“Finalmente abbiamo una banca!” l’esultanza al telefono di Fassino sull’affare Unipol-Antonveneta intercettata e poi venduta a Berlusconi, rappresentava la metafora di un sogno a lungo perseguito dal personale politico prodotto dal processo di mutazione Pci/Ds/Pd. Il sogno di avere una banca e di poter entrare nel salotto buono della grande finanza italiana da “pares”, sembra oggi materializzarsi come possibilità per i dirigenti del Pd.
Ma c’è un prezzo da pagare e neanche piccolo. A concretizzare la possibilità sono le preoccupazioni di Mediobanca e Unicredit che rischiano di vedersi scoppiare tra i piedi il fallimento e la possibile bancarotta fraudolenta di un grosso gruppo assicurativo come la Fonsai, fusione tra Fondiaria e Sai, di proprietà del gruppo familiare di Salvatore “Totò” Ligresti, un finanziere siciliano trapiantato a Milano e con le mani in pasta in parecchie caselle della geografia finanziaria del nostro paese. Secondo La Stampa, Mediobanca e Unicredit sono esposte per circa 1 miliardo di euro verso Fonsai.
Mediobanca e Unicredit stanno spingendo l’Unipol ad acquistare la Fonsai, anzi la finanziaria di controllo Premafin per essere esatti, tirando fuori decine e decine di milioni di euro. Ma al momento Unipol non dispone delle risorse necessarie. Dopo la condanna per aggiotaggio sulla vicenda Antonveneta, il titolo Unipol in Borsa va male e le casse non sono all’altezza di una acquisizione come quella di Fonsai.
Nel frattempo la Unipol ha firmato una lettera di intenti con la famiglia Ligresti (proprietaria di Fonsai) nella quale viene stilato unpatto di non concorrenza della durata di cinque anni, in cui ogni membro della famiglia riceverà 700mila euro all’anno “per non avvalersi dei loro consolidati rapporti con la rete agenzia le e la clientela del gruppo Fonsai”. Una lettera di intenti piuttosto onerosa ma che indica come Unipol abbia ormai deciso di rompere gli indugi e passare all’acquisto del gruppo assicurativo della famiglia Ligresti.
Per Unipol si pone il problema di un aumento di capitale da chiedere ai propri soci/azionisti, i quali altri non sono se non il mondo delle cooperative (ex “rosse”) che controllano per il 30% l’Unipol attraverso la Finsoe, ossia la cassaforte della finanza targata Pd. Le quote nella Finsoe sono per il 12,2% della Coop Adriatica, per il 9,7% della Coop Nordest di Reggio Emilia e per il 9,8% della Coop Estense di Modena. Un altro 24,5% lo mettono le cooperative emiliane aggregate nella holding Holmo, tra queste vi sono la CCC, Manutencoop, Camst ed altre.
Per l’aumento di capitale di Unipol serve dunque liquidità e questa liquidità deve arrivare dalle cooperative. Come? Sicuramente infilandosi o non perdendo nessun appalto delle grandi opere in corso o in progetto. La La famosa CCC di Bologna è uno dei più grossi consorzi di cooperative di produzione e lavoro con 180 tra le più importanti imprese cooperative di costruzione, sempre presente in tutte le grandi strutture finanziarie della Legacoop a cominciare da Fincooper, Banec ed Unipol. Il legale rappresentante della Unipol, è stato recentemente condannato a tre anni e un milione di euro di multa per aggiottaggio in relazione alla tentata scalata della banca Antonveneta.
Il fatto è che Unipol soffre in borsa ancora per quelle storie e soffre anche la Ccc di Bologna che di quel capitale è parte importante. Il numero 2 di Unipol è Piero Collina che in Ccc è numero 1 e stava nel Cda di Hera la multiutility emiliana.
Ccc e Cmc, sono protagoniste a vario titolo di appalti importanti come i cantieri della base Usa di Sigonella, della nuova base Usa di Vicenza al Dal Molin, del controverso Mose di Venezia e sembrano piuttosto disinvolte – stando a un dossier della Casa della legalità di Genova – nei loro rapporti con l’imprenditoria “torbida”. Ma sono anche dentro i lavori della Tav in Val di Susa, confortati in questo dal totale sostegno di big come l’attuale sindaco di Torino, Piero Fassino, e dall’ex sindaco Chiamparino. La furia di Fassino e Chiamparino contro il movimento No Tav si potrebbe anche spiegare con la necessità di fare cassa al più presto per le cooperative impegnate in questa grande e inutile opera multimiliardaria.
