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Art. 18. Menzogne traballanti

Un boomerang perfetto, che ha fatto venir fuori decine di articoli che entrano nei dettagli del funzionamento dell’art. 18, smontando l’apparato ideologico di regime (da Sacconi a Ichino, da Marcegaglia a Fornero) e “rivelando” quel che ogni lavoratore sa: la “giusta causa” ti permette di essere una persona anche mentre lavori, non solo “forza e intelligenza” a disposizione dell’imrpesa. Una persona, ripetiamo, non una “materia prima”.

Una panoramica particolarmente ricca, dunque, ma sicuramente istruttiva. Sia sui trucchi comunicativi del governo che su quelli – in larga misura “complici”, fin qui – dei colleghi al servizio dei grandi gruppi. Del resto lo confessava in tv – su Rainews – un noto avvocato del lavoro: “specie nell’informazione, l’art. 18 è decisivo; un giornalista che sa di essere licenziabile in qualciasi momento deve stare molto più attento a quello che dice o scrive”. Guardando quello che fanno già ora i giornalisti mainstream, ben protetti dall’art. 18, non facciamo fatica a immaginare le sorti della “libera informazione” in un altro regime…

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Quel «deterrente» poco usato
Rocco Di Michele

Sorpresa! Il tanto maledetto – dalle imprese e dalle varie destre di questo paese – «articolo 18» dello Statuto dei lavoratori dà luogo a un contenzioso legale minimo.

Sindacalisti e avvocati fanno fatica a ricordare casi eclatanti. Il primo che salta alla mente di tutti è quello di Dante De Angelis, «macchinista ferroviere», che le Fs di Mauro Moretti hanno provato a licenziare per ben due volte. La prima perché – in piena vertenza sindacale sull’utilizzo di quel sistema – si era rifiutato di guidare un eurostar dotato dell’«uomo morto» (un pedale da premere ogni 55 secondi, considerato un «sistema di sicurezza» negli anni ’30, in realtà fonte di distrazione nella guida e quindi un pericolo in più). La seconda per un motivo ancora meno convincente. Da delegato sindacale responsabile per la sicurezza (Rls, eletto dai lavoratori) aveva ipotizzato una certa causa tecnica per ripetuti «spezzamenti» degli eurostar in movimento. Le Fs ritenevano che ciò facesse «venir meno il rapporto fiduciario» con Dante.
Nel 2006 non si arrivò neppure alla sentenza: l’azienda firmò davanti al giudice per il reintegro del sindacalista al lavoro. La seconda volta, nel 2009, si dovette invece aspettare che il giudice riconoscesse l’assenza di «giusta causa» per il licenziamento, e quindi il nuovo reintegro sul lavoro. Sentenza marchionnescamente impugnata dall’azienda, di cui si attende in gennaio il giudizio d’appello.
Poi i ricordi si fanno scarsi e lontani, a parte il caso Pfizer, di cui parliamo qui sotto, o altri ferrovieri che avevano parlato con i giornalisti di Report. La ragione è semplice, ci spiegano in molti. «L’art. 18 è un semplice deterrente; se un’azienda sa di non avere un motivo giustificabile in tribunale, non procede al licenziamento, preferisce aspettare un errore del lavoratore preso di mira». Un altro motivo è costituito dalle lungaggini della giustizia civile, che può comportare anche l’attesa di anni per una sentenza e costi legali spropositati.
Nelle grandi aziende, in pratica, non si ricorre quasi mai al licenziamento individuale – l’unico davvero «protetto». Per «motivi economici», infatti, hanno a disposizione quelli collettivi: stato di crisi, cassa integrazione, mobilità. Fine. Per isolare i «rompiscatole» usano altri sistemi, fino ai «reparti confino» (se l’impresa è davvero «maxi»).
I casi più frequenti – ma di numero molto basso – si sono verificati dunque in aziende medio-piccole (sopra i 15 dipendenti, ma meno di 500), perché qui spesso il contatto tra lavoratore «sindacalmente attivo» e padrone è più diretto, meno mediato da dirigenti di vario livello. E anche gli imprenditori, in questa dimensione, dispongono più raramente di consulenti legali.
Eppure le imprese da diversi anni puntano con decisione ad ottenere la libertà di licenziamento individuale, sostituendo la «reintegra» con un «risarcimento» in contanti. La ragione principale è «politica»: il ricatto della licenziabilità è tale da irregimentare in modo molto più ferreo il lavoro. Diventa «sconsigliabile» rivendicare un diritto o sollevare problemi di ritmi, nocività, straordinari non contrattati, ecc. Si incentiva l’obbedienza cieca e una «flessibilità» totale, quasi al livello della macchina.
Soprattutto, una simile disciplina del lavoro azzera la presenza del sindacato. Più difficile fare le iscrizioni, più difficile (e più drastico) organizzare uno sciopero, più rischioso il ruolo di delegato (a meno di non far parte di quello «aziendale», tipo Fiat del prossimo anno).
Ma c’è anche una ragione economica: un «risarcimento» di 12 o 18 mesi costa assai meno della parcella di un avvocato. E questo governo è molto sensibile ai costi che le imprese devono affrontare, tanto da aver abrogato con un tratto di penna (art. 6 della «manovra») anche la «causa di servizio», che obbligava l’imprenditore a ripagare in qualche modo il lavoratore danneggiato nel fisico dalla ripetizione di una certa prestazione.
L’insistenza con cui il ministro del welfare Elsa Fornero e la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia sono tornate su questo argomento, però, sembra però preparatoria di quella radicale «riforma del mercato del lavoro» accennata nel programma di governo ed esposta nelle linee generali dalla stessa Fornero. Una riforma che richiederà comunque una qualche discussione con le parti sociali, dove proporre lo scambio tra l’abrogazione dell’art. 8 della «manovra Sacconi» di agosto e l’eliminazione dell’art. 18 dello Statuto. Lo schema generale c’è già: il «contratto unico» del prof. Ichino, senza le garanzie – e le risorse – della flexsecurity all’olandese (o alla danese), che farebbe «equità» trasformando tutti i lavoratori in precari a vita. Senza neppure più la pensione.

