Intorno al testo della “riforma” del mercato del lavoro – generico, senza “articolato” (ossia non tradotto in articoli e commi di legge), giusto “linee guida” – si erano subito addensate le manvre correttive. Troppo grave il fatto che la Cgil sia stata tenuta fuori per una questione di centimetri (Camusso era pronta a firmare tutto, ma non poteva accettare quella formulazione sui licenziamenti per “motivi economici” senza rischiare l’esplosione della sua organizzazione), troppe difficoltà per un Pd altrettanto sull’orlo dell’implosione, troppe preoccupazioni cattoliche (dal Vaticano alla Cisl) per ricucire concedendo poco o nulla.
Si era dunque creata l’impressione che “qualcosina” si poteva correggere, non “cambiare”, nello spirito secolare dell’aggiustamento italico, del compromesso al massimo ribasso pur di salvare la faccia a tutti i protagonisti di una “trattativa” che non c’è mai stata.
Ma non è questa l’interpretazione che il blocco di interessi che ha assunto il governo dell’Italia vuol far passare. Lo spirito dell’”ordine nuovo” è chiarissimo: qualcuno deve perdere e tuti lo devono sapere.
Questo qualcuno è il lavoro e chi – onestamente o truffaldinamente – lo rappresenta. Il programma politico si chiama deflazione salariale, impoverimento, schiavizzazione del lavoro dipendente, scomparsa del sindacato come soggetto rappresentativo di interessi diversi da quelli dell’impresa. Su questo non devono esserci dubbi, altrimenti il compito del governo attuale sarebbe svolto soltanto a metà. Bisogna realizzare insomma delle “riforme strutturali” che distruggano il “modello sociale europeo”, e qualcuno deve essere messo per sempre fuori gioco. Anche se è soggettivamente disposto a fare il complice, (come Cisl e Uil) o dare il minimo istituzionale del fastidio, come la Cgil. Qui comanda il capitale e non c’è nessuna “Repubblica fondata sul lavoro”. Questo il senso.
Niente impressione di “incuici”, di mezze vittorie, di pareggi stentati; dal campo della “riforma” deve uscire uno sconfitto a testa china, piegato, svuotato di energie e orgoglio. Soprattutto senza illusioni di rivincita.
Il discorso di ieri a Cernobbio del cosiddetto presidente del consiglio, Mario Monti, è per molti versi inequivocabile. Nessuna “intromissione” sarà ammessa; il testo della “riforma” è stato approvato “salvo intese”, è vero, ma “non significa che forze importanti che abbiamo ascoltato ma esterne al governo, possano in qualche modo intervenire”. Vale per i sindacati ed anche per quei fantasmi ancora impropriamente chiamati partiti.
Quel che è fatto è fatto ed ora ci sarà spazio solo per “un processo di affinamento di un testo complesso che non è aperto a contributi esterni”. “E’ il Parlamento a decidere se farlo cadere, approvarlo in blocco o modificarlo”. La formula sembra lasciare aperto uno spiraglio, ma è solo un geroglifico sul muro. Monti non può dire – in regime di democrazia parlamentare formale – che nemmeno il Parlamento ha più il potere di correggere il governo. Ma questo significa.
Del resto, tra Montecitorio e Palazzo Madama girano centinaia di “nominati” che hanno un unico desiderio: restare lì ancora un anno, perché sanno benissimo che la loro “carriera politica” è finita. Nessuno mai li ricandiderà e fino alla fine voteranno sì a qualsiasi cosa. Non un Berlusconi che, ottenuto il necessario salvacondotto giudiziario (non un processo a suo carico arriverà in porto, con buona pace dei “legalitari” che hanno brindato alla nascita di questo governo come se fosse una vittoria), ha già lasciato il proscenio. Non l’opposizione inesistente, non il “grande centro” in formazione. I “politici” del prossimo Parlamento saranno pre-selezionati sulla base dell’internità o meno a un gruppo non troppo vasto di funzionari dell’”ordine nuovo”. Gente che passa abitualmente tra Milano, Bruxelles, Francoforte e Strasburgo, non certo tra Corleone o Casal di Principe, né tra Casalbertone e Primavalle.
