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Spending review. SI parte “bassi” sul costo degli acquisti

.Poi si passerà a tagli più consistenti. E lì ci sarà da combattere davvero.

 

100 miliardi da tagliare ora

Francesco Piccioni
Che la pubblica amministrazione sia una sorgente di sprechi pazzesca, non è un segreto per nessuno. Ne sanno qualcosa al Pentagono (Stati uniti, mica questi scafessi di italiani), dove un normale martello sono arrivati a pagarlo 700 dollari. E anche qui da noi pullulano gli articoli scandalizzati che riferiscono – giustamente – di una siringa in plastica pagata 65 centesimi in un posto e 65 euro in un altro. Euro più, euro meno.

Ma cosa distingue una disamina certosina delle voci di spesa e dei prezzi pagati da un massacro sociale attraverso il taglio delle prestazioni? L’intenzione politica, è ovvio. Si tratta di scegliere chi pagherà il conto della «razionalizzazione della spesa». Se i fornitori «esclusivi» raccomandati o i dipendenti che fanno il loro lavoro. Perché si fa presto a dire di voler pagare meno tasse, ma se vieni ricoverato in ospedale – capita, agli esseri umani – giustamente «pretendi» che al tuo scampanellare notturno arrivi un infermiere. A cui magari capita, nelle otto ore di servizio, di accudire soltanto te.
Il ministro dei rapporti con il Parlamento, Piero Giarda, aveva spiegato già nei giorni scorsi che riteneva possibile «aggredire» (le parole hanno sempre un significato) almeno 100 miliardi di spesa a breve termine. Sul periodo più lungo, invece, l’obiettivo risparmio poteva estendersi fino a 300 miliardi. Poco meno del 15% del debito pubblico italiano.
Lo stesso Giarda ha comunicato ieri che il commissario alla spending review della spesa pubblica -Enrico Bondi – ha presentato il suo «cronoprogramma». Il termine è ostico, ma di facile lettura: un calendario di scadenze con tanto di impegni. Da quel che se ne sa, sembra per ora un ragionieristico coordinamento delle attività di approvviggionamento della pubblica amministrazione. esteso a tutte le amministrazioni, di ogni ordine e grado. Fin qui, nessuno – onestamente – potrebbe opporsi. Se un determinato ufficio consuma 2.000 penne l’anno e quello equivalente 20.000 è inevitabile intervenire. Ci si potrebbe solo chiedere se quegli «eccessi» di spesa non siano serviti a coprire altre voci: alcune legittime, altre no.
Bondi è stato preciso come suo costume. «Ottimizzazione dei costi unitari» (un solo prezzo per le siringhe, insomma); ottimizzazione delle quantità (quante penne o nastri di scotch possono servire in un ufficio di diciamo 100 persone?); integrazione e razionalizzazione degli strumenti per raggiungere questi obiettivi.
Le proposte sono altrettanto logiche: creazione di un «sistema a rete» per gli acquisti, tenuto conto anche delle quantità possibili di «consumo». Anche le scadenze sono impegnative: «entro giugno saranno varati tutti gli strumenti operativi per ottenere le riduzioni di spesa programmate». Obiettivo: recuperare 4,2 miliardi, che secondo alcuni calcoli potrebbero evitare l’aumento dell’Iva dal 21 al 23%. E che dovremmo pagare noi «consumatori» all’atto dell’acquisto di un vastissimo paniere di beni.
Sui tempi c’è qualche incertezza in più. Anche se il «cronoprogramma» entrerà in funzione a fine giugno, potrà in ogni caso dare risultati solo nella seconda metà dell’anno. Non manca l’apertura populista, con l’ammissione di aver preso in considerazione le segnalazioni dei cittadini (130.000, pare) finalizzate alla eliminazione degli sprechi. Il metodo usato è razionale solo dal punto di vista statistico: è stata avviata una «indagine specifica» solo quando le «denunce ricorrenti» apparivano provenire da territori diversi. Ossia quando rivelavano un comportamento standard in presenza di situazioni differenti.
Restano sullo sfondo i problemi accennati dallo stesso ministro pochissimi giorni fa. La spesa per la sanità, per esempio, risulta in crescita, a scapito spesso di quella per l’istruzione. Ma la sanità dipende dalle Regioni. Con i loro codazzi clientelari, ha fatto capire. Qui il passaggio diventa stretto: o gli enti locali riducono la spesa inutili (per esempio: gran parte delle prestazioni «in convenzione»), oppure il quadro delle compatibilità contabili salta. E anche noi non pensiamo che tutta la spesa per la sanità sia «santa». Il maiale grufola nell’indistinto…

 

Fin qui la cronaca. Più interessante è un meccanismo in parte noto, ma le cui dimensioni erano fin qui sfuggite.