da “il manifesto”

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Licenziati e reintegrati dal giudice «Ecco a cosa serve lo Statuto»
Sergio Sinigaglia

ASCOLI PICENO
Nell’Italia di oggi dove i diritti di chi lavora ( e ovviamente di tanti altri) vengono quotidianamente calpestati, qualche volta capita che a perdere siano i potenti. Ieri è stata una giornata importante per Doriana, Gloria, Gianfranco, Luigi e Romano e gli altri due lavoratori della Pfizer di Ascoli (multinazionale americana dei farmaci) licenziati il 31 luglio del 2009, provvedimento a cui si erano opposti con decisione.
Una storia emblematica del paese in cui viviamo, una scelta dettata dal solito piano selvaggio di ristrutturazione con cui l’arroganza padronale vuole liberarsi dei dipendenti più anziani e sindacalizzati per assumere manodopera giovane e ricattabile. Invece questa vicenda dimostra come sia possibile battere lo strapotere delle grandi imprese.
Le due sentenze della magistratura, l’ultima in appello ad ottobre, che hanno sancito il sacrosanto diritto di questi lavoratori di ritornare in fabbrica è sicuramente un forte segnale in tempi come questi. «Siamo rientrati – dice Gianfranco – con tanta voglia di riprendere il nostro posto di lavoro, di ricominciare a lavorare dopo questi due anni di sofferenze. È la dimostrazione di quanto sia importante l’articolo 18 che oggi anche il nuovo governo vuole mettere in discussione».
Ma il rientro ha avuto anche una sorpresa non gradita. «Non tutti abbiamo riavuto la vecchia collocazione, alcuni di noi sono stati spostati di reparto con nuove mansioni. Sicuramente una cosa non piacevole». Un provvedimento che sa di ritorsione da parte della proprietà che ha dovuto ingoiare il rospo. «La comunicazione – prosegue Gianfranco – ci è arrivata all’inizio di dicembre, prima sono rientrati tre, poi altri quattro». Ma come è stata l’accoglienza degli altri lavoratori? «Per quanto mi riguarda ho verificato una clima di paura. Certamente alcuni sono venuti a complimentarsi, ma in molti altri ho percepito il timore di esporsi. Del resto si continua a ricorrere alla mobilità, il futuro è ancora alquanto incerto».
Luigi invece ha ricevuto tanti attestati di stima: «Io ho trovato un bel clima. Numerosi lavoratori si sono complimentati e ho ricevuto parole di incoraggiamento. Certamente per il futuro ci sono numerose incognite. Da un lato si fa ricorso alla mobilità nei confronti dei lavoratori con contratti stabili, dall’altro, come anche in questo ultimo periodo, si assumono 50, 70 persone con rapporti di lavoro interinali o comunque flessibili». Per Luigi l’esito positivo della vertenza sancisce la «salvaguardia della dignità; c’è da augurarsi che la proprietà non ripeta l’errore fatto con noi».
E i sindacati che nella battaglia fatta dai sette hanno avuto atteggiamenti contraddittori come hanno reagito? «L’Ugl – dicono all’unisono Gianfranco e Luigi – ha fatto un bel comunicato dandoci il benvenuto, mentre Cgil Cisl e Uil sono stati zitti. L’impressione è che per loro siamo un problema disinnescato, insomma il nostro rientro li ha tolti dall’imbarazzo». Sicuramente un’anomalia, ma sicuramente non l’unica in questa storia. Speriamo che non ce ne siano altre.

da “il manifesto”
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“Modello danese? Ecco perché qui è impossibile”

