbero il diritto alla pensione (che scatta tra un anno)…

Qualche conforto il Cavaliere l’ha ricevuto dal Quirinale. Bossi è salito sul Colle per escludere ribaltoni. E Alfano, per la prima volta capo delegazione Pdl, ha raccontato per telefono al premier che Napolitano è stato di una correttezza esemplare. A un certo punto, svela un testimone, il Capo dello Stato se n’è uscito con la frase seguente: «Se ce la fate, andate pure avanti; ma se non ce la doveste fare, le elezioni mica sarebbero una catastrofe». Una semplice battuta. Musica, tuttavia, per le orecchie dei berlusconiani smarriti.

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da Repubblica

Letta, Alfano e Verdini uniti
“Silvio, la maggioranza non c’è più”

Drammatico vertice a Palazzo Grazioli dopo il ritorno in Italia di Berlusconi reduce dal G20. “Meglio fare subito un passo indietro”. Ma il premier resiste. Martedì il d-day. Spunta un nuovo esecutivo

dal nostro inviato FRANCESCO BEI

 

CANNES – Alle otto di sera, nel salotto di palazzo Grazioli, la bandiera bianca viene alzata dall’ultimo uomo da cui il Cavaliere si aspetterebbe il colpo: Gianni Letta. “Silvio, i numeri sono questi, forse è arrivato il momento di farsene una ragione”. Berlusconi è stanco, fissa i suoi interlocutori. Ha davanti a sé Denis Verdini, Letta, Angelino Alfano e Paolo Bonaiuti. Li guarda senza davvero capire quello che gli stanno dicendo. È finita. Ha passato la notte precedente a trattare con Obama e Sarkozy, ora gli stanno dicendo che la fine della sua stagione politica è stata decisa da Stracquadanio e Bertolini. Ma è così.

Denis Verdini, l’uomo che ha garantito nell’ombra tutte le trattative con i parlamentari, stavolta ammette che i numeri non ci sono più. Se si votasse domani sul rendiconto dello Stato i numeri si fermerebbero a 306 deputati. Ma il coordinatore stavolta è anche più pessimista: oltre a quelli che sono già andati via c’è anche un’altra area di dissenso, un’area grigia di una quindicina di deputati pronti a staccarsi dalla maggioranza, portando così la conta finale a 300. Sarebbe la fine. Sono ore drammatiche, il premier incassa questi numeri ma non ci sta. Si ribella, alza la voce. E prova a resistere. “Non ci credo. Li chiamerò uno ad uno personalmente. È tutta gente mia, mi devono guardare negli occhi e dirmi che mi vogliono tradire. Io lo so che sono arrabbiati, è gente frustrata, si rompono le palle a pigiare tutti i giorni un pulsante, ma non hanno un disegno politico. Ci parlerò”. Verdini e Alfano non condividono l’ottimismo del Cavaliere e stavolta non hanno paura a dirlo: “Ci abbiamo già parlato noi, è stato inutile”.

Berlusconi li ascolta, a volte sospira e sembra rendersi conto della gravità della situazione. Per la prima volta le sue certezze traballano, inizia a prendere in considerazione l’impensabile. “Io potrei anche lasciare il posto a qualcun altro, come dite voi. Se vedessi un nuovo governo potrei fare un passo indietro, il problema è che non lo vedo”. E tuttavia i suoi uomini insistono. La pressione per allargare la maggioranza all’Udc è sempre più forte. Nel governo, nella componente dei forzisti, ormai è un coro. E non resta molto tempo, le lancette corrono veloci. Martedì si voterà il Rendiconto dello Stato, poi probabilmente partirà una mozione di sfiducia. A quel punto sarà troppo tardi. Così, nella lunga notte di palazzo Grazioli, viene elaborata una strategia per affrontare i prossimi passaggi. Prendendo in considerazione i numeri ma anche l’insistenza del Cavaliere nel provare a resistere. Viene studiato un possibile atterraggio morbido. Da oggi a lunedì Berlusconi farà le sue telefonate ai ribelli e le sue convocazioni. Prima del voto alla Camera verrà fatto un ultimo controllo, un check nome per nome, tracciando il bilancio definitivo. Sarà in quel momento che verrà presa la decisione finale perché, se i numeri saranno ancora negativi, al Cavaliere hanno consigliato di andarsi a dimettere senza passare per un voto di sfiducia.

“Possiamo anche andare allo scontro – gli hanno spiegato Alfano e Letta – ma se perdiamo, e stavolta è probabile che perdiamo, la palla passa agli altri. A quel punto possiamo solo subire”. Al contrario, se Berlusconi si decidesse a pilotare il passaggio con delle dimissioni volontarie, continuerebbe a essere il regista dell’operazione. Spianando così la strada a un nuovo governo, a maggioranza Pdl, a cui il Terzo polo non potrebbe dire di no. Un governo guidato da Gianni Letta o Mario Monti. A quel punto la vera incognita sarebbe la Lega. Anche di questo si è discusso a via del Plebiscito, ipotizzando che Roberto Maroni possa restare al Viminale. La strada del voto anticipato, il mantra ripetuto fino a ieri da Berlusconi e dallo stato maggiore del Pdl fin dentro lo studio del capo dello Stato, non viene nemmeno preso in considerazione. Serve alla propaganda, ma i sondaggi sono impietosi. Per il Pdl andare alle urne in questa situazione sarebbe un naufragio rovinoso.

Al contrario, nel caso il Cavaliere accettasse di favorire il passaggio a un governo diverso, per il centrodestra si aprirebbero opportunità vantaggiose. “Con Gianni Letta a palazzo Chigi – hanno spiegato al premier – allarghiamo l’alleanza a Casini e possiamo decidere noi se andare al voto tra sei mesi o tra un anno. Quando ci conviene di più”. Ma anche se Napolitano incaricasse Mario Monti per un governo di “salvezza nazionale”, con una dura agenda di sacrifici – quella tracciata ieri a Cannes con l’Ue e il Fondo monetario – per il Pdl e Berlusconi ci sarebbero vantaggi. “Avremmo tutto il tempo di riorganizzarci e preparare la candidatura di Alfano nel 2013”. Inoltre si alleggerirebbe la responsabilità per il micidiali tagli che dovranno essere approvati. E resterebbe solo Mario Monti come artefice della purga.

Altre strade, nonostante Berlusconi resista, non ci sono. “Oggi siamo a 306, ma potremmo finire a 300”, gli hanno ripetuto in coro. L’unica incognita a questo punto resta la data dell’attacco che sarà scelta dall’opposizione. C’è chi pensa martedì, chi punta alla settimana successiva. Tra il Pd e l’Udc su questo punto non c’è identità di vedute. Bersani vorrebbe assestare subito il colpo, sul Rendiconto dello Stato (lasciando che ad approvarlo sia un nuovo governo). Al contrario Pier Ferdinando Casini ormai è convinto che la partita sia già vinta. E tanto vale far passare il Rendiconto con un’astensione, portando l’assalto finale qualche giorno più tardi. Sempre che Berlusconi, come lo imploravano ieri i suoi, non decida di anticiparli e gettare la spugna da solo.

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