Dopo avervi proposto diverse puntate della nostra indagine sulla “guerra di mala” a Roma, vediamo di mettere a confrnto diverse ipotesi interpretative, anche se non tutte ci convincono. Chiediamo anche ai nostri lettori un contributo informativo. Perché senza conoscenza corripondente al vero, nessun cambiamento può neppure essere cominciato.
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«Pijamose Roma», la nuova mala alla conquista della capitale
Andrea Palladino
«Pijamose Roma», gridavano al telefono. Le armi, la cocaina, le scorribande e il terrore erano le carte giuste che gli eredi gradassi della capitale criminale degli anni ’90 – tornati oggi protagonisti – potevano giocarsi. Il Tuscolano, le borgate della zona est, il Laurentino, i Castelli romani, territori da conquistare, agguato dopo agguato. O con loro o contro di loro.
Una chiave di lettura della scia di sangue romana è nel quadro disegnato dalle pagine dell’operazione del Ros del Lazio “Orfeo”, che lo scorso maggio portò agli arresti trentotto persone, accusate di aver creato un ponte criminale con il gruppo di Michele Senese, boss storico dell’omonima famiglia di origina campana. Non un nome qualsiasi, ma il principale alleato della banda della Magliana, la mafia romana che chiuse le attività ufficialmente nei primi anni ’90, tra arresti, morti e qualche sepoltura imbarazzante. Un ritorno annunciato, scandito dall’allargarsi a dismisura del traffico di droga e della tradizionale attività di controllo del racket del gioco d’azzardo, particolarmente vivo nella capitale. Una storia criminale che riparte nel 2007, preparando il terreno alla carneficina dello scorso anno, con 33 morti ammazzati, ferimenti e gambizzazioni.
Per ricucire i fili dell’escalation occorre partire da qui, dal variegato mondo criminale romano, ormai dimenticato, forse troppo in fretta, da quelle parole spavalde, gridate mentre una serie di agguati venivano pianificati. Gruppi aperti a qualsiasi alleanza, come ha insegnato la storia degli anni ’80, quando le bande armate della Magliana e i testaccini stringevano patti con chiunque fosse disposto a collaborare, da Cosa nostra ai Senese, dalla ‘ndrangheta ai servizi segreti. Un mix pericolosissimo, che caratterizza la mafia della capitale, abile nel far di conto e pronta a tutto.
Delle alleanze con i Senese si era già occupata la Dda di Roma in un’inchiesta dimenticata del 2008, quando il pm Lucia Lotti chiese l’arresto di novantatré persone, ipotizzando un’associazione di stampo mafioso attiva nella capitale, con a capo Michele Senese. Nel 2010, però, il Gip di Roma non ha riconosciuto l’esistenza dell’aggravante mafiosa, condannando alcuni indagati per il solo traffico di droga. All’interno del monumentale lavoro realizzato dal pm Lotti nel 2008 – quasi mille e cinquecento pagine – si trovano chiavi di lettura fondamentali per ricostruire gli scenari romani, andando oltre la cronaca sempre più nera. Il radicamento del gruppo dei Senese, come di altre strutture criminali, inizia nel Lazio tra il 1982 e il 1996, puntando subito sul traffico di cocaina e hashish. Spesso la droga arrivava dalle famiglie calabresi che controllano la Lombardia, e Roma diventa, in quegli anni, una sorta di centro di smistamento.
Il mare di Roma
Uno dei luoghi chiave è il litorale di Ostia, il quartiere che lo scorso novembre ha visto la morte in un agguato di Giovanni Galleoni e Franco Antonini. Qui i contatti ricostruiti dalla Dda di Roma nel 2008 tra i Senese e alcuni esponenti del gruppo storico della Magliana, come Emidio Salomone, erano forti e strategici. Gli affari da controllare non riguardavano solo la droga: in ballo c’era lo sfruttamento delle bische clandestine e, più in generale, il controllo di un territorio particolarmente interessante, con forte presenza turistica e con una fiorente industria del divertimento. Attraversare le strade della zona di Ostia attigua all’idroscalo fa subito capire come il controllo sia capillare, ossessivo. Oggi qui c’è la paura, si gira guardandosi attorno e facendosi i fatti propri. Tutti sanno che non si muove paglia nelle strade senza il consenso di chi conta. I fatti degli anni ’90 sono forse lontani, Salomone è un nome che in tanti hanno dimenticato, e pochi ricordano i Senese. Ma l’aria che tira non è così differente.
