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Finmeccanica, il complesso militare-industriale all’italiana

Il crollo di un regime in questo caso – come spesso accade – coincide lo scoperchiarsi di un termitaio in cui omuncoli infinitesimi avevano giocato una partita da “potenti” non avendone né la statura né la lungimiranza.

Fa sempre un po’ senso vedere come interessi notevoli, strategici come gli armamenti a tecnologia avanzata o l’avionica, siano stati maneggiati e quasi distrutti da gente cui nessuno avrebbe affidato una discarica. Nello stupore, ammettiamolo, c’è un residuo di rispetto proletario per quel che – nell’immaginario – dovrebbero essere “i padroni”: seri, cattivi, famelici ma attenti a misurare anche i propri passi in proporzione all’obiettivo.

Non è così. In Italia certamente non è così. Forse in Germania – seguendo l’esempio di Massimo Mucchetti – è altrimenti. Forse negli Stati Uniti (alzi la mano chi conosce a memoria un nome o un volto tra gli amministratori delegati del “complesso militare-industriale” Usa). Forse in Cina, sotto tutt’altro regime etico-politico.

E giustamente un problema del genere – armi e competenze strategiche – non si risolve ideologicamente (“privatizzazioni”). Un po’ perché un “interesse nazionale” (nella misura in cui ancora esiste un’entità definibile come “nazione” all’interno dell’eurozona) va tutelato chiunque diriga il paese. Molto perché – grazie ancora a Mucchetti – i privati delle nostre lande non sono per nulla esenti dalle tare che affliggono molti funzionari o manager di nomina politica. A rigor di termini, ricordiamo, la corruzione di funzionari pubblici è di per sé una “privatizzazione” di un interesse o bene comune; ossia il piegare una decisione che dovrebbe riguardare l’interesse di tutti a fini individuali.

La vicenda di Finmeccanica metterà immediatamente alla prova Mario Monti, in quanto responsabile del ministero del Tesoro (ora dentro quello più complessivo dell’Economia), quindi proprietario del pacchetto azionario di controllo della società. Altro che “equità”…

 

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Le scelte inevitabili

di Massimo Mucchetti

L’inchiesta giudiziaria su Finmeccanica, epicentro di rapporti obliqui con politici e giornalisti, ha aperto la crisi al vertice del gruppo disegnato dal governo Berlusconi. Ieri si è scatenata la bufera su Marina Grossi. Si dimette dalla Selex, una delle società più delicate e discusse? No, resiste. Va via. Resta. L’ingegner Grossi è moglie del presidente Pier Francesco Guarguaglini che, a sua volta, non aveva partecipato al consiglio del 15 novembre, chiamato ad approvare conti in profondo rosso, causa forti svalutazioni delle commesse Alenia per la Boeing e Ansaldo Breda per le ferrovie danesi.

Scandali e perdite, dunque. E scontri duri tra Guarguaglini, che difende un passato non privo di alcune grandezze, e Giuseppe Orsi che, supportato dal direttore generale Alessandro Pansa, già responsabile finanziario della holding, ha fatto le pulizie.

Per il ministro dell’Economia ad interim, il premier Mario Monti, si prospetta un impegno supplementare. Il ministero, infatti, è il socio di controllo di Finmeccanica. Per legge. E ora quella che viene a galla, al di là delle colpe dei singoli, è proprio l’incapacità del ministero dell’Economia, gestione Tremonti, di fare il suo mestiere, condizionato com’era dall’alto, di lato e dal basso da gran parte del sistema politico.

Che cosa ci si aspetta, dunque, dal governo dei competenti? Mario Monti ha problemi enormi e numerosi. Potrà delegare a un viceministro. Ma dovrà pur dare un indirizzo e tutti guarderanno comunque a lui, l’ex commissario Ue alla Concorrenza. Per quanto possa suonare esagerato il richiamo ai fondi neri dell’Eni e alla maxi tangente Enimont, l’inchiesta su Finmeccanica si va allargando a macchia d’olio. Il precedente governo non ha voluto o potuto andare a fondo, con un premier che tarantineggiava. E tempo di rimediare, certo senza anticipare le sentenze della magistratura ma anche senza aver paura di aprire i cassetti e di tirarne le conseguenze.

