In molti non se ne accorsero affatto. In fondo era un “governo tecnico”, con Lamberto Dini premier, e Lombardi andava a sostituire Francesco D’Onofrio, vecchio democristiano soprannominato per la sua raffinatezza “Ciccio basiccio”. Lo abbiamo cominciatoa rimpiangere non appena abbiamo visto da lontano Calderoli…
L’idea confindustriale di università era legata alla “produttività” immediata naturalmente, quindi cominciò a circolare l’idea che ogni “località” (provincia) dovesse avere il suo ateneo, ovviamente al servizio delle imprese territoriali e delle loro necessità formative. Una bella facoltà dell’automobile a Torino, una “della sedia” nel Nordest, tante “scienze della comunicazione” là dove proprio non si capiva che cazzo di imprese ci fossero.
Poi vennero i diessini -ops, il Pd – Luigi Berlinguer e Tullio De Mauro, seguiti addirittura da Letizia Moratti, dal pallido Fioroni fino al trionfo di Mariastella Gelmini. Un precipizio continuo che non poteva che produrre ignoranza, inadeguatezza, distruzione di interi campi del sapere. Hanno resistito meglio le “scienze dure”, naturalmente, quelle dove il corpo docente ha meglio difeso i livelli minimi per completare gli studi, fregandosene del meccanismo dell'”audience” che falcidiava intanto le teste migliori (quindi più rispettose della dignità del proprio ruolo).
Il “tre+due” garantiva più posti per i sottopanza della politica o dell’accademia stracciona, la proliferazione delle facoltà inutili altrettantio. La preparazione degli studenti, la selezione “per merito” e non per censo, finiva sullo sfondo. Le università private migliori attiravano i rampolli dei possidenti, mentre quella pubblica veniva scientificamente lasciata affondare. Una vendetta postuma del capitale, che aveva scoperto a sue spese che la “scolarizzazione di massa” – se fatta secondo i criteri della qualità e del “sapere critico” – apriva le porte della conoscenza ancheai figli degli operai. Con il consenso dei tardivi fautori dei “sei politico”, e quindi anche degli studenti (“lavorare stanca, studiare anche di più”), la frana è diventata valanga.
Dall’altra parte, un paese che ha rinunciato alla ricerca tecnologica non sa più che farsene di laureati capaci. E anche dei meno capaci. Tha’s all, folks!
IL RAPPORTO AlmalaureaI laureati italiani? Sempre più disoccupatiPassa dal 16% al 19% la disoccupazione dei laureati triennali
MILANO – Un’altra brutta notizia per i ragazzi italiani. Oltre al tasso di disoccupazione giovanile superiore al 31% secondo i dati Istat di gennaio, ora arriva anche l’aumento della disoccupazione tra i laureati. È quanto stabilisce il XIV Rapporto Almalaurea sulla condizione occupazionale dei «neodottori», circa 400mila ragazzi coinvolti. Secondo il consorzio interuniversitario la disoccupazione dei laureati triennali è passata dal 16% del 2009 al 19% del 2010. Dato che lievita anche per i laureati specialistici, passato dal 18 al 20 per cento. Non vengono risparmiati neanche gli specialistici «a ciclo unico» come i laureati in medicina, architettura, veterinaria, giurisprudenza: anche per loro la disoccupazione è passata dal 16,5 al 19%.
I RISULTATI – «Si tratta di un fenomeno piuttosto preoccupante – spiega Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea – ma del resto basta dare un’occhiata agli investimenti fatti in questo periodo dal nostro Paese in questo settore. Francia, Germania, tutti i Paesi Europei hanno investito di più nelle professioni qualificate per uscire dalla crisi, l’Italia è l’unica in controtendenza. Abbiamo una percentuale di laureati modesta rispetto alla media Ocse, abbiamo una classe dirigente oltre 55 anni poco scolarizzata e per di più investiamo pochissimo su questo fronte».
IL CONFRONTO – Non conforta neanche il confronto con i dati del 2007. I laureati triennali disoccupati del 2010 fotografati da Almalaurea, sono infatti aumentati dell’8%, percentuale che lievita per i laureati specialistici (9%) e per gli specialistici a ciclo unico (+10%). Diminuisce anche il lavoro stabile: la stabilità riguarda infatti il 42,5% dei laureati occupati di primo livello e il 34% dei laureati specialistici (con una riduzione, rispettivamente, di 4 e di 1 punto percentuale rispetto all’indagine 2010). Si dilata anche la consistenza delle forme contrattuali a tempo determinato e interinale, del lavoro parasubordinato e del lavoro nero. Fenomeno, quest’ultimo, che riguarda il 6% dei laureati di primo livello, il 7% degli specialistici, l’11% di quelli a ciclo unico.
LE RETRIBUZIONI – Brutte notizie anche sul fronte della remunerazione: lo stipendio a un anno dalla laurea (pari a 1.105 euro mensili netti per i laureati di primo livello, 1.050 per gli specialistici a ciclo unico, 1.080 per gli specialistici), già non elevato, perde ulteriormente potere d’acquisto rispetto alle indagini precedenti (con una contrazione compresa fra il 2 e il 6% solo nell’ultimo anno).
Corinna De Cesare
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