Gli agguati
L’operazione Orfeo dello scorso maggio partì da alcuni agguati che ebbero poco rilievo sulle pagine di cronaca. Due ferimenti non mortali avvenuti a Roma nel 2008, attribuiti dalla Dda a Gabriele Cipolloni, ritenuto «affiliato al clan dei Senese» ed un omicidio, quello di Emiliano Zuin. Erano solo il preludio di una lunga serie di episodi, riconducibili in qualche maniera a questo contesto: alla fine del 2008 nella zona dei Castelli romani viene ucciso Luca De Angelis, amico e socio di Cipolloni. Poi, nel 2009, tocca allo stesso Cipolloni che scampa per miracolo a diversi colpi sparati da un commando.
Dal 2010 ad oggi gli episodi di sangue sono aumentati, fino ad arrivare all’escalation di fine anno. Le poche inchieste della Dda ad oggi note mostrano con chiarezza che non si tratta di una semplice guerra tra bande. Le modalità degli agguati molto spesso sono una sorta di fotocopia di questi primi episodi: un gruppo di fuoco a bordo di uno scooter, con il volto coperto da un casco integrale. Una sorta di firma che fa immaginare una attenta pianificazione, che solo organizzazioni articolate e preparate possono mettere in atto.
da “il manifesto”
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Piccoli boss e gang di quartiere. Così roma è diventata violenta
Territorio, soldi e rispetto. Malavita organizzata e cosche «investono». su immobili, attività commerciali
Giovanni Bianconi
ROMA – Nemmeno tre mesi fa, davanti alla commissione parlamentare antimafia, l’allora procuratore Giovanni Ferrara, oggi sottosegretario all’Interno, fu piuttosto esplicito: «A Roma ci sono piccole bande criminali molto violente. La violenza, anche quella spicciola, è diventata eccessiva e incontrollabile. Le cause non risiedono forse nella criminalità organizzata, ma nel modo di vivere, nella multietnicità e nel fatto che molta gente non ha di che vivere e ricorre, ad esempio, alle rapine per strada».
Il suo vice Giancarlo Capaldo, responsabile della Direzione distrettuale antimafia oggi reggente dell’intera Procura, puntò l’attenzione sulle cosiddette «gambizzazioni», spiegando che «sono numerose e molto più pericolose degli stessi omicidi, che per la quasi totalità hanno una motivazione diversa dalla criminalità organizzata; le gambizzazioni invece, per la quasi totalità si verificano nell’ambito di gruppi criminali contrapposti».
Il prefetto Giuseppe Pecoraro partì dalla crisi economica generale che, disse, «ha avuto ripercussioni negative anche sul tessuto di Roma e provincia, che in tale contesto presenta notevoli possibilità per la commissione di attività delittuose altamente remunerative quali, anzitutto, il traffico di sostanze stupefacenti, quindi le estorsioni, l’usura, il riciclaggio e altri reati connessi».
Sono passati tre mesi, ma la situazione non è cambiata. E questi tre punti di vista sulla situazione della criminalità nella capitale d’Italia s’intersecano e danno un quadro generale complesso ma abbastanza attendibile: a Roma si spara forse più che in passato ma questo non segna lo sbarco delle grandi organizzazioni; quelle c’erano e ci sono ancora, ma si fanno sentire il meno possibile. Sono aumentati i regolamenti di conti violenti, le rapine a mano armata, le sparatorie per piccole questioni. Non c’è tanto una crescita, quanto un imbarbarimento della malavita. Che continua a dividersi fra quella locale, di grande, medio e piccolo calibro, e quella d’importazione.
