Il governo andrà in Parlamento per ottenere l’approvazione di un disegno di legge delega che lo autorizza a scrivere la “riforma” secondo le “linee guida” già presentate alle parti sociali. Su cui ha raccolto un “consenso di massima” da tutte le parti sociali, meno la Cgil. E un Parlamento di “nominati” non farà mancare il suo assenso. Mica si tratta della Rai o del reato di concussione…
La divisione sindacale non era facilmente prevedibile e molto, nei giorni scorsi, aveva lasciato pensare che anche la Cgil di Susanna Camusso stesse avvicinandosi a una soluzione “dolorosa ma necessaria”, facendo aperture persino sull’art. 18 (sui licenziamenti “per motivi economici”). Sembrava dunque che avesse, come si usa dire, “strappato” qualcosa di sostanzioso al governo, mettendo sul piatto un diritto fondamentale indisponibile. Uno scambio a perdere, è vero, ma non insolito nella prassi sindacale.
Invece niente. Camusso non aveva niente in mano. E ciò nonostante aveva “concesso” uno scassinamento delle tutele dai licenziamenti. È una constatazione che solleva parecchi dubbi sulla “competenza contrattuale” di questo panzer fin qui capace di manovrare quasi soltanto all’interno della sua confederazione, contro le diverse “sinistre”. Fuori dalle mura amiche, insomma, il “generale Camusso” si dimostra un fuscello che gli interlocutori prendono per i fondelli.
La sua reazione stizzita, nella tarda serata di martedì, è figlia di una scoperta per lei dolorissima: il sindacato non è più un “soggetto politico” di cui il capitale sovranazionale voglia tenere conto. Cisl e Uil hanno rinunciato da tempo, disponendosi a ricoprire un ruolo da “sindacato di mercato”; ossia da anello di congiunzione tra ufficio del personale e reparti di produzione. La Cgil fin qui è rimasta invece a metà del guado: “riformista”, ma con “pretese rappresentative”. Quindi ancora orientata a “pesare” con il proprio parere sulle scelte economiche, ossia sul governo reale del paese.
Incapace di staccarsi dal ruolo guadagnato nella lunga stagione della “concertazione”, ma altrettanto inorridita dall’ipotesi di tornare a un ruolo conflittuale.
Ma non poteva firmare la sua “morte in vita”. E quindi ecco che Camusso riscopre il linguaggio della mobilitazione, addirittura “di lungo periodo”. Ma anche lo scopo non sembra difficile da capire: inchiodare il Pd alle sue responsabilità, spingendolo a operare – in sede parlamentare – per ottenere quelle “modifiche” che non è riuscita ad ottenere con il “confronto”. Esplicito il passaggio in cui dichiara che la Cgil è pronta a «sostenere chi in Parlamento vorrà cambiare la proposta» illustrata dal governo alle parti sociali.
Mobilitazione sì, dunque, anche se pronta a fermarsi al primo “risultato utile”, da poter rivendere sul mercato della comunicazione.
E invece qui dobbiamo prendere innanzitutto atto che per il movimento dei lavoratori – tutto intero – si entra dell’era “dopo Cristo” inaugurata da Marchionne. Anche se, sul piano dei rapporti di forza reali e nelle condizioni contrattuali, si tratta di un passaggio all’indietro, all’”avanti Cristo”. Salta non solo la “concertazione”, ma anche il “patto sociale” – e costituzionale – che ha tenuto insieme l’Italia dal dopoguerra in poi. Un salto storico verso il buio, perché certi strappi – alla lunga – generano contraddizioni più violente di quel si era riuscito fin qui a “governare concertando”. Certo, il vantaggio immediato per il capitale è innegabile. Ma oltre il breve orizzonte, le cose – necessariamente e per loro stessa natura – cambiano.La cancellazione operativa dell’art. 18 implica il silenzio del singolo lavoratore in ogni posto di lavoro. È questo che svuota il sindacato di qualsiasi peso contrattuale e politico, perché non si può “rappresentare” chi non ha la forza di esistere. Lo si è visto in questi 15 anni di precarietà legalizzata: la condizione “atipica” non è riuscita ancora oggi a trovare una forma organizzativa, una modalità di resistenza dentro e fuori i luoghi di lavoro, un comun sentire esistenziale tale da trasformare la solitudine in forza collettiva. In “peso” sociale e contrattuale, quindi politico.