Ma non è solo questo. Se Unipol riuscirà a mettere le mani su Fonsai, Bologna diventerebbe il secondo grande polo assicurativo italiano dopo la Trieste in mano al Gruppo Generali. In questo caso l’ingresso di un gruppo finanziario targato Pd nel salotto buono della grande finanza italiana sarebbe assicurato. Per le Coop rosse è l’occasione della vita per sedersi ai futuri tavoli della finanza che conta, con un esborso iniziale importante ma non impossibile per la capacità di fuoco del sistema, un vero forziere superiore ai 10 miliardi di euro grazie al prestito soci, Ma a quale prezzo politico?
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Scheda
Ligresti. Padrini a destra ma sempre guai per la sinistra
L’avventurosa conquista della Sai da parte di “Totò” Ligresti avviene grazie all’appoggio del senatore del Msi Antonino La Russa, padre del più noto Ignazio (l’ex ministro) e “padrino” di due faccendieri come Ursini e Virgillito, quelli del crack Liquigas, il primo dei quali fuggito in Brasile. Dopo l’uscita di scena dei due, il sen. La Russa (padre) prende sotto tutela il giovane Ligresti.
All’interno del cda di Fondiaria siede tra gli altri Vincenzo La Russa, anche lui ex senatore e fratello maggiore dell’ex ministro della Difesa Ignazio.I rapporti tra Ignazio La Russa – e famiglia – e i Ligresti sono noti a tutti. Ma da oggi sono anche “quantificabili”: parcelle pagate da Premafin al figlio del mimnistro, Geronimo, per 318mila euro (solo nel 2010); parcelle pagate da Fondiaria Sai al fratello Vincenzo per oltre un milione in tre anni, come riportato dal Corriere della Sera. Il tramite tra i La Russa e i Ligresti è la moglie dell’ex ministro della difesa, Laura De Cicco.
Ma per Totò Ligresti quella sulla Fonsai non sarebbe la prima operazione con criteri bipartizan. Non è infatti la prima occasione con il vizietto di “inguaiarsi” con il Pd. Nel 2008 l’area di Castello a Firenze, di proprietà di Fondiaria-Sai, viene stata sottoposta a sequestro. Il provvedimento è stato preso dal Gip di Firenze, in seguito alla richiesta avanzata dai magistrati che indagano sui progetti edilizi nell’area, alla periferia Nord della città. Nell’ambito dell’inchiesta vengono iscritti nel registro degli indagati sette persone, tra cui gli assessori comunali Gianni Biagi (Urbanistica) e Graziano Cioni (Sicurezza) e lo stesso presidente onorario di Fondiaria – Sai, Salvatore Ligresti.” Per l’accusa l’assessore Cioni assicurava e avvallava le iniziative del gruppo Ligresti, come ha fatto — stando a quanto hanno reso noto i legali Annalisa Parenti e Pier Matteo Lucibello — il 18 aprile 2005 quando «ometteva di astenersi da ogni decisione inerente l’approvazione e la concreta esecuzione alla convenzione urbanistica stipulata tra il Comune di Firenze e il consorzio Castello». Anche l’assessori Biagi, secondo l’accusa, avrebbe favorito il gruppo Ligresti, votando la convenzione firmata nel 2005 e rendendosi protagonista di un accordo ben preciso: in pratica, l’assessore all’urbanistica, dietro la promessa fatta dal consulente di Ligresti a Firenze, Fausto Rapisarda e da un altro dirigente di Fondiaria, avrebbe aiutato il gruppo Ligresti perché così facendo avrebbe «piazzato» due tecnici progettisti chiamati a realizzare i progetti di edificazione degli interventi pubblici e privati sull’area di Castello. Il valore commerciale dell’operazione sarebbe pari a un milione di euro. Lo scandalo Fondiaria a Firenze ha portato ad una serie crisi l’amministrazione comunale, una crisi che ha partorito come neosindaco il giovane rottamatore Renzi.
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