Il controllo delle zone
Se la criminalità diffusa spara più di prima, spiegano gli investigatori, è perché con la crisi c’è meno denaro in circolazione e dunque i pagamenti vanno fatti in fretta, non si aspetta come in passato e chi sgarra dev’essere convinto a saldare in fretta. Com’è successo, probabilmente, alla vigilia di Natale a Tor Bella Monaca, quando un pregiudicato cinquantenne è stato ferito da un sicario al quale s’è inceppata la pistola dopo un paio di colpi. Delinquenza di basso livello, che imita quella di rango maggiore, per emulazione e per necessità.
Si spara anche per mantenere il rispetto dovuto a chi si considera un capo, e se ritiene che qualcuno se l’è scordato si sente in dovere di punirlo. È successo a settembre nel quartiere del Trullo, dove il boss locale ha tentato di uccidere chi s’era permesso di ingaggiare una lite, impugnando addirittura un paio di forbici. Gli investigatori della squadra mobile l’hanno arrestato dieci giorni più tardi, mentre mangiava il pesce con tre amici in un ristorante in provincia di Cosenza.
Omicidi e «gambizzazioni» s’intrecciano tra affari illeciti grandi e piccoli. I morti ammazzati sono aumentati rispetto al 2010, trentasei contro venticinque, ma diminuiti rispetto ai quarantadue del 2009 e i trentanove del 2008. E i ferimenti galleggiano intorno a quelle cifre, nell’anno appena passato trentasette. Provocati a volte da piccoli screzi e a volte da battaglie ingaggiate per contendersi le piazze di droga e altri commerci illegali. Rimaste scoperte dopo che i due gruppi tradizionalmente dediti agli stupefacenti – quelli di Michele Senese (legato alla camorra napoletana, arrestato nel 2008) a sud e del clan Fasciani sul litorale – hanno subito colpi abbastanza pesanti dalle forze dell’ordine.
La guerra tra le bande organizzate
Messe le mani su Senese, i carabinieri hanno proseguito le indagini e a maggio hanno arrestato altre trentotto persone che avevano occupato (o tentato di farlo) gli spazi lasciati vuoti dall’uscita di scena del boss. Entrando a loro volta in conflitto tra loro, con un omicidio e cinque ferimenti. Durante quell’inchiesta è stata intercettata la voce di un indagato che copiava una delle battute più frequenti di Romanzo criminale : «Pijamose tutta Roma, semo come la mafia!».
Le gesta dei protagonisti del libro, del film e della serie televisiva erano ispirate ai misfatti della banda della Magliana, la holding criminale che trafficava e uccideva tra gli anni Settanta e Ottanta. Oggi non c’è più, ma di tanto in tanto nelle operazioni di polizia tornano i nomi di personaggi che hanno avuto a che fare con i boss dell’epoca. È successo l’estate scorsa, con gli anziani Enrico Nicoletti e Sergio De Tomasi (che dentro un cuscino da cui non si separava mai nascondeva trentamila euro) accusati di usura e altri reati.
Sempre davanti alla commissione antimafia, il procuratore aggiunto Capaldo ha spiegato che se nelle loro terre d’origine Cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta fanno del controllo del territorio il primo caposaldo del proprio potere, a Roma no: «Qui hanno scelto un’altra strategia, quella dell’invasione economico-finanziaria, lasciando l’acquisizione territoriale a gruppi autoctoni, di livello inferiore, medio-basso». Nella Capitale, insomma, le cosche non sparano, investono. Per questo non gradiscono il rumore degli spari, tranne quando sia strettamente necessario.
Mafia, camorra e ‘ndrangheta
Alcune indicazioni fornite nelle audizioni in Parlamento disegnano la geografia della presenza a Roma e dintorni: «Il litorale conferma la sua attrazione per gruppi criminali quali il gruppo Triassi, collegato alla nota famiglia Cuntrera-Caruana e Picarella, cosca agrigentina di Porto Empedocle, interessati all’affidamento e alla gestione dei lotti di spiaggia libera del litorale di Ostia, nonché a gestire il narcotraffico».