Il governo di Giuliano Amato lo fece, e assegnò i pieni poteri a un giovane manager dell’Eni, Franco Bernabé, che, in quanto direttore della pianificazione e controllo, conosceva il gruppo, ma, non avendo avuto cariche operative, si era tenuto lontano dai maneggi. In breve, l’Eni riconquistò la fiducia dei mercati, pur rimanendo lo Stato socio di maggioranza relativa. Saprà il governo Monti non essere da meno?

In questi frangenti, l’azionista che non abdica al ruolo si fa un’idea di chi ha fatto che cosa e in quali condizioni ha agito. Probabilmente scoprirà che, come all’Eni di vent’anni fa, non tutti i manager sono uguali e deciderà a chi dare o rinnovare la propria fiducia. Oppure commissarierà Finmeccanica. In ogni caso, avrà in mente il bene dell’azienda e del Paese.

Finmeccanica è la seconda impresa manifatturiera italiana dopo la Fiat, ma investe in ricerca e sviluppo tanto quanto Torino. In un Paese povero di grandi imprese e quasi privo di grandi imprese tecnologiche, la salvaguardia di Finmeccanica corrisponde all’interesse nazionale. Gli inviti dell’Europa a privatizzare e lo sdegno per quanto emerge dalle inchieste sembrano consigliare una rapida privatizzazione: lontano dalla politica, si pensa, torna l’onestà. Purtroppo, le cronache ci dicono che la proprietà privata non assicura l’onestà più di quella pubblica. Del resto, l’onestà, pur non rinunciabile, di per sé non assicura l’interesse nazionale. Nel caso specifico, con la cessione del suo 30% di Finmeccanica, il Tesoro incasserebbe mezzo miliardo e aprirebbe la strada alla rivendita a pezzi delle singole aziende del gruppo ai concorrenti esteri o a fondi di private equity che le rivenderebbero più tardi come sta per avvenire con Avio, per cui c’è un’offerta della francese Safrane e zero dall’Italia privata.

Nell’epoca in cui è in crisi il modello sociale fondato sulla finanza indifferente ai contenuti dell’industria, sarebbe un tragico errore affrontare la crisi di Finmeccanica con la logica breve di una merchant bank e non con l’ambizione di un Paese che pensa il futuro. Già la dismissione delle due Ansaldo, annunciata da Orsi, sarà il banco di prova per un governo azionista che, nel rispetto delle regole, voglia fare quello che fanno Sarkozy e la Merkel con Sncf-Alstom e con Deutsche Bahn-Siemens.

dal Corriere della sera

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Soldi ai politici, è guerra
Francesco Paternò

La guerra dentro Finmeccanica, l’azienda di stato del settore difesa cui fanno capo decine di controllate, è stata portata fuori. Alcuni dei protagonisti sotto inchiesta stanno raccontando ai magistrati spezzoni di loro verità, di nomine, di appalti e di assunzioni pilotate, soprattutto di soldi versati a partiti e politici. L’Udc di Pierferdinando Casini, in mezzo alle smentite, sarebbe stato il principale collettore. Ma questo è solo l’inizio.

