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Roma. Sempre più mani sulla città

Oggi, nell’epoca della crisi sistemica del modo di produzione capitalista, le mani dei “prenditori” – su una metropoli come Roma – si sono moltiplicate in quantità e qualità, senza che nessuna lavasse l’altra.

Su questa nuova e diversa funzione delle metropoli – e nello specifico della città di Roma – si è interrogata la Rete dei Comunisti di Roma che ha dato vita a un dibattito interessante e articolato che ha visto la partecipazione di numerosi soggetti che con essa hanno voluto interloquire, sebbene con angolature differenti. Interlocuzione preziosa, dal momento che iniziative come questa registrano l’indifferenza di chi, anche retoricamente radicale, della città si occupa solo in stretta prossimità delle scadenze politico-amministrative.

Alla guida di un’economia-mondo (cioè dall’inizio del capitalismo già nel Cinquecento) c’è sempre stato un polo urbano; città verso cui affluiscono e da cui ripartono le merci, i capitali, gli uomini, le informazioni e i traffici e che aveva già ispirato la distinzione terzomondista tra città-metropoli e periferia-satellite. Celebre, da questo punto di vista, il ritratto che Braudel fece della seicentesca Amsterdam, dove «tutto è concentrazione. Ammasso: le navi fitte nel porto come aringhe in un barile, gli alleggi in movimento sui canali, i mercanti che si affollano in borsa, le merci che si riversano nei magazzini e ne escono continuamente […]. Il paragone con una fiera è banale, ma riassume bene l’essenziale sul ruolo di Amsterdam: raccogliere, immagazzinare, vendere e rivendere tutte le merci dell’Universo». D’altre parte, già nell’incipit del Capitale, Marx scriveva che la ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come un’immane raccolta di merci.

All’indomani della sbornia ideologica che presentava la globalizzazione come un processo privo di aggettivazione (capitalista) e, quindi, immune alle grandi contraddizioni, la realtà, ovvero la storia effettuale ha presentato il conto: le contraddizioni interimperialiste e geostrategiche tra gli stati e i diversi capitalismi, assegnano alle principali metropoli del pianeta una ben determinata funzione all’interno dello scenario internazionale.

L’immane raccolta di merci, evocata da Marx, è nel capitalismo finalizzata alla produzione di plusvalore e, per questo, l’interrogativo principale è stato quello sui ‘nuovi’ modi di produzione di plusvalore all’interno delle metropoli. Ancora: dopo la fine dell’ipoteca statunitense sull’Europa e la sua conseguente strutturazione in polo imperialista, che cosa comporta essere una città globale?

Nella sua introduzione, Domenico Vasapollo ha evidenziato come la città sia stata attraversata da varie epoche di sviluppo che hanno caratterizzato l’agire del capitalismo su Roma e si è soffermato sui dati che avvalorano la sua analisi: un notevole incremento demografico negli anni prima della seconda Guerra Mondiale (nel 1871 aveva circa 210.000 abitanti e nel 1940 circa 1.150.000) e poi, negli anni ’50, l’impennata, arrivando a 1.650.000 nel 1951, per passare a circa 2.840.000 abitanti nel 1981 (anno massimo in numero di abitanti). In quegli anni il capitalismo ha agito attraverso un’alleanza tra patrimonio fondiario, capitale finanziario e imprenditoria edile. E oggi?

A Roma la definizione di città globale coincide con il progetto Roma Capitale, anche se non tutti gli intervenuti hanno condiviso questo ruolo, considerando ancora scarso l’apporto di Roma al capitalismo internazionale. Mentre, nell’analisi fatta da D. Vasapollo, le città globali sono il centro di snodo per commerci, finanza, attività bancarie, sbocchi economici; città, cioè, connesse globalmente ma disconnesse localmente, fisicamente e socialmente, al punto che non ha più senso parlare di città. Una città che è sempre meno controllata dai governi dei territori e sempre più nelle mani delle corporation e delle grandi multinazionali. La città globale diventa, così, una componente strategica della mondializzazione del capitale. Tornando ai numeri che hanno costituito la materia su cui tutti hanno, poi, ragionato: il valore di Roma, è stato ricordato, non è tanto o solo l’ampiezza e la ricchezza della sua popolazione residente (Roma rappresenta circa il 7,1% del Pil nazionale e, insieme a Napoli e Milano, rimane l’area metropolitana più popolosa con più di 3,7 milioni di abitanti), quanto piuttosto un target del business sui “consumatori dinamici”. Con oltre 11 milioni di persone in più all’anno, che diventano circa 26 milioni di presenze delle quali 2/3 straniere, una porzione rilevante della città è diventata praticamente una foresteria, che ha piegato a questa dimensione spazi, tempi, orari, servizi, esercizi. Il turismo, che a Roma rompe qualunque postulato di sostenibilità sociale e ambientale ma che viene sempre presentato come una risorsa – questa è stata la domanda di fondo – lo è veramente? E, soprattutto, a fronte dei dati, qual è quindi il bilancio tra costi e benefici per la popolazione romana?