Dalla Calabria sono sbarcati personaggi legati alle famiglie Piromalli, Molè e Alvaro, «che reinvestono copiosi capitali di provenienza illecita in attività commerciali, sbaragliando la normale concorrenza»; sono divenuti famosi i sequestri del «Café de Paris», o dei ristoranti «George» e «Colonna Antonina». Sulla camorra, di recente s’è scoperto che il clan Mallardo s’era infiltrato nel settore degli immobili attraverso apposite società costituite in accordo con esponenti del clan dei Casalesi.
«Le organizzazioni di stampo mafioso sono sempre state interessate alla provincia di Roma per le opportunità economiche e commerciali che offre la capitale – si legge nell’ultima relazione della Procura nazionale antimafia -. In definitiva in città sono presenti, con investimenti nel settore commerciale immobiliare e finanziario, gli esponenti di tutte le mafie, in una sorta di “convivenza” sia tra loro che con la tradizionale criminalità laziale, principalmente interessata alle rapine, al traffico di stupefacenti e soprattutto all’usura».
dal Corriere della sera
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A guardarle a distanza di poco più di quattro anni, le reazioni dei grandi quotidiani di informazione sono cambiate in maniera radicale. La risposta al tragico destino della signora Reggiani che nell’ottobre del 2007 fu assassinata nei pressi della stazione ferroviaria di Tor di Quinto, fece montare una grande ondata di sdegno e commozione. Era facile giocare con l’assassino: un rom, uno sbandato ai margini della società. Un comodo “mostro”. Pochi misero in luce che in un pezzo pregiato e centrale di Roma, vicino ad una importante presidio dei Carabinieri, le strade pubbliche non avevano neppure la pubblica illuminazione. L’attuale sindaco della città cavalcò abilmente lo sbandamento della società e promise il pugno duro contro la criminalità. E vinse le elezioni.
Nell’arco del 2011 ci sono state 33 esecuzioni e l’anno nuovo si apre con un duplice omicidio inaudito per ferocia ed efferatezza. Ma quei reiterati titoli cubitali sono un lontano ricordo. Le notizie durano due giorni e poi si torna ad altro. Senza il mostro bisognerebbe interrogarsi su come sta cambiando la città e trovare lì le cause della ferocia che sembra circondarci. Uno sforzo che necessiterebbe di mettere sotto la lente di ingrandimento un modello di sviluppo della città su cui gli stessi padroni dell’informazione hanno costruito le proprie fortune. Così facendo, non si farebbe neppure fatica a leggere le profonde analogie con quanto sta avvenendo nei confronti dell’azione del governo nazionale.
Il più potente strumento di dominio mediatico è la monocultura delle liberalizzazioni, anche se nessuno può negare che è proprio questa ideologia a minare gli stessi presupposti della convivenza civile. Il continuo richiamo alla giungla della competizione è proprio il contrario del senso più profondo della città: quello cioè di saper far convivere ceti sociali differenti, uniti da un luogo e da un destino comune. Nel provvedimento “salvaitalia” del governo Monti si liberalizzano le aperture dei negozi che potranno così restare aperti anche per ventiquattrore di fila. Tutti i giorni, comprese le domeniche.
Non servirà allo sviluppo perché farà chiudere altre migliaia di piccoli negozi che non potranno reggere alla spietata concorrenza della grande distribuzione commerciale. In questo modo si spegneranno inevitabilmente le periferie urbane, quel prezioso tessuto economico diffuso che garantisce ancora convivenza e vitalità e le città vuote generano mostri. Il repentino entusiastico consenso del sindaco Alemanno verso questo provvedimento la dice lunga sulla sua cultura urbana.
