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Dalla scala mobile all’articolo 18

Quel filo rosso che lega l’articolo 18 e la scala mobile


Claudio Gnesutta *
C’è un filo rosso tra la vicenda dell’abolizione della scala mobile di trent’anni fa e quella odierna dell’abolizione dell’art. 18? Può apparire strana una domanda che collega eventi così lontani nel tempo e per di più caratterizzati da una netta specificità. Un tratto comune lo si può rintracciare nel lungo clima di pressione mediatica per costruire una convinzione sociale che l’eliminazione di un «privilegio» di cui gode una parte della società è fatta per il bene di tutti e anche, si aggiunge come sovrappiù, per la parte che ne è colpita. Se fosse solo questo aspetto ad accomunare le due vicende si tratterebbe di ben poca cosa per sollecitare una riflessione, ma la sensazione che vi sia un legame più profondo mi induce a proporre alcune considerazioni in merito.
L’intervento che ha abolito la scala mobile ha realizzato l’obiettivo ossessivamente perseguito dalla politica economica di quella destra rampante degli anni Ottanta che attribuiva la dinamica inflazionistica all’eccessiva protezione del salario reale e che riteneva l’eliminazione della garanzia di recupero del potere di acquisto dei salari la condizione sufficiente per bloccare la spirale salari/prezzi. Si argomentava che si trattava di un costo necessario che sarebbe stato compensato dal rilancio della crescita economica all’interno del modello emergente di liberismo radicale. La questione che si pone oggi con l’art. 18 è in apparenza molto diversa, dato che non riguarda il salario reale ma il livello dell’occupazione, i cui insufficienti livelli sono ossessivamente interpretati dai piccoli emuli del pensiero craxiano come l’effetto di un’eccessiva protezione dei posti di lavoro esistenti. Anche in questo caso si sostiene che l’eliminazione di questa garanzia sarebbe sufficiente ad espandere la domanda di lavoro delle imprese (…) e a favorire l’espansione dell’occupazione e la crescita produttiva.
I tempi sono cambiati. Se negli anni Ottanta l’attenzione era rivolta alle politiche salariali che miravano a garantire una più equilibrata struttura dei redditi dei lavoratori, oggi le critiche sono dirette alle condizioni normative che mirano a garantire condizioni di lavoro (e di vita) meno precarie per la dignità e le prospettive di vita dei lavoratori. Là le condizioni di salario, qui la normativa del lavoro; là l’abolizione della scala mobile come preteso strumento di politica dei redditi, qui l’abolizione dell’art. 18 come preteso strumento di politica dell’occupazione. Situazioni molto diverse, ma entrambe dirette a rendere il «lavoro» più adattabile alle condizioni dettate dal modello produttivo, emergente a suo tempo e oggi dominante. In entrambi i casi, la giustificazione degli interventi proposti è che sono un momento essenziale per il rilancio industriale. (…)
Sappiamo come è andata. Nonostante il persistente contenimento del salario reale, i maggiori gradi di libertà acquisiti dalle imprese non hanno modificato l’orientamento della loro accumulazione. Il risultato è stato un rafforzamento della ristrutturazione industriale caratterizzata da processi di destrutturazione dei grandi impianti, delocalizzazione e precarizzazione che, pur favorendo la crescita della profittabilità d’impresa, non ha prodotto quel balzo nella qualità innovativa dei processi e dei prodotti necessaria per sostenere la competizione globale. I decenni successivi si sono infatti caratterizzati per un assetto industriale in difficoltà competitiva, per la lenta crescita produttiva, per il regresso nelle condizioni salariali e occupazionali, per i crescenti divari sociali (…).
La risposta di chi ha sbagliato è di insistere sulle politiche fallite cercando di convincere che la causa dell’insuccesso risieda nel fatto che non siano state attuate con la dovuta radicalità. Non meraviglia quindi che nell’ultimo decennio i tristi epigoni degli anni Ottanta, nell’incapacità di formulare spiegazioni articolate dello stentato sviluppo industriale si siano intestarditi sui «privilegi» di cui godrebbe una fascia di lavoratori per arrivare alla speciosa conclusione che, anche in questo caso, solo l’eliminazione delle garanzie che regolano il rapporto di lavoro (art. 8 e art. 18) permetterebbe a questa classe industriale di rilanciare la crescita produttiva. Anche in questo caso, ovviamente, si rassicura che la perdita subita dai lavoratori troverebbe compenso dalle migliori prospettive di sviluppo sociale e civile.
È un’analisi di rara banalità che non meriterebbe di essere richiamata se non fosse che il ribaltamento dell’ordine logico e fattuale tra politica industriale e politiche del lavoro sembra ripresentarsi anche nel governo dei «tecnici» che queste cose dovrebbero aver ben presenti, a meno che la «tecnicità» non sia intesa in senso così ristretto da non porsi il problema delle sue implicazioni politiche e sociali. È evidente la dannosità di una posizione «continuistica» per il perdurare della convinzione che la «riforma» del mercato del lavoro è propedeutica a una politica industriale, rischiando in questo modo di non comprendere quanto la storia della scala mobile ci ha insegnato. L’eliminazione del «privilegio» normativo realizza sì il sogno dei cultori indefettibili del mercato poiché rende tutti i lavoratori «uguali», ma al costo di trascurare le implicazioni di generale precarizzazione che una libera concorrenza individuale produce in un contesto di strutturale disoccupazione. L’effetto di classe è «egualitario», ma di segno opposto rispetto alle richieste dei lavoratori negli anni Settanta (…).
* Universtà la Sapienza di Roma

 
da “il manifesto”

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