L’intervento dell’urbanista Antonello Sotgia ha voluto, invece, sottolineare positivamente come quest’iniziativa della RdC segnasse l’inizio di un ‘percorso’ aperto e quanto più possibile condiviso e non il primo passo di un’itinerario, presupponendo quest’ultimo tappe prefissate e un approdo altrettanto precostituito. Interesante è apparsa anche la richiesta di una nuova mappatura della città, essendo evidentemente inutilizzabili le ultime indicazioni sui luoghi decisionali della città. Altrettanto esplicità è sembrata l’affermazione che la sola urbanistica non può risolvere i vecchi e i nuovi problemi di Roma e se collegata alla denuncia del riformismo, perché subalterno al paradigma dominante della crescita, capiamo come la riconversione o il ‘rammendo’ di cui ha parlato Sotgia, non può limitarsi al mutualismo; perché attori veri della trasformazione, lo si diventa fuori dal recinto delle compatibilità.

Diversa, invece, l’angolatura offerta dall’intervento del prof. Tamburrino: qual è l’obbiettivo di Roma? Roma deve tornare ad essere, secondo Tamburrino, una fabbrica d’idee, ma è una città che consuma e non produce, una città in declino. Ci permettiamo d’osservare che proprio perché concordi nell’auspicare Roma come una fabbrica, una vera fucina per la battaglia delle idee, appare quantomeno riduttivo rifarsi al modello dominante, cioè quello tedesco; anche perché se l’uno è dominante, questo è possibile in virtù di un dominato (o più dominati).

Spazio e tempo nella metropoli è stato, invece, il tema sviluppato nella sua relazione da Gualtiero Alunni: la metropoli oggi è disagio sociale diffuso, tra condizione abitativa precaria, disoccupazione e inacessibilità ai servizi, ma anche spazio come testimonianza di r-esistenza che riaggrega esperienze diverse. Il ridimensionamento del ruolo e del peso della classe operaia, è stato ricordato, ha influito sulla natura dei movimenti metropolitani: tra i giovani, infatti, vi sono percentuali altissime di disoccupazione, precariato e lavoro nero. Il conflitto sul tempo è stato storicamente lo scontro per la riappropriazione del plusvalore ma oggi, segnando una sconfitta, la giornata lavorativa di chi lavora in una grande metropoli si è allungata pesantemente sia sul piano del tempo che dei costi. L’ipotesi avanzata è che si stia assistendo a uno spostamento della centralità del conflitto dal problema del tempo a quello dello spazio. Lo spazio gioca un ruolo essenziale in molti dei grandi movimenti rivendicativi. Il consumo di territorio, infatti, attraverso il cemento ha avuto incrementi paurosi sia attraverso industrializzazioni selvagge come nel Nordest o i grandi piani speculativi come l’Expo a Milano. A Roma tra il Piano Regolatore approvato dalla giunta Veltroni e le nuove deroghe della giunta Alemanno, siamo ad ormai 100 milioni di metri cubi di cemento che si riverseranno sul territorio metropolitano e in tutto l’agro romano. Lo spazio urbano sottratto dal cemento fa diventare lo spazio stesso un bene scarso. Ma un bene scarso, secondo la logica capitalista, non può essere più gratuito né, tantomeno, un bene comune. Al contrario va messo a valore secondo la logica del profitto.

Vittorio Sartogo, del Coordinamento delle Associazioni del Lazio per la Mobilità Alternativa, ha invece subito centrato l’attenzione su un argomento essenziale per l’agire politico tutto e non solo quello relativo alle mobilitazioni nelle città-metropoli: la consapevolezza, cioè, tutta ancora da acquisire, che ciò che nasce ‘dal basso’ deve porsi in competizione col capitale in qualunque ‘luogo’ compia la propria battaglia. Per questo, secondo Sartogo, l’unico esempio di movimento consapevole tra quelli in atto, è quello NO TAV.

