“El pueblo unido jamas serà vencido” e “Evo, Evo”. Con questi slogan ieri pomeriggio centinaia di persone hanno accolto il Presidente Morales nel centro congressi di Via Nazionale. Una visita lampo, quella del leader boliviano, che ha permesso ai rappresentanti di tante realtà sociali e politiche della capitale di ascoltare il punto sulla rivoluzione che in pochi anni ha cambiato il volto di alcuni paesi del Sud America e dell’interno continente latinoamericano.
Ad introdurre l’intervento dell’ex leader cocalero ci ha pensato Luciano Vasapollo, docente universitario e dirigente della Rete dei Comunisti. “Qui oggi ci sono centinaia di persone, di compagni e di compagne che lottano ogni giorno per dare un futuro e una speranza ai nostri popoli” ha detto Vasapollo affermando che così come hanno fatto i regime democratici e progressisti insediati negli ultimi anni in Bolivia, Ecuador, Venezuela, Argentina, il compito dei movimenti di lotta anche in Europa deve essere quello di impedire che il pagamento del debito rimanga il dogma dominante della politica e dell’economia, e che le risorse pubbliche vadano a coprire e a rilanciare la spesa sociale e il lavoro. “Dobbiamo fare anche noi la nostra Alba – ha detto il docente universitario – perché questa Unione Europea è contro i popoli e contro i lavoratori”. Dopo aver, tra gli applausi, condannato la detenzione dei cinque agenti cubani nelle carceri degli Stati Uniti, Vasapollo ha ceduto la parola a un Evo Morales che ha voluto ripercorrere le tappe più importanti della sua personale avventura e di quella del popolo boliviano.
“Quando nel 1992 decidemmo di passare dalla resistenza alla presa del potere non avremmo mai pensato di arrivare tanto lontano. A quell’epoca nessuno tra di noi voleva candidarsi, la politica era considerata una cosa sporca, da cui tenersi alla larga”.
“Per secoli, e ancora pochi anni fa, gli indigeni erano esclusi dalla politica, dalla partecipazione democratica – ha ricordato il leader rivoluzionario – Quando provavamo a fare delle proposte su alcuni temi l’oligarchia ci rispondeva che la nostra politica erano la zappa e il machete, che dovevamo limitarci e lavorare e restare al posto nostro”. Poi l’inizio di un processo politico che nel giro di pochissimo tempo avrebbe portato i movimenti indigeni, i minatori, gli operai e le classi fino ad allora sfruttate al potere e un indigeno alla Presidenza di uno Stato rifondato. “Mi hanno definito assassino, cocalero, narcotrafficante, addirittura il ‘Bin Laden delle Ande’ – ricorda sorridendo Morales – ma passo dopo passo siamo stati capaci di costruire un movimento politico con un programma di governo e nonostante le ingerenze statunitensi e gli ostacoli e le menzogne dei media locali siamo riusciti a ottenere l’obiettivo”. Un risultato, quello raggiunto dai movimenti popolari boliviani, che ha dell’incredibile se si pensa al punto di partenza, negli anni ’90. Dall’esclusione razziale e di classe dal potere e dalla partecipazione della maggioranza della popolazione alle scelte di governo, a un paese che è stato completamente rifondato su nuove basi egualitarie, di giustizia sociale, e con un’ampia rappresentazione di tutte le etnie. Ricorda i due assi dell’azione del Mas – il Movimento al Socialismo – e dei suoi alleati di sinistra Morales: il varo di una nuova costituzione democratica basata sulla democrazia partecipativa e non più fintamente rappresentativa da una parte, la nazionalizzazione delle risorse naturali del paese fino a quel momento in mano a multinazionali straniere. “Abbiamo espropriato anche una compagnia telefonica italiana” ricorda malizioso il Presidente tra gli applausi e le risate della sala. “Quando viaggiai la prima volta in Europa, nel 1989, non potevo credere che in ogni casa ci fosse un telefono. In Bolivia, dove sono nato e cresciuto, il telefono in casa sembrava un miraggio ma oggi abbiamo cablato tutti i municipi del paese” afferma soddisfatto dopo aver ricordato le tappe principali della ‘rivoluzione democratica”: la battaglia dell’acqua e quella del gas, la vittoria elettorale del 2006, la marcia di un milione di persone e poi la vittoria nel referendum per la nuova costituzione, le nazionalizzazioni del 1 maggio del 2006, la vittoria schiacciante nel referendum di revoca del 2007, i programmi sociali che in tempi record hanno ridotto l’analfabetismo e quasi azzerato l’abbandono scolastico, le infrastrutture. E poi l’affondamento della piano di integrazione colonialista promosso dagli Stati Uniti – l’Alca – e la promozione di una alleanza continentale basata sulla giustizia e le relazioni di reciprocità: l’Alba.
“Solo 60 anni fa l’Onu si è accorta che gli essere umani hanno dei diritti, ora è venuto il momento di riconoscere i diritti anche alla Madre Terra” afferma solenne Morales. “Occorre coniugare sviluppo sociale ed economico con la difesa della natura” ribadisce, criticando una lettura della difesa dell’ambiente di ostacolo allo sviluppo e al progresso che spesso viene agitata strumentalmente, denuncia il Presidente, da quei paesi colonialisti e imperialisti che poi neanche firmano il Protocollo di Kioto.
Non sono mancati, ricorda Morales, i tentativi da parte degli Stati Uniti e delle oligarchie locali di bloccare il processo rivoluzionario e di rovesciare il governo: i tentati golpe in Bolivia, e poi quelli falliti anche in Venezuela e in Ecuador. E purtroppo quello riuscito in Honduras. “Per questo noi diciamo che vinciamo sugli USA con un punteggio di 3 a 1” sdrammatizza il Presidente. “Dico spesso che gli Stati Uniti sono l’unico paese del continente in cui non ci sia stato un colpo di stato. E sapete perché? Perché è l’unico paese del continente in cui non c’è un ambasciatore degli Stati Uniti” scherza, provocando l’ilarità dell’attento pubblico.
E poi una chiusura molto apprezzata dagli attivisti – movimenti per il diritto all’abitare, sindacati di base e conflittuali, partiti e organizzazioni politiche della sinistra, comunità di vari paese del Sud America, collettivi antifascisti e studenteschi, rappresentanti delle diplomazie latinoamericane in Italia – che si assiepavano nelle due sale del centro congressi di Via Napoli. “Quando sono diventato presidente ho ridotto il mio compenso da 40 mila a 15 mila bolivianos, e così ho fatto per ministri e alti funzionari. Essere autorità, governare vuol dire servire il popolo, non cercare di arricchirsi a spese del popolo. Governare vuol dire sacrificarsi e impegnarsi per il bene comune” ha concluso il Presidente della Bolivia tra gli applausi, mandando un sincero messaggio di solidarietà alle popolazioni colpite dal terremoto in Emilia Romagna.
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