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De Tormentiis. Ora anche il Corriere prende le distanze…

Anche il Corriere della Sera, tramite il controllato Corriere del Mezzogiorno, è a questo punto obbligato a riferire della storia in modo da non esser scambiato per un “difensore” di metodi di tortura che – ai tempi – furono sdegnosamente smentiti e costarono denuncue e condanne per calunnia a chi ne riferiva.

Bravo investigatore o «torturatore»? Il mistero del poliziotto anti-terroristi
Un funzionario: negli interrogatori Ciocia faceva ricorso all’annegamento controllato. Replica: «Falso, sempre operato nella legalità». E i magistrati lo difendono

NAPOLI – Definizione di waterboarding: «Forma di tortura consistente nell’immobilizzare un individuo in modo che i piedi si trovino più in alto della testa e versargli acqua in gola e sulla faccia. Si tratta di una forma di annegamento controllato, in quanto l’acqua invade le vie respiratorie inducendo il riflesso faringeo. Il soggetto sottoposto a tortura dell’acqua ritiene che la propria morte sia imminente».

Parte da qui la storia di Nicola Ciocia, 78 anni, pugliese di Bitonto, una vita a Napoli, ex poliziotto, ex dirigente della squadra mobile, ex questore, poi avvocato, oggi pensionato che esce poco o mai dalla sua casa del Vomero. Parte da quella tecnica di annegamento simulato maledettamente simile a quella utilizzata dai francesi in Algeria o dagli americani a Guantanamo. Il problema, accusa un suo collega, è che quei metodi li usava anche Nicola Ciocia per far confessare i terroristi. Erano gli anni tra il ’78 e l’82, quelli della guerra alle Br, ai Nar, ai Nap. Erano gli anni in cui iniziarono a chiamarlo «professor De Tormentis». Quel soprannome, per molto tempo, è stato un segreto di Pulcinella. Era in un libro scritto da Nicola Rao, Colpo al cuore. E — soprattutto — era nell’accusa lanciata tre giorni fa durante la trasmissione Chi l’ha visto? da Rino Genova, l’ex commissario di polizia che partecipò al blitz dei Nocs per liberare il generale americano James Dozier, rapito dalle Br: «Noi alle torture e ai maltrattamenti del professor De Tormentis abbiamo partecipato».

Il nome, quello vero, è coperto da un bip. Ma, appena ventiquattr’ore dopo, è lo stesso Nicola Ciocia a rivelare al giornalista del Corriere della Sera Fulvio Bufi che sì, quello di «professor De Tormentis» è proprio il soprannome che gli aveva affibbiato Umberto Improta, all’epoca capo del pool antiterrorismo voluto dal Viminale. Le violenze, invece, le ha negate: «I macellai erano loro, non certo noi». Rino Genova (anche lui pugliese, di Bari), dirigente superiore della Polizia di Stato, il funzionario che l’accusa, racconta una storia del tutto diversa. Dice, ad esempio, che in Italia esistevano due «squadre speciali» comandate da Nicola Ciocia: «I cinque dell’Ave Maria» e «I vendicatori della notte». Obiettivo: utilizzare tutti i metodi per ottenere informazioni dai terroristi. Lo stesso Rino Genova, dopo aver partecipato al blitz del 28 gennaio 1982 per liberare Dozier, fu accusato con altri agenti dei Nocs di aver torturato i quattro brigatisti arrestati: Genova diventerà poi deputato, per gli imputati la Cassazione dichiarerà prescritti i reati. Nicola Ciocia, nel frattempo, era già stato accusato. Lavorava a Napoli, dove il questore Emilio Santillo lo volle nel neonato ispettorato antiterrorismo. E faceva parte delle «squadre speciali» contro Br, Nap, Nar. Il primo pentito storico delle Brigate Rosse, Enrico Triaca, il «tipografo dei terroristi», venne arrestato il 17 maggio del ’78.