Marro Enrico

«Già allora, sul posto, capimmo che la flexicurity non si poteva importare in Italia. Anche adesso, a chi guarda al modello danese, direi che la strada da seguire è un’altra perché troppe sono le differenze tra l’Italia e quel Paese del Nord Europa con appena 6 milioni di abitanti, dieci volte meno dei nostri, e un modello sociale e culturale molto diverso».
Cesare Damiano (Pd), ex ministro del Lavoro del governo Prodi, in Danimarca ci andò per una settimana, nella primavera del 2005, a studiare il mercato del lavoro che veniva ritenuto dagli organismi internazionali il migliore del mondo. Partirono lui, Tiziano Treu e Paolo Ferrero. I tre erano rispettivamente responsabili Lavoro dei Ds, della Margherita e di Rifondazione comunista.
«Ci vedevamo a Tra-stevere nella casa dove allora abitavo e un giorno ci venne l’idea di andare a vedere come funzionavano le cose in Danimarca», ricorda Damiano. Il gruppetto si riuniva per scrivere i capitoli sociali del programmone dell’Unione, l’alleanza che un anno dopo vinse le elezioni portando Romano Prodi alla guida del governo. Nel quale Damiano fu ministro del Lavoro e Ferrero delle Politiche sociali, mentre Treu divenne presidente della commissione Lavoro del Senato. Sembra un secolo fa, ma il tema sta sempre lì, all’ordine del giorno, pur in un contesto politico ed economico profondamente cambiato: come si fa a rendere il mercato del lavoro italiano più efficiente? A quale buona pratica ispirarsi?
Il modello danese, indubbiamente, ha funzionato. E non stupisce quindi che ancora pochi giorni fa il presidente del Consiglio, Mario Monti, abbia dichiarato che l’Italia guarda «con interesse alle esperienze danesi nel mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali». Parole non solo di cortesia, dopo l’incontro a Palazzo Chigi con il primo ministro danese Helle Thorning Schmidt, ma che ribadiscono la volontà dell’Italia di varare le riforme promesse all’Unione europea e annunciate dallo stesso Monti in Parlamento nel discorso programmatico. In Danimarca, nel 2010, la disoccupazione è stata del 7,4%, ma era del 3,4% nel 2008, prima della crisi finanziaria mondiale. Ma sopratutto il tasso di occupazione è del 75%, contro il 57% dell’Italia.
In media, un terzo della forza lavoro danese cambia attività ogni anno. Le imprese possono licenziare per motivi economici, ma il lavoratore licenziato riceve un’indennità tra il 70% e il 9o% della retribuzione, con un tetto di 2 mila euro al mese, per un massimo di tre anni. Il sussidio è pagato in parte dallo Stato, in parte dai contributi delle imprese e in piccola parte anche dall’azienda che licenzia.
Il lavoratore che perde il posto viene preso in carico da una rete di uffici di collocamento molto efficienti e ramificati sul territorio che si occupa di offrigli a ritmo serrato nuove occasioni di lavoro, impegnandosi a fornirgli anche la necessaria riqualificazione professionale. Se il lavoratore rifiuta di collaborare e non accetta le proposte di ricollocamento, perde l’indennità. «Il ricordo che mi è rimasto più impresso — racconta Damiano — è proprio quello di questi uffici bellissimi. Sembravano degli studi di architettura: silenziosi, luminosi, eleganti, dove si svolgevano colloqui individuali tra i funzionari e i lavoratori licenziati finalizzati al loro ricollocamento. C’era uno di questi centri che aveva perfino un’officina per la formazione sul campo degli operai».
