Parlare di “cedimento” del vertice Cgil è quasi scontato. In questo caso, infatti, non ci sono molti dubbi sul fatto che il governo “rtecnico” sia assolutamente indifferente agli umori della società, molto malamente rappresentati dai vecchi “corpi intermedi” (partiti presenti in Parlamento e sindacati confederali). Né che il “merito” della cosiddetta “riforma” contenga la distruzione pressoché completa delle conquiste residue del movimento operaio.
Il problema, per l’attuale vertice della Cgil, era però togliersi l’immagine di quelli che prendono schiaffi da tutti senza battere ciglio. L’avvio dei “contatti informali”, dunque, dà l’apparenza di un “confronto vero”, in cui virilmente alla fine si “concorderà” su quello che il governo ha già deciso. Sperando di poterci prendere per il naso ancora una volta.
La breve panoramica dai quotidiani chiarisce senza mezzi termini sia lo scenario di questa “trattativa”, sia il modo in cui la Camusso “gestisce” l’attuale passaggio.
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Ora, invece, torna prepotentemente in prima pagina. Un po’ perché è l’obiettivo simbolico che certificherebbe una disfatta epocale del movimento sindacale, mettendo la parola fine a quanto conquistato con l’insorgere collettivo del decennio ’68-’77. Un po’ perché proprio la forza di questo simbolo può stornare l’attenzione generale da quanto viene messo in cantiere sotto la voce «riforma del mercato del lavoro». A cominciare da una revisione degli ammortizzatori sociali che – anche qui secondo indiscrezioni credibili – ha ben chiaro cosa cancellare (la mobilità lunga e la cassa integrazione in deroga, per esempio, oltre a una durata minore di quella «straordinaria»), mentre è assai più vaga con le nuove norme (non si va oltre un assegno di disoccupazione universale, di durata un po’ superiore ai sei mesi attuali).
Partiamo dall’art. 18. comunque. Il cavallo di Troia sarebbe rappresentato da una norma che lo sospende «solo» per i nuovi assunti, i disoccupati e i dipendenti di «nuove aggregazioni industriali». In pratica, per tutte le newco – secondo il modello inaugurato per Alitalia e poi «standardizzato» da Marchionne. In ogni caso, si tratterebbe di una mezzuccio ben rodato da molti anni: formalmente non si tocca un certo istituto, ma si introduce una «eccezione limitata», che poi diventa la norma. Era accaduto anche per i «contratti atipici», fino alla mega-presa in giro del «modello Pomigliano», che si giurava sarebbe valso solo per lo stabilimento campano…
Non sappiamo se anche di questo abbiano cominciato a discutere il ministro del welfare, Elsa Fornero, e il segretario generale della Cgil Susanna Camusso, che ieri si sono incontrate dando il via alla fase degli «incontri informali con le parti sociali»; al termine della quale il governo prenderà comunque le sue decisioni «senza farsi condizionare» dal sindacato. Ma di certo il tema è di nuovo prepotentemente al centro di uno schema di «riforma» che punta a rendere il lavoro – le persone – una materia liquida che scorre da rubinetti che si possono chiudere in qualsiasi momento. La riduzione a nulla delle tutele – la più robusta delle quali è proprio l’art. 18, che sanziona soltanto i «licenziamenti illegittimi» – è un passaggio «necessario» in questa logica più ottocentesca che «futurista».
Su questo fronte, ha ripreso vigore la cosiddetta «proposta Ichino», che punta a sostituire la reintegra sul posto di lavoro con un semplice indennizzo monetario. Lo stesso senatore del Pd, ex giuslavorista con la Cgil, è intervenuto di nuovo – ieri – per cercare di spiegare che «esistono tecniche di protezione migliori dell’art. 18». Senza però indicarne una.
Non è inutile ricordare che in Italia le aziende possono licenziare ricorrendo a ben quattro tipologie diverse. La più nota riguarda i licenziamenti collettivi in caso di crisi aziendale, che richiedono però una trattativa con i sindacati, il rispetto di criteri stabiliti dalla legge e la verifica da parte del ministero del lavoro. Ma ci sono anche i licenziamenti individuali per «giustificato motivo oggettivo», in pratica la scomparsa di una determinata posizione lavorativa in azienda (ne sanno qualcosa tipografi e dattilografe).
Sui «motivi soggettivi» non c’è ovviamente nessun ostacolo giuridico (grave insubordinazione, rissa, danneggiamento dei beni aziendali, ecc). E infine c’è il licenziamento per «giusta causa», più difficile da dimostrare («fatti gravi» addebitabili al singolo lavoratore, ecc). L’art. 18, insomma, sanziona soltanto il licenziamento «illegittimo» da parte dell’azienda. Ovvero quello in cui si accusa falsamente di qualche mancanza il lavoratore per mascherare la volontà aziendale di disfarsi di delegati sindacali o dipendenti «troppo attenti» a far rispettare i propri diritti o i confini contrattuali della prestazione lavorativa (turni, ritmi, nocività, ecc). Insomma, quei dipendenti che costituiscono in genere la spina dorsale del «movimento sindacale» in qualsiasi posto di lavoro.
Per questo la partita sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori è da oltre 10 anni una partita decisamente politica, non solo sindacale. Riguarda il mantenimento di un tasso accettabile di democrazia sui luoghi di lavoro, né più né meno. E certo, vedendo un governo agire motu proprio su materie che riguardano l’intera popolazione per numerose generazioni a venire, senza alcuna dialettica sociale reale con il paese, a molta gente dovrebbe scorrere un brivido per la schiena.
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