Un mese dopo, il 19 giugno, ritrattò le sue dichiarazioni e rivelò di essere stato torturato con la tecnica del waterboarding. Il 7 novembre dell’82, però, per quelle dichiarazioni Umberto Triaca fu condannato dal tribunale di Roma per calunnia. E neppure alle dichiarazioni di un altro brigatista, Ennio Di Rocco, fu trovato alcun riscontro. Ma il 17 giugno 2007, in un’intervista rilasciata a Matteo Indice e pubblicata sul Secolo XIX, Rino Genova rilancia: «Succedeva esattamente quello che i terroristi hanno raccontato: li legavano con gli occhi bendati, com’era scritto persino su un ordine di servizio, e poi erano costretti a bere acqua e sale». E, il 16 novembre 2011, in un’intervista al nostro Michele De Feudis ribadisce: «C’erano squadrette affidate al professor De Tormentis, esperto di questi metodi come capo della squadra mobile napoletana». Nicola Ciocia, oggi, fa il pensionato. Ha lasciato la polizia il 4 ottobre dell’84 dopo che l’avevano nominato questore, perché volevano mandarlo a Trapani. S’è iscritto all’albo degli avvocati, poi è stato commissario della federazione provinciale di Napoli della Fiamma Tricolore.

Oggi resta a casa «quasi tutto il giorno». Colpa «del cuore e di un ictus. La mia vita è stata tribolata, e ora sto pagando il conto». A sentire la sua voce, quasi non sembra di star parlando con il professor De Tormentis, soprannome tirato fuori da uno scritto del 1200 citato da Manzoni nella sua Storia della colonna infame, il Tractatus de tormentis. «Ma via, quello è stato un soprannome che mi avranno affibbiato per scherzo, quando ci si rilassa nei tempi morti». Quelli tra una tortura e un’altra? «Guardi, io ho fatto il mio dovere nell’interesse dello Stato, e metto in conto anche le critiche in malafede. Perché Rino Genova mi accusa solo trent’anni dopo? Non lo so, vorrei che avesse il coraggio di venire a dirmelo in faccia. È strano che si permetta di parlare di certe cose, è un collega che non ha la cognizione di quello che significa stare in polizia. Quando si parla dello Stato ci sono delle questioni — che non appartengono al soggetto, ma a interessi superiori — sulle quali sarebbe meglio tacere. Ammesso e non concesso che siano vere le cose che dice, io ho la coscienza a posto: le Br ammazzavano le persone, io ho fatto il mio dovere». Cos’è, un’implicita ammissione di colpa? «Macché, forse quelle cose Rino Genova le avrà viste da altre parti. Io assolutamente non ho mai fatto quello che dice. Ho sempre tenuto condotte lecite, rispettando le regole della polizia giudiziaria.

E poi di questa tecnica dell’annegamento ne ho sentito parlare, ma neppure so come si metta in pratica». E qualcun altro lo sa? «Siamo in quella sfera delle cose che appartengono allo Stato. E delle quali non parlo. So solo di essermi comportato sempre onestamente: provate a chiederlo ai magistrati con cui ho lavorato». Che confermano. Libero Mancuso: «Strano che questa storia venga fuori all’improvviso, con me è sempre stato di una lealtà assoluta. E non avrebbe mai fatto qualcosa a mia insaputa». Lucio Di Pietro: «Ci ho lavorato per anni, un grande servitore dello Stato, persona integerrima. Aveva modi che potevano apparire bruschi, ma in quell’epoca c’era un clima terribile. E di torture non ne ho mai sentito parlare». Felice Di Persia: «Lo scriva, se abbiamo smantellato i Nap è solo grazie alla sua capacità investigativa». Diego Marmo: «Una persona perbene, molto corretta». Lo difende anche un legale, il suo avversario storico, Saverio Sanese, l’avvocato di Soccorso rosso: «Sono stupefatto. Torture in Questura? Certo che sì, Alberto Buonoconto fu pestato, lo disse anche il consulente del pm. Ma cosa c’entra Nicola Ciocia? È sempre stato correttissimo. Guardi, io dal ’75 all’80 li ho difesi tutti. E mi creda, nessun mio cliente ha mai avuto qualcosa da ridire su quel poliziotto. Penso che accusino lui per coprire qualcun altro». Chi?

Gianluca Abate

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