Il secondo corno della crisi è relativo al dilagare della criminalità organizzata. Qui la letteratura sarebbe sterminata: sono stati sequestrati immobili e attività commerciali in mano alla malavita ubicati in via Veneto e a largo Chigi, dirimpetto alla sede del governo. E visto lo storico intreccio tra criminalità organizzata e segmenti della destra romana, c’è da chiedersi se una parte della nuova offensiva criminale non sia stata aiutata dal senso di onnipotenza che deve aver percepito quella parte della società nel vedere alcuni suoi esponenti promossi sul libro paga della città. A Guidonia, periferia orientale, è stato gambizzato il 2 gennaio Francesco Bianco, esponente di Forza Nuova, premiato – come altre centinaia di simili – con un contratto all’Atac, l’azienda di trasporto pubblica grazie al sindaco Alemanno. Ma di questo non si parla. La simmetria con il quadro nazionale è evidente anche in questo caso. L’offensiva scatenata contro le conquiste del mondo del lavoro vengono giustificate dalle esigenze economiche, ma nulla si dice e si fa per interrompere il fiume di denaro pubblico, circa 100 miliardi di euro all’anno, che va alla sanità privata. Neppure una parola anche se giorno dopo giorno – l’ultima confessione risale al funerale di don Verzè – viene fuori un quadro di dilagante corruzione e infiltrazioni malavitose.
Il terzo fenomeno che sta soffocando le città riguarda infine la devastante espulsione di centinaia di migliaia di romani in luoghi sempre più lontani dal centro. Ci si trasferisce nelle grandi periferie metropolitane perché il vertiginoso aumento dei prezzi delle case condannano un numero sempre maggiore di famiglie a trasferirsi per poi pagare il conto in termini di pendolarismo e qualità della vita. Uno dei sottosegretari all’economia continua ad affermare in ogni dibattito televisivo con disarmante convinzione che la manovra salvaitalia è causata dal fatto che «viviamo al di sopra delle nostre possibilità». Credo che non abbia neppure lontanamente coscienza di come vive oggi la gente normale, quella che ha un reddito solo e magari neppure sicuro.
Ecco dunque i motivi della sordina mediatica. Quattro anni fa ci facevano ancora credere che il modello Roma e l’Italia intera correvano verso un futuro radioso e gli unici ostacoli erano gli immigrati e gli sbandati. Oggi la crisi che attraversa il paese e la sua capitale non consentono più le facili scorciatoie di un tempo. Ed è difficile per i convinti liberisti dover ammettere di essere stati la causa di un fallimento così gigantesco.
Si mette la sordina perché – come a livello nazionale – le ricette che la classe dirigente romana vuole perpetuare a tutti i costi sono quella delle Grandi opere. Lì c’è la Val di Susa, il Mose e il ponte di Messina. A Roma il secondo grande raccordo autostradale, il raddoppio dell’aeroporto di Fiumicino, le isole del divertimento davanti a Ostia. O quella dei Grandi eventi. Dall’Expo milanese alle Olimpiadi romane. Le stesse ricette che hanno portato al tracollo economico.
Per salvare le città e la convivenza civile occorrerà invece ripartire da una grande idea di investimento pubblico in infrastrutture di trasporto tramviarie, come tutte le città europee, per rendere più facile la vita urbana. Nel finanziare le eccellenze pubbliche della ricerca e dell’innovazione. Nel creare occasioni di lavoro nei settori ad alta intensità tecnologica. E verterà proprio su questi temi il confronto che si aprirà in vista delle elezioni amministrative del 2013. Il confronto tra le vecchie idee che hanno portato al tracollo la capitale e del paese e le idee nuove che provengono dalle periferie che hanno fin qui subito un modello di sviluppo iniquo e fallimentare. «Riconoscere la cittadinanza italiana post mortem alla piccola bimba vittima della violenza». A chiederlo è l’associazione Cittadinanzattiva, per la quale «l’amministrazione capitolina se è capace deve essere protagonista di un grande impulso di politiche di welfare e partecipazione civica, dove le persone si sentano coinvolte nell’essere comunità e non isolate come purtroppo constatiamo in moltissime occasioni. Altrimenti tragga le dovute conseguenze». «Condividiamo la scelta del lutto cittadino per questo assassinio senza pietà. Ci auguriamo che tutta la città si stringa attorno alla madre, alla famiglia delle vittime e alla comunità cinese. Ora si tratta di operare, come ha dichiarato il cardinale vicario Agostino Vallini, una profonda riflessione su ciò che sta cambiando in città, sul vuoto spirituale e sulla perdita di rispetto della vita umana. Tutti i romani devono stringersi assieme e lavorare alla ricostruzione di un tessuto sciale più umano e più solidale». Così la Comunità di Sant’Egidio.
