La guerra sottostante a quella in Ucraina, che apparentemente oppone solo Russia e Nato (con Kiev felice di fare il campo di battaglia…) è in realtà una guerra economico-monetaria-finanziaria tra aree capitalistiche con ambizioni globali.
E se gli Stati Uniti sono dagli anni ‘40 la potenza imperialistica egemone, l’Unione Europea stava da alcuni decenni cercando di costruirsi come “soggetto relativamente indipendente”, per quanto alleato.
Due i problemi principali da risolvere; a) la dipendenza dell’Europa dalle importazioni di materia prime (energetiche e non), in quanto economia di trasformazione, dotata di know how di alto livello ma povera di risorse proprie; b) il potere del dollaro (e il monopolio nel sistema di pagamenti internazionali), che facilita da decenni lo scarico delle crisi economiche Usa sul resto del mondo.
Le forniture russe e la crescita di ruolo globale dell’euro non sono mai state viste di buon occhio da un alleato potente quanto egoista come Washington. Ma solo la guerra in Ucraina ha creato le condizioni perfette per gli Usa, che possono ora manovrare tutte le loro leve per demolire la potenza industriale e finanziaria europea, nel disperato (quanto inutile) tentativo di uscire dalla propria crisi.
Problema ulteriore: gli strumenti che gli Stati Uniti stanno utilizzando, ovvero l’aumento dei tassi di interesse, sono a doppio taglio, esattamente come le sanzioni economiche imposte (all’Europa fingendo di voler colpire solo la Russia). Perché il rafforzamento del dollaro, come valore di scambio con le altre monete, distrugge la “competitività” del residuo comparto industriale statunitense. Una “eterogenesi dei fini” che può accelerare la crisi, invece di rinviarla.
Guido Salerno Aletta, su Milano Finanza, fornisce una descrizione-spiegazione di quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi ma fuori della percezione generale. Un contributo prezioso per chi vuol capire, prima di provare ad agire come soggettività anticapitalista con qualche cognizione di causa.
Buona lettura.
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La forza del biglietto verde è veleno per l’economia americana
Guido Salerno Aletta – Milano Finanza
È indubitabile che la corsa dei capitali internazionali verso il dollaro, provenienti in particolare dall’Eurozona, dal Regno Unito e dal Giappone, e che ne hanno rafforzato il cambio, dipenda dagli aumenti ripetuti dei tassi di interesse decisi dalla Federal Reserve: intende stroncare così un’inflazione da domanda, tutta interna, che non ha precedenti.
In America, il costo della vita è aumentato in modo spropositato, a cominciare dal prezzo della benzina. Ma questo fenomeno non dipende più, come negli anni 70, dai produttori stranieri di petrolio che fanno nuovamente le bizze: gli Usa hanno acquisito una completa indipendenza energetica, per via dello sfruttamento estensivo dei giacimenti di scisto.
L’eccezionale dinamica del prezzo dei carburanti, come nella maggior parte degli altri casi, dipende da fattori prevalentemente interni, legati al recupero delle perdite occorse dagli operatori nei due anni di emergenza pandemica. Anche i prezzi degli immobili sono cresciuti, trainati dalle maggiori disponibilità liquide delle famiglie.
Ai sussidi federali generosamente erogati alle famiglie sin dai primi mesi del 2020, e all’allentamento della politica monetaria iniziata già alla fine dell’anno precedente, sono seguiti consistenti piani di spesa pubblica per investimenti infrastrutturali e per incentivi alle imprese decisi dall’amministrazione Biden, anche in vista delle elezioni di mid-term del prossimo 8 novembre.
Fatto sta che, negli Usa, oggi il tasso ufficiale di disoccupazione è appena del 3,8%: un livello che giustifica pienamente un inasprimento dei tassi in presenza di un’elevata inflazione determinata dalla pressione della domanda interna.
Tutto il contrario avviene fuori dagli Usa: è stata la svalutazione dell’euro, della sterlina e dello yen rispetto al dollaro che ha determinato un corrispondente aumento di prezzi all’importazione dei prodotti quotati in dollari sui mercati internazionali: in questi casi si tratta essenzialmente di una inflazione da domanda, di origine esogena.