È il tema da mettere al centro per ogni sindacato conflittuale, perché questa è la “nuova normalità” su cui o si riesce a costruire conflitto, oppure – banalmente – si scompare.
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Un pacchetto di 16 ore di sciopero, di cui 8 per uno sciopero generale con manifestazioni territoriali e 8 per assemblee. È questa la proposta della segreteria della Cgil al direttivo del sindacato, ora riunito, contro la riforma del mercato del lavoro e le modifiche all’articolo 18.
Imbarazzo grande in casa Confindustria. Per la prima volta Il Sole 24 Ore rinuncia all’ideologia e si mostra preoccupato.
La Cgil proclama otto ore di sciopero generale contro la riforma del lavoro
La Cgil proclama otto ore di sciopero generale contro la riforma Monti-Fornero del mercato del lavoro. La data sarà definita sulla base del calendario della discussione in Parlamento. Se il sindacato chiude la porta, arriva il via libera della Ue. Secondo il commissario all’Occupazione Lazlo Andor, le soluzioni proposte vanno sostenute, in quanto hanno l’obiettivo di creare un mercato più dinamico.
La mobilitazione delle tute blu
Il giorno dopo la trattativa no stop tra Governo e parti sociali, con il presidente del Consiglio Mario Monti che ha chiarito che per il Governo la partita è chiusa, si delinea la mobilitazione delle tute blu, l’ala dura della Cgil, nelle fabbriche e nel Paese, contro la riforma del mercato del lavoro proposta dal premier Monti. Nel mirino le modifiche alla disciplina dei licenziamenti. Non è da escludere alcuna iniziativa, tuona il numero uno della Fiom Maurizio Landini. Sul fronte politico, il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini avverte: la riforma può essere modificata in Parlamento, ma non la si può svilire o annacquare in alcun modo. Non parla (o non ancora) il segretario del Pd Pier Luigi Bersani: «Parlo stasera (sarà ospite di Porta a porta, ndr) dell’accordo, se di accordo si può parlare». Bersani fa poi presente che «la situazione è molto critica per le piccole e medie imprese e per il lavoro». La base del partito democratico alza la voce: se dite sì a questa riforma del lavoro, non vi votiamo più. È il senso delle centinaia di commenti che si leggono sulla pagina Facebook del leader Pd.La Cgil: rischio di espulsioni di massa, dobbiamo intervenire
La Cgil è pronta a dare battaglia. Un pacchetto di 16 ore di sciopero, di cui otto per uno sciopero generale con manifestazioni territoriali e otto per assemblee. È questa la proposta della segreteria al direttivo del sindacato, contro la riforma del mercato del lavoro e le modifiche all’articolo 18. «Non sarà la fiammata che si esaurisce in un giorno che il governo ha messo in conto – avverte Fulvio Fammoni, il segretario confederale – e abbiamo il dovere di portare a casa dei risultati prima che si avvii un biennio di espulsioni di massa nelle aziende».Landini (Fiom): la riforma non riduce la precarietà
«Una follia che cancella l’articolo 18» attacca il leader della Fiom, Maurizio Landini, a Skytg24 sottolineando che «non è da escludere alcuna iniziativa». Landini sottolinea che la riforma del mercato del lavoro «non riduce la precarietà, non estende gli ammortizzatori, ma rende solo più facili i licenziamenti. La contrasteremo con ogni mezzo, con ogni forma di protesta democratica, nelle fabbriche e nel paese».Bonanni (Cisl): sull’articolo 18 mediazione onorevole
Di diversa opinione il leader della Cisl Raffale Bonanni. Ammette che, quando c’è una lacerazione nel sindacato, non ci sono margini per essere soddisfatti. Secondo la Cisl l’articolo 18 non è stato modificato, anzi è stato rafforzato, «trovando una mediazione onorevole rispetto a quello che avrebbe voluto fare all’inizio il Governo». Bonanni ha poi ricordato che nella riforma «non c’è solo l’articolo 18» ma evidentemente «ci sono alcuni che vogliono utilizzare» la trattativa «per loro vicende politiche e ideologiche». Chi firmerà l’accordo, ha concluso il leader Cisl, «passerà alla storia per non aver distrutto il movimento sindacale e la possibilitá di contrattare».».
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