Damiano, Treu e Ferrero si resero subito conto che l’Italia era molto lontana. «Quando divenni ministro del Lavoro cercai di tradurre in pratica qualcosa, ma subito vidi quali erano le difficoltà. Per esempio, misi la regola per cui se al lavoratore licenziato l’ufficio di collocamento fa un’offerta di lavoro equivalente e questi la rifiuta, perde il sussidio. Ma subito gli ispettori del Lavoro mi fecero notare che in certe realtà, in particolare nel Sud, dove la camorra controlla settori per esempio del mercato agricolo, sarebbe stato difficile applicare un sistema del genere. Insomma, parliamo di realtà molto diverse. In Danimarca c’è un’etica calvinista della responsabilità molto forte. E raramente si riscontrano atteggiamenti opportunistici delle imprese o dei lavoratori per approfittare di sostegni pubblici».
E comunque, conclude Damiano, fossimo anche uguali ai danesi, non potremmo importare la loro flexicurity, cioè la flessibilità unita alla sicurezza sociale, perché «costa tantissimo e non possiamo permettercela» con un debito pubblico del 120% del Pil, il triplo di quello della Danimarca. Per stringere la questione all’Italia, su un punto sono tutti d’accordo: se si rendono più facili i licenziamenti, modificando l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, bisogna rafforzare il sistema degli ammortizzatori sociali, prevedendo in particolare una indennità di disoccupazione più estesa, più elevata e più duratura di quella attuale, e ci vuole un sistema di uffici di collocamento che funzionino, mentre oggi solo il 4% delle assunzioni passa attraverso questo canale.
Conclusione: non ci sono le risorse economiche per finanziare un modello alla danese, né la cultura, né le strutture necessarie. E allora? Il rischio che vede Damiano, lo stesso che vedono i sindacati, è che toccando l’articolo 18 in un momento di crisi come questo non si aumentino le opportunità di lavoro, ma si favorisca un aumento della disoccupazione.
Anche l’ex ministro non può però negare che la riforma del mercato del lavoro sia necessaria. Per superare il dualismo tra lavoratori anziani garantiti e giovani precari e per innalzare il tasso di occupazione, vera anomalia italiana. Sono gli stessi problemi che c’erano al momento della missione a Copenaghen. Ma la ricetta per risolverli non può essere in salsa danese. «Fra l’altro si mangiava terribilmente», sorride Damiano. «In Italia servono sette cose: disboscare i contratti precari; ripristinare il divieto di dimissioni in bianco; estendere lo sconto Irap alle assunzioni degli over 50; adottare il contratto unico di inserimento formativo per i giovani, con un periodo di prova di tre anni durante i quali si può licenziare, ma poi si ha l’articolo 18; velocizzare il processo del lavoro; riformare gli ammortizzatori sociali; trovare una soluzione per chi a causa della riforma della previdenza resterà senza stipendio e senza pensione». Altro che flexicurity.
dal Corriere della sera
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L’articolo 18. La libertà di licenziare non porta ad assumere le imprese: per noi è la domanda che manca