Il contesto americano attuale è completamente diverso, se non addirittura opposto, rispetto a quello che caratterizzò la lotta alla stagflazione che fu condotta con estrema decisione dalla Fed all’inizio degli anni 80, con i tassi di interesse reali che cambiarono nettamente di segno, passando dal -3,8% del 1981 all’8,9% del 1983, costringendo l’Italia e la Francia a fare altrettanto, mentre la Gran Bretagna, la Germania e il Giappone ne aumentarono il livello già positivo.
L’inflazione americana degli anni 70 derivava dall’aumento dei prezzi all’importazione, per via della svalutazione del dollaro dopo la crisi del ’71 e dei dazi volti a favorire la produzione domestica. Fu poi enfatizzata dall’aumento del prezzo del petrolio, causato dall’embargo seguito alla guerra del Kippur e poi dalla crisi iraniana del 1980.
Anche il movimento internazionale dei capitali verso il dollaro presentava a quei tempi una dinamica peculiare: per un verso era indotto dall’aumento dei tassi americani e dall’altro da quello del prezzo in dollari del petrolio.
Non si ripete dunque il fenomeno della “tassa dello sceicco”, il drenaggio di risorse in dollari destinate ai Paesi arabi produttori di petrolio, che poi li reimpiegavano nell’acquisto di titoli del Tesoro americano e su Wall Street. In quegli anni, il drenaggio dei capitali internazionali veniva intermediato anche per indebitare in dollari i Paesi dell’America Latina: uno dopo l’altro, iniziarono a fare default a mano a mano che i tassi di interesse arrivavano a livelli da capogiro e il dollaro si rivalutava rispetto alle loro debolissime monete.
Stavolta i capitali stranieri vanno a finanziare il triplo deficit americano: quello del bilancio federale, quello dei rapporti commerciali con l’estero e quello finanziario derivante dallo scarso risparmio interno. Anche sotto questo profilo, la situazione attuale è completamente diversa a quella degli anni 80: il deficit commerciale del primo semestre di quest’anno è già arrivato a 607 miliardi di dollari rispetto ai 470 miliardi dello stesso periodo del 2021. A fine d’anno, potrebbe superare la barriera dei mille miliardi dollari, rispetto al passivo di 845 miliardi dello scorso anno.
La posizione finanziaria internazionale netta americana peggiora senza sosta: il passivo, che alla fine del 2021 è stato di oltre 18 mila miliardi di dollari, si è più che decuplicato a partire dalla Grande crisi finanziaria, visto che nel 2007 era stato di appena 1.279 miliardi.
Oggi il movimento di capitali dall’euro e dallo yen verso il dollaro deriva dall’enorme liquidità immessa dalle Banche centrali durante il biennio di pandemia e dal differenziale dei tassi: quelli pari a zero sui titoli pubblici a dieci anni, decisa dalla Banca del Giappone per sgravare il bilancio pubblico da oneri altrimenti esorbitanti, e quelli nominalmente negativi derivanti dagli acquisti effettuati col Qe e col Pepp dalla Bce.
I più alti tassi di interesse sul dollaro ingolosiscono gli investitori stranieri, garantendo la sottoscrizione del debito interno a fronte di un risparmio delle famiglie americane, sempre più striminzito: in termini di investimenti di portafoglio, le detenzioni dei non residenti hanno superato la stratosferica somma di 51 mila miliardi di dollari.
Gli Stati Uniti sono diventati il più grande debitore verso il resto del mondo, con una caduta continua sia sotto il profilo della produzione industriale che del commercio con l’estero, che ne ha consumato la posizione di primo creditore verso l’estero che era stata conquistata con le due guerre mondiali.
Il rafforzamento del dollaro rappresenta un pericolo estremamente subdolo, soprattutto perché si nasconde dietro sintomi congiunturali ampiamente positivi. Il consumatore americano compra sempre più volentieri le merci provenienti dall’estero, addirittura con lo sconto del 20% quelle europee per via della svalutazione dell’euro: ma ne va a discapito la produzione domestica.
I capitali esteri arrivano a fiumi, attratti dai più alti tassi di interesse che sono stati decisi per contrastare l’inflazione, ma addossando costi sempre più alti all’economia statunitense. Per un Paese come l’America, deindustrializzato e indebitato, non è proprio l’ideale.
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