 

Lo Stato non paga, ma l’avvocato ci guadagna tanto
Fr. Pi.
Lungi da noi «suggerire» a Bondi o Giarda quali voci di spesa tagliare. Ma ci sono, nella spesa dello Stato, una lunghissima serie di sprechi che non sarebbero possibili senza una complicità burocratica.
Prendiamo una segnalazione che ci arriva direttamente dal Tesoro. È noto che ci sono fiumi di fornitori dell’amministrazione pubblica che attendono di essere pagati. Imprese o professionisti che hanno prestato il loro servizio, consegnato merci, ecc; ma non hanno ricevuto un soldo. Eppure quei soldi erano stati «postati» in qualche capitolo di bilancio, altrimenti non ci sarebbero stati neppure il bando di gara o l’assegnazione diretta. Non c’è un «disattento» principale: il fenomeno riguarda tutti gli enti, dalla Presidenza del consiglio allo stesso Tesoro.
Bene. Per questi mancati pagamenti, i creditori – dopo un po’ – si rivolgono alla magistratura. Fanno causa, la vincono, l’amministrazione si appella, perde e si arriva all’atto di pignoramento. A quel punto la spesa è già levitata, grazie alla maturazione degli interessi passivi e alle spese legali. I gradini sono chiari: la «sorte» è la cifra base, il «precettato» contiene in media un 30% in più rispetto alla cifra base. Il pignoramento blocca alcune somme a disposizione dell’amministrazione; otternerne lo «sblocco» comporta di default un aumento del 50% rispetto al «liquidato» che era stato quantificato dall’ultimo giudice. Vi siete persi? Non c’è problema: alla fine lo Stato paga il doppio di quanto avrebbe speso versando puntualmente.
Ma per quale motivo i ministeri, ecc, non pagano in tempo? Per mancanza di liquidità di cassa, in genere. Come se noi entrassimo a prendere un caffè al solito bar, scopriamo di non avere spiccioli e dicessimo «ti pago domani». Se la mancanza di liquidità perdura, creando una situazione di emergenza di lungo periodo, c’è un meccanismo apposito – lo Speciale ordine di pagamento (Sop) – per evitare lungaggini e sovraccarichi per la giustizia civile (circa 19.000 processi l’anno solo per questa materia). Una specie di assegno in bianco fuori bilancio, di cui si tirano le somme a consuntivo, nella certezza che l’anno successivo si sarà determinato un risparmio.
In pratica, il ministero del Tesoro potrebbe pagare per conto di tutti gli altri soggetti pubblici, al momento del precetto, evitando l’ulteriore sovrattassa del 50%.
Il mistero vero è perché questo strumento non venga quasi mai usato. In fondo si tratta di evitare che vengano buttati soldi dalla finestra. La decisione di spesa non è appannaggio dell’impiegato pubblico additato come «fannullone» da ogni ministro che passa, ma dei dirigenti e funzionari (sui cui stipendi…). Quelli che spesso reagiscono alle domande dei subordinati con un’alzata di spalle «e che ti frega, mica son soldi nostri…».
Certo, qualcuno che guadagna c’è: gli studi legali che seguono questa massa di ricorsi in vari gradi di giudizio. Tra i casi particolari viene citato il «business del danno biologico», quello subito dal creditore che per anni non si vede saldato il conto. Sembra ci siano pochissimi studi legali – diciamo «meridionali» in senso lato – specializzatii soltanto in questo. Al punto da essere loro a proporsi di saldare la quiescenza al posto dello Stato in cambio della delega a gestire la causa, intascando poi la differenza. Una sorta di «cessione del credito» che, per le finanze pubbliche, si trasforma sicuramente in un salasso.
Basterebbe poco per stroncare questo e altri business. Poi uno si ricorda che la categoria più rappresentata in Parlamento sono gli avvocati…
 

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