“Questa strana formula, ‘salvo intese’, significa salvo intese fra i membri del governo e il capo dello Stato”. Il cerchio della decisione è delineato con freddezza: nessun altro potrà “concorrere” a definire le scelte.
“Qualunque sia l’esito di questo governo, che mi auguro sia positivo, non cercherò il consenso che non ho cercato fino ad adesso”, ha sottolineato Monti, “a differenza degli altri uomini e donne politici e politiche non ho cercato questa posizione”.
Formulazione davvero originale. Non sono stato io a voler assumere questo ruolo, mi ci hanno mandato e ho un mandato che non viene dalla composizione dei diversi interessi sociali presenti in questo paese. Vengo da Marte e rispondo a Marte. Il mio consenso lo cerco lì e voi vi dovete ciucciare quel che lì è stato deciso per voi. Punto.
Chiamare questo “democrazia”, ci sembra decisamente una presa per i fondelli.
Solo per farsi un’idea realistica del “tasso di combattività” della Cgil di Susanna Camusso, suggeriamo la lettura di questo articolo da Il Secolo XIX.
Cernobbio, fallisce il patto del pesto
Lorenzo Cresci
Il Collio di Fellugo, un pinot grigio che è una bontà, permette di alzare i calici e brindare. Alla riforma? Si sorride. Meglio fare un brindisi a Carluccio Sangalli, presidente di Confcommercio, che ha messo a questo tavolo Monti e la Camusso, assieme ad Angelino Alfano ed Enrico Letta, ai ministri Piero Gnudi e Francesco Profumo, al dg dell’associazione dei commercianti, Francesco Rivolta. Non si deve per forza firmare il “patto del Pesto”, ma l’occasione è ghiotta. La Camusso rompe il ghiaccio, mentre il raviolo di carciofi con salsa all’astice va ad anticipare il tris di secondi. Ironizza con Monti, scherza sulla cravatta del premier, «quelle civette, professore…». Il premier intanto mostra di preferire un rosso toscano, mentre Alfano pasteggia a vino bianco, perché accompagna meglio la grigliata di pesci con olio profumato agli agrumi e capperi. Può mancare un po’ di calcio, a una tavolata tra amici? No. Il tema è il Milan, di cui è tifoso Monti, di cui è tifosissimo Sangalli, amico di stadio di Silvio Berlusconi, il grande assente.
L’arrivo del carrè di vitello al forno non interrompe la chiacchierata, e adesso c’è tempo anche per parlare di altro. La Camusso dice che farà comunque sciopero, Monti dice che va bene, lo «sciopero è democrazia». Ma nel nome del pesto si può anche capire in che modo intraprendere una strada di avvicinamento. La piccatina di pollo con verdurine e salsa agli agrumi trova ormai tutti sazi. Arriva Ferruccio De Bortoli, direttore del Corriere della Sera. Aggiungi un posto a tavola. Il direttore appoggia l’iPad sulla tovaglia, non pranza. Si siede tra Letta e Gnudi. Alle sue spalle, a un altro tavolo, c’è Enrico Mentana, direttore del tg de La7. Con lui, tra gli altri, l’economista Luigi Zingales. I temi del pranzo, quando ormai la macedonia di frutta fresca ha fatto il suo ingresso, sono gli stessi. Il peso politico dei tavoli, ovviamente differente. Movimento in terrazza. Ecco Pierluigi Bersani. Alfano lo vede con la coda dell’occhio, si sbraccia: «Vieni, vieni qua con noi». Aggiungi un altro posto a tavola. Le portate sono finite, è l’ora del caffè. Monti e Camusso parlano ancora tra di loro. Dal segretario del Pd arriva un bacio per la leader sindacale, strette di mano con gli altri. Si alza anche Mentana. Gira attorno al tavolo del “patto del pesto”, nessuno lo invita. Fuori si ironizza: «De Bortoli sì, Mentana no…». Sangalli lascia la seggiola a Bersani. Il vassoio in argento a due piani ospita un trionfo di pasticcini assortiti. Qualcuno addolcisce così il caffè. Bersani fa chiacchiera, è uomo di mondo, alla tavolata tra amici si inserisce lasciandosi un po’ scivolare sulla sedia. Ecco, ci vuole un bicchiere di rosso toscano, con il quale tradisce quelli dei suoi colli piacentini, ma non il palato.
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