Stavolta ha messo sotto esame le liberalizzazioni su cui il governo ha inciampato. Rilevando che comunque avrebbero riguardato i “pesci piccoli” nel branco di giganti che godono di un “mercato protetto”. Molto pertinente, diciamo, per decodificare le mosse di questo “governo delle lobby”.
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Perché taxi e notai sì e nulla sui big dell’energia?
Il governo vorrebbe I liberalizzare taxi, farmacie e professioni. Nel frattempo, si parla solo genericamente dei servizi pubblici locali e della remunerazione del capitale privato che vi dovrebbe essere investito, si tace sulle emittenti tv, si trascurano i nuovi monopoli del web, ci si piega davanti ai colossi dell’energia. Politici e tecnici si scontrano su liberalizzazioni da poche centinaia di milioni e beatamente sorvolano dove i miliardi si muovono a decine.
iberalizzazioni, tanto rumore per nulla? Per nulla no, ma certo non per molto. Il governo vorrebbe liberalizzare taxi, farmacie e, dopo, le professioni. Il Parlamento l’ha fermato, ma Mario Monti promette di riprovarci. In un Paese già sommerso da partite Iva, commercialisti, avvocati e giornalisti, l’accesso alle professioni non sembra davvero un problema. Del resto, cancellare i minimi tariffari e trasformare uno studio legale in Spa difficilmente faranno impennare il prodotto interno lordo. Felici di sbagliarci, attendiamo analisi e previsioni di fonte governativa sui benefici e i beneficati.
Nel frattempo, notiamo che si parla solo genericamente dei servizi pubblici locali e della remunerazione del capitale privato che vi dovrebbe essere investito, si tace sulle televisioni, si trascurano i nuovi monopoli del web, ci si piega davanti ai colossi dell’energia. Politici e tecnici si scontrano su liberalizzazioni da poche centinaia di milioni e beatamente sorvolano dove i miliardi si muovono a decine. D’altra parte, l’attuale cultura della concorrenza — una cultura, non un Vangelo — è stata elaborata al tempo delle bolle finanziarie e degli squilibri globali, scambiati per motori di progresso universale.
Per capirci, due esempi nostrani e pesanti. Primo, le pensioni. In Italia vige un singolare duopolio. All’Inps e alle casse private, a contribuzione obbligatoria, viene attribuito in esclusiva il primo pilastro previdenziale. Ai fondi pensione, di tipo assicurativo e a contribuzione volontaria, è riservato il secondo pilastro. Dopo la manovra, la pensione primaria corrisponderà ai contributi versati da ciascuno nel corso della vita lavorativa, rivalutati in base al Pil nominale che include l’inflazione. Verrà erogata ripartendo le entrate contributive dell’anno, in base al principio della solidarietà intergenerazionale. L’assegno integrativo, invece, si calcola con logica assicurativa in base ai risultati dell’investimento dei capitali versati via via da ciascuno nei 559 fondi, variamente connessi a sindacati, assicurazioni e banche. Il primo pilastro scommette sul Paese reale, il secondo sulla finanza globale.
Inps e fondi, due orti coltivati nella stessa piana, zero concorrenza tra loro. Nessun operatore privato ha mai presentato un vero progetto per aggiudicarsi il primo pilastro in concorrenza con l’Inps e le casse, forse perché solo lo Stato può fare da garante tra le generazioni. In compenso, l’Inps è sostanzialmente esclusa dalla previdenza integrativa.
Di questi tempi, il flusso teorico massimo della previdenza integrativa (Tfr più il 3%, parte a carico dell’azienda e del lavoratore) è di 20-25 miliardi l’anno. La previdenza integrativa ne intercetta 6. Ci si domanda che cosa si può fare del resto. La manovra istituisce una commissione di studio sulle aliquote contributive. In attesa degli esiti, ci si chiede come mai il premier Mario Monti e il ministro del Welfare, Elsa Fornero, non prevedano la facoltà — facoltà, non obbligo —di destinare all’Inps e alle casse, se resisteranno, la contribuzione integrativa oggi riservata ai fondi pensione negoziali o assicurativi. E per essere chiari, questa dovrebbe andare non a fondi integrativi pubblici, ma proprio al primo pilastro. Temono forse che il primo pilastro sia meglio del secondo? Sarebbe un timore fondato ove si confrontino la rivalutazione delle pensioni contributive degli ultimi 15 anni, il 4% medio annuo, e il rendimento dei fondi pensione, parecchio meno. Ma se così è, perché deve esserci la number portability per i cellulari e non anche la pension portability?
Sono domande tanto più pertinenti quanto più all’istituenda commissione venisse in mente, come si sente dire, di diminuire le aliquote contributive del lavoro dipendente dal 33% al 27%. Con il metodo contributivo, la pensione diventa una forma di salario differito. Ridurre i contributi, senza lasciare la somma ridotta al lavoratore, sarebbe come tagliare i salari e la cosa andrebbe raccontata come tale. E magari giustificata, se si hanno gli argomenti. Ma anche lasciando in mano ai dipendenti il 5% in questione, ne soffrirebbe la pensione primaria già asciugata dal contributivo, cosa peraltro inevitabile dati i corsi demografici. Susanna Camusso, nell’intervista al Corriere, teme che il governo faccia il gioco delle assicurazioni. La ministra Fornero potrà smentire la leader Cgil, e magari sfidarla assieme ai capi di Cisl, Uil e Ugl, attivando la concorrenza tra i due pilastri. Vedremo allora se e quali sindacati saranno pronti a dare, poniamo, ai metalmeccanici la libertà di scegliere tra il fondo Cometa e l’aumento dei versamenti al primo pilastro.
Secondo esempio, la bolletta della luce. Il settore elettrico è il più aperto alla concorrenza. La sua Authority è giudicata la migliore. Da vent’anni, i governi hanno deposto il Piano energetico nazionale. Puzzava di Gosplan. Epperò hanno inondato di incentivi il settore come mai era avvenuto: prima il Cip 6 ha riempito l’Italia di cicli combinati a gas (efficienti, costosi ma pagati a piè di lista), e poi i sussidi alle rinnovabili (tecnologie inefficienti, in buona parte già superate, ma sempre pagate a piè di lista). Il Cip 6 ci è costato, nel silenzio della Commissione Ue, 4o miliardi di euro, quasi tutti andati ormai. Le rinnovabili ce ne costeranno nel ventennio 2005-2034 circa 170. Quanti notariati bisogna liberalizzare per tamponare questi piacermi? L’Authority corregge le virgole, e resta sempre esposta alle pressioni dei regolati come si vede dai benefici miliardari per le centrali impegnate a fini di sicurezza, gli sconti ai grandi consumatori, la querelle Enel-Terna sui servizi di rete, ma il testo lo scrive il governo. Il punto critico sta nell’approccio ideologico alle liberalizzazioni. Negli anni Novanta si è pensato che la deregulation potesse sostituire la politica industriale, che il mercato autoregolato ovvero affidato alle Autorità indipendenti potesse eclissare i governi.
L’esperienza ci ha rivelato che la deregolazione può avere effetti non meno negativi dell’interventismo. Il quale, comunque, non scompare mai. E forse arrivato il momento di rompere il pendolo tra politica industriale e politica della concorrenza per riconciliarle nell’iniziativa di un governo libero dalle corporazioni e dai pregiudizi: anche di quelli della propria cultura d’origine.
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ambrosella
D’accordo, ma non mi pare che taxi, notai, farmacisti e avvocati siano dei poveri “sfigati”!