La vicenda è infatti uno scandalo al sole dagli sviluppi imprevedibili, di cui il governo Monti dovrà occuparsi al più presto. Forse fino all’azzeramento del consiglio di amministrazione e alla nomina di un commissario, passaggio delicato quando di mezzo c’è un’azienda quotata di tali dimensioni.
La borsa continua a non gradire i rossi di bilanci e le pesanti incertezze sulla governance. Il titolo è crollato del 6,6%, in una giornata nera per le borse europee e per Milano (-4,7%). Ma nelle carte dei magistrati di Napoli e di Roma, c’è materiale perché la storia diventi nerissima. Lorenzo Borgogni, direttore centrale delle relazioni esterne, braccio destro del presidente Pier Francesco Guargaglini, entrambi indagati, sarebbe al centro di un sistema di tangenti e favori. «Vi è una conversazione telefonica intercettata – scrive il pubblico ministero Paolo Ielo nella richiesta di arresto per la vicenda degli appalti Enav – dalla quale si evince con solare evidenza che il ruolo di Lorenzo Borgogni, dentro Finmeccanica, fosse anche quello di occuparsi di contribuzioni illecite al sistema dei partiti».
In altre carte, l’altro indagato Lorenzo Cola, «consulente globale» di Finmeccanica, avrebbe messo nero su bianco ai magistrati di aver consegnato «agli inizi del 2008» 300 mila euro in contanti «all’on. Bonferroni», membro del consiglio di amministrazione della holding, spiegando che «per noi del gruppo Bonferroni era espressione dell’Udc», «un riferimento politico preciso». Sempre secondo Cola, «Guarguaglini autorizzava tali operazioni, ovviamente non caso per caso. Borgogni aveva un’investitura ad effettuare questo tipo di operazioni per conto del gruppo da parte di Guarguaglini. Di esse occasionalmente egli aveva specifica notizia».
Borgogni si è autosospeso domenica, ma non cambierà nulla, dallo stipendio ai poteri: si sta da parte solo quando si è sospesi o costretti alle dimissioni, e non è il suo caso. In settimana, i magistrati lo interrogheranno per la quarta volta, ma l’impressione è che abbia già fatto sapere quel che serve per far tremare diversi partiti, dall’Udc in primis, alla Lega al Pdl, e politici come Gianni Letta. E dunque per sperare in contromisure, come nelle guerre elettroniche.
Sopra di lui c’è Guargaglini, con cui è sbarcato insieme a Finmeccanica nel 2003, una coppia fin qui indivisibile. Il presidente e allora anche amministratore delegato era stato nominato dal ministro del tesoro Giulio Tremonti, sponsorizzato dalla An di Gianfranco Fini e Altero Matteoli, benedetto da Letta. Nessuna traccia originaria di Udc nella sua nomina, e chissà che le accuse di Cola siano un altro segnale.
Da maggio scorso, Guarguaglini è rimasto solo presidente (grazie alle barricate erette da Letta contro Tremonti), indagato per frode, in rotta con l’amministratore delegato Giuseppe Orsi, che è riuscito a toglierli solo una piccola parte di poteri. Orsi è salito in cima in quota Lega e oggi, rispetto al governo, paradossalmente si troverebbe all’opposizione. Guarguaglini è più debole rispetto al maggio scorso, non solo per colpa dei magistrati ma perché ha perso Letta a palazzo Chigi. Il problema è che insieme a Borgogni, hanno arsenali infiniti per difendersi. E napalm per fare piazza pulita, se per caso arrivassero i carabinieri o qualcuno all’esterno non avesse capito bene i messaggi resi ai magistrati.
Orsi ha convocato un consiglio di amministrazione straordinario di Finmeccanica entro una settimana, in cui spera di far dimettere il suo presidente. Ma un segno di quel che significa l’asse Guarguaglini-Borgogni si è visto alla Selex, controllata Finmeccanica di cui la moglie del presidente (indagata), Marina Grossi, è amministratore delegato. La manager ieri non si è dimessa, nonostante le pressioni di Orsi: nel cda, la vecchia maggioranza dei consiglieri ha votato a suo favore. Per Borgogni, sarebbe stata lei ad affidare un ruolo direttivo nella società a Cola, riferisce nelle dichiarazioni spontanee alla procura di Roma che lo ha indagato nell’inchiesta sugli appalti Enav. La storia continua.

da “il manifesto”
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