Nell’intervento di Mila Pernice (RdC), infatti, è stato ripreso l’appello di convocazione del Forum tratto da un passaggio del libro di David Harvey “Città ribelli”: “come si mobilita una intera città”? Un appello che per la rete dei comunisti è inscindibile dall’acqusizione di consapevolezza e, dunque, dalla politicizzazione dei movimenti reali. Per cominciare a dare risposte a questa domanda, si è cercato innanzitutto di capire a fondo che tipo di contraddizioni si concentrano nelle “città globali” e, nello specifico, nella città di Roma. Qual è, cioè, l’elemento nuovo che introduce la lettera di Draghi e Trichet della Bce, quando si fa riferimento in particolare alla necessità di “privatizzazioni su larga scala” nella fornitura dei servizi locali? Come si traducono le politiche di privatizzazione alla luce dei “patti di stabilità europei” e dei nuovi blocchi di potere economico che agiscono nei diversi paesi? Ebbene, sembra ormai chiaro che i diktat dell’Unione Europea e della BCE costringano gli Enti Locali a ricorrere in modo massiccio alle tradizionali politiche di privatizzazione e di nuova finanziarizzazione. Non si è trattato di politiche ultime o legate a una parte politica che detiene il potere in un dato momento storico, ma di strategie profonde, che rappresentano gli interessi di blocchi sociali duraturi: Tant’è che l’avvio delle privatizzazioni a Roma è stato dato dalla giunta di centro-sinistra di Rutelli, nel ’97. Il caso di Acea è stato posto come esemplare: la delibera 32, in discussione in questi giorni, prevede infatti l’ulteriore vendita del 21% delle quote da parte del Comune ai privati. Ma anche l’aumento delle tariffe Atac andrà a vantaggio delle banche, visto che negli anni il trasporto pubblico ha acceso mutui senza i quali non si sarebbe potuto finanziare. Qual è, dunque, l’elemento nuovo, nell’epoca della crisi sistemica del modello capitalista e della centralizzazione, nell’ambito del blocco europeo, delle politiche economiche che hanno l’obiettivo di “rassicurare i mercati” e di salvare le banche? Si tratta senza dubbio, è questa la tesi avanzata, di processi di investimento ad esclusivo connotato finanziario-speculativo, che vanno dunque a discapito degli investimenti produttivi nell’economia reale.

Un ulteriore aspetto particolarmente interessante riguarda il settore immobiliare e gli appetiti di speculatori e finanzieri: la continua cementificazione che, attraverso i cambi di destinazione d’uso grazie agli accordi di programma in variante al piano regolatore, sta ridisegnando il volto di interi quartieri metropolitani, mentre si proclamano interessi generali che in realtà nascondono privatissimi interessi dei costruttori nonostante che tante costruzioni risultano invendute. Questo vuol dire che non si utilizza più la rendita fondiaria per abbattere i costi di costruzione, e che il costruito invenduto non serve ad altro che a fare da garanzia per nuovi investimenti finanziari. Si affacciano, dunque, sul mercato immobiliare e non solo, nuove figure d’imprenditori, che hanno più dimestichezza con i giochi finanziari che con i piani industriali. Perché, come è ricordato in conclusione, la crisi finanziaria non è che la punta dell’iceberg della crisi sistemica del modello capitalistico (anzi un suo meccanismo d’occultamento), allo stesso modo le mani dei privati e del capitale finanziario sulla città di Roma non sono che il tentativo del modo di produzione capitalistico di continuare a creare plusvalore. Qualunque forma di conflittualità sociale che ometta dal suo orizzonte strategico l’obiettivo anticapitalista – è questa la vera formula efficace a cui forse pensavano molti degli intervenuti – difficilmente potrà compiere passaggi davvero significativi nel senso della trasformazione.

Nell’ultimo intervento, Carmela Bonvino dell’Unione Sindacale di Base ha voluto sottolineare l’intima convergenza tra momenti di analisi e riflessione, come quelli del forum organizzato dalla Rete dei Comunisti e le innumerevoli lotte che come sindacato dei lavoratori (ma anche di chi un lavoro ancora non l’ha o è precario) che investe sul conflitto e non sulla cogestione della crisi si prova a portare avanti.

Il percorso è iniziato, alla Rete dei Comunisti l’onore e l’onere d’intraprenderlo nella logica dell’indipendenza e dell’autonomia; agli altri, invece, il dovere di confrontarsi e di spendersi con franchezza e lealtà. Un nuovo inizio, per la città di Roma, è stato posto.

* Rete dei Comunisti – Roma

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