Sarebbe ingeneroso, oltreché strumentale, attribuire ad Alemanno per intero la responsabilità della pericolosa deriva criminale in cui sta scivolando Roma.
Ma certo che fare il sindaco della città italiana con il più alto numero di morti ammazzati e non riuscire a fare altro che contrirsi, sta lì a segnalare la totale inadeguatezza della sua politica sulla sicurezza. Quella stessa sicurezza ottusamente invocata e brandita per anni come pretesto di lotta politica contro l’indulgente solidarismo della sinistra. Se il bilancio del suo operato è quello che abbiamo davanti agli occhi, pistole fumanti e strade insanguinate, c’è poco da argomentare: Alemanno ha completamente disatteso il suo principale obiettivo, disarcionato dal suo stesso cavallo di battaglia. E in politica quel che conta sono i risultati che si ottengono. O che si mancano.
Del resto, non poteva che andare a finire così. Quando si ritiene che la sicurezza sia assecondare il perbenismo inacidito e inseguire le pulsioni razziste, è assai facile perdere di vista le ragioni profonde che stanno alla radice dei fenomeni criminogeni che attraversano la capitale. Nella raffica di ordinanze con cui Alemanno ha perseguitato tutti i poveri cristi che vagano in città, alla ricerca di un qualche sostegno, di un qualche reddito, di una casa, di un rifugio, di un’accoglienza anche minima, c’è il nocciolo del grande malinteso, del grande inganno con cui è stata fronteggiata la diffusa (e spesso alimentata) insicurezza sociale.
Mentre si sgomberavano nomadi, mentre si dava la caccia all’immigrato, nel frattempo a Roma s’insediavano attività illegali organizzate, penetravano e si ramificavano bande e famiglie, s’intrecciavano legami con vecchie e nuove cellule della malavita nera. E oggi in città si è nel pieno di una guerra per il controllo del territorio, per stabilire le nuove gerarchie criminali, la linea di comando sul mercato dell’illegalità. Una guerra non ancora conclusa, come si deduce dalla catena di esecuzioni e gambizzazioni che ancora perdura e che praticamente ogni giorno manda qualcuno in ospedale o all’obitorio.
Tra i morti ammazzati ad ogni angolo, in centro come in periferia, l’inquietudine cresce. Così come cresce la consapevolezza che il senso d’insicurezza non nasce dallo straniero che arriva in città per lavorare o dai poveri che dormono sotto i portici perché non sanno dove rifugiarsi o dai bambini rom che chiedono l’elemosina in metropolitana. Più concreto e più minaccioso è invece questo proliferare di attività criminose che si diffondono in ogni dove, che si sviluppano nelle pieghe della città, nelle zone più marginali e precarie, ma anche nei quartieri agiati, anche nei locali lussuosi, tra le vetrine scintillanti, anche nelle agenzie finanziarie. Ma a tutto ciò sembra non esserci contrasto. A ogni evento cruento segue un’ormai rituale riunione in Prefettura, dove si valutano dati e rapporti, si ragiona, si discute, e non ne deriva granché, se non un’accigliata conferenza-stampa in cui annunciare qualche pattugliamento di polizia in più. E il sindaco Alemanno? Certo si preoccupa, manda a dire che “la città saprà reagire”, che è necessario “rispondere con fermezza”, ma in fondo sembra non scomporsi più di tanto. Però continua a erigere cancellate in ogni dove, dichiara guerra al degrado e lancia campagne per il decoro, e ogni tanto vaga di notte in sella alla sua motocicletta a caccia di prostitute. E poi continua a rilasciare licenze commerciali per aprire sale scommesse (negli ultimi due anni si sono quintuplicate), affinché il popolo tragga conforto dal videopoker e la criminalità possa meglio riciclare il denaro sporco. E infine ha completamente desertificato le periferie, azzerando gli investimenti culturali dei Municipi.
Roma è ridotta male, soffre e ha paura. E tuttavia può contare, unica città al mondo, sul cimitero dei feti: dei mai nati, dei non morti (fate voi).
Dolore e sarcasmo. Il delitto di Roma sui forum cinesi
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