di Grion Luisa

Non si tratta di licenziamenti, di articolo 18, diflessibilità in uscita: il vero guaio, per le imprese italiane, è la mancanza di prospettive a breve termine. Arrivano poche commesse, i dipendenti che già ci sono bastano e avanzano, c’è la crisi dei consumi, c’è un enorme difficoltà di accesso al credito. Ecco perché non ci si lancia in nuove assunzioni: il reintegro del dipendente licenziato senza giusta causa c’entra poco e niente.
E’ questo che dicono le aziende italiane e l’atteggiamento emerge con chiarezza se si guarda all’ultimo rapporto Excelsior Unioncamere. Interrogati sulle intenzioni o meno di assumere e — nel secondo caso — sui motivi della mancata creazione di nuovi posti di lavoro, gli imprenditori danno risposte chiare. A frenare l’assunzione, è la mancanza di nuove commesse (5,7 per cento) o l’incertezza e la domanda in calo (14,1), quindi nel 20 per cento dei casi sono le condizioni di mercato a dettare la strategia.
La stragrande maggioranza delle aziende ritiene che l’organico presente sia sufficiente (il che vuol dire che non ha mire espansionistiche): comunque sia, la mancanza di una flessibilità in uscita non viene nemmeno menzionata fra le prime cause del fermo occupazionale. Probabilmente è compresa nella casella «altri motivi», barrata solo dal 12 per cento dei centomila imprenditori che costituiscono il campione dell’indagine.E la graduatoria delle motivazioni non varia di molto se si ragiona sull’ambito territoriale o sulle dimensioni dell’azienda. In realtà, le aziende che invece assumono sono proprio quelle grandi, dove l’articolo 18 trova applicazione.
Che non sia l’articolo 18 a determinare la politica del lavoro di una azienda lo conferma anche Mario Sassi, responsabile del Welfare per la Confcommercio. «A bloccare le assunzioni sono il costo del lavoro e la crisi dei consumi — afferma — in assenza di queste due condizioni non ci può essere occupazione». Il ragionamento, precisa, vale sia per le piccole che per le grandi imprese: «intervenire sulla flessibilità in uscita senza affrontare le vere cause del problema porta ad incanalarsi in una polemica pregiudiziale e ideologica».
Prima di parlare di articolo 18, secondo Confcommercio «va piuttosto affrontato il tema degli ammortizzatori sociali, che dovranno garantire un sostegno ai lavoratori che usciranno dalle aziende ma, visto l’innalzamento dell’età pensionabile, non saranno coperti da assegno». Altre priorità, secondo Sassi, sono «la formazione e l’accesso al credito: solo affrontando tutto questo si può parlare anche di articolo 18». La questione non è di poco conto perché è vero che l’Italia è il paese delle piccole imprese, ma l’articolo 18 è applicato alla maggioranza dei lavoratori. Lo certifica la Cgia di Mestre che guardando alla platea dei dipendenti italiani assicura che «oltre il 65 per cento degli occupati — quasi i due terzi del totale — lavora in aziende con più di 15 dipendenti, quindi sottoposte alla norma».
da Repubblica
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