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1 maggio. Festa di lotta, per il lavoro

 

La lotta paga, dice la storia del Primo maggio. E qualche volta paga ancora, anche negli anni ’10 del terzo millennio. Sarà un caso, ma come all’inizio del secolo scorso dobbiamo parlare prima di tutto di ferrovieri. Allora erano loro il «giornale parlante» che metteva in sincrono le molte parti sociali di questo paese slabbrato tra Nord e Sud. Oggi difendono l’utilità di un servizio pubblico – e dei relativi posti di lavoro che danno da vivere – in mezzo alla follia della privatizzazione di tutto.

A Milano, sulla torre faro della Stazione Centrale, sono saliti da 130 giorni. I ferrovieri dei treninotte, improvvisamente «esuberati» da una controllata di Fs, stanno ancora là, a turno. E in questi giorni è diventato certo che almeno tre tratte notturne – Torino-Lecce, Milano-Lecce, Milano-Palermo – saranno ripristinate. L’impagabile Fs ha spiegato che «non siamo stati noi a cambiare idea; stiamo parlando di un servizio universale, non di una tratta commerciale, e quindi il nostro committente (il ministero del Tesoro, che è anche azionista unico di una cosa che si chiama Ferrovie dello Stato, ndr) ci ha chiesto questo ripristino». Non è ancora la vittoria, certo; lottano per riavere il loro posto di lavoro e non se ne vede traccia. Ma questa novità segnala che persino questo governo alieno «soffre» la pressione congiunta di lavoratori in lotta e cittadinanza incazzata.
Il più ferroviere di tutti – Ezio Gallori – viene stamattina insignito da Napolitano della «Stella al merito del lavoro». Una vita da sindacalista, motore dei macchinisti prima nella Cgil e poi fuori (Comu, ecc), ancora oggi, a 75 anni, presente a tutte le iniziative che coinvolgono la «sua» categoria. Il giorno del suo ultimo treno come macchinista, prima del pensionamento, alla stazione di Firenze, lo attendevano centinaia di compagni di lavoro con la banda musicale che intonava l’Internazionale. Quando lo proposero per il premio si preoccupò: «non dovrò mica stringere la mano a Sacconi?». Una testa durissima, per l’azienda, ma un «riferimento formativo e professionale di moltissimi macchinisti», «un esempio di rigore sui temi della salute, della sicurezza e della democrazia nei luoghi di lavoro».
Un primo maggio terribile è invece quello della Sardegna, dove la situazione è tale – 130.000 famiglie che campano solo grazie agli ammortizzatori sociali, 16% di disoccupazione – da farla diventare la «festa del lavoro che non c’è».
E un primo maggio di lotta nel settore del commercio, grazie a quel decreto sulle «liberalizzazioni» che ha tolto ogni limite agli orari di apertura degli esercizi. In teoria oggi potrebbero essere tutti aperti. Non sarà così, ma non perché prevalga una «coscienza civile» nell’imprinditoria italiana: semplicemente – come ha spiegato il presidente della Confcommercio romana, Giuseppe Roscioli – «in un momento come questo, in cui i negozi fatturano meno, rimanere aperti il primo maggio aumenterebbe solo i costi». A provarci sarà solo la grande distribuzione, che può vantare economie di scala adeguate.
Ma sarà ovviamente contrastata in molti modi. In Umbria i sindacati confederali hanno proclamato sciopero per tutta la giornata. A Terni volantineranno al centro della città per ricordare quello che tutti dovrebbero sapere. A Bologna, più creativamente, il gruppo di «Santa insolvenza» presiderà la Pam di viale Marconi. Questa catena di supermercati si è fatta pubblicità offrendo posti di lavoro domenicali agli studenti, come se questo gesto fosse disinteressata magnanimità; e che «domani sfrutterà tutti i propri dipendenti imponendo straordinari e aperture festive pagate quattro lire», aggiungono i contestatori.
Erano decenni che in Italia non bisognava lottare anche in questa data. A suo modo, dà la misura dell’arretramento del paese sulle questioni-chiave di una civiltà avanzata. Che non si misura – né soltanto, né soprattutto – in punti di Pil. A voler vedere il bicchiere mezzo pieno, c’è anche il lato buono di questa «sfacciataggine» imprenditoriale: non c’è praticamente città, paese, villaggio di questo paese che oggi non vedrà una piazza, un presidio, un corteo. Memoria resistente che cerca una leva per diventare movimento generale.

 
da “il manifesto”

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