«Non c’è ancora piena credibilità nel mercato nei meccanismi a supporto dell’Eurozona e, forse, nel caso dell’Italia c’è anche un po’ di incertezza su quello che succederà nella governance dell’economia o detto altrimenti nella politica italiana dopo le elezioni».
Questa frase, pronunciata da Monti a Aix-en-Provence dice più di quanto vorrebbe. E’ la fotografia di una situazione preoccupante: l’Italia viene vista, dall’Europa, come incapace di autogovernarsi. LA sua classe politica, i partiti esistenti, non hanno alcuna credibilità internazionale. Non ce l’ha Berlusconi, ovviamente, di cui cui si sono voluti liberare con più decisione di quanta non ce ne avrebbe messa D’Alema. Non ce l’ha naturalmente Casini, che con Berlusconi ha tirato avanti per 15 anni e non ha mai avuto un’idea orginale o un’autorevolezza nazionale; sempre lì a inciuciare con tutti per restare “al centro” senza dover fare molto. Non ce l’ha Fini, l’ex fascista ripulito in tarda età, diventato praticamente l’unico “custode della Costituzione” anche se era nella cabina di comando della polizia a Genova 2001, quando la Costituzione fu allgramente stracciata. Non ce l’ha Bersani, che parla bene l’emiliano e sa far di conto meglio degli altri, ma è il Re Tentenna di un partito tentennante.
Il problema è chiaro: occorre una rappresentanza politica del “programma europeo” che possa avere la maggioranza parlamentare e far approvare tutti i decreti che arriveranno da Bruxelles nei prossimi anni. Ma soprattutto che possa gestire le conseguenze sociali del fiscal compact, che impone un taglio al debito pubblico di 45 miliardi l’anno. E visto che la spesa per interessi passivi sui titoli di stato non si può toccare…
Ma qual’è la soluzione? Nessuno dei tre “partiti” che sostengono Monti ha la minima speranza di avere la maggioranza da solo. E tutti e tre insieme non possono presentarsi davanti agli elettori; la reazione di rigetto all’intenro di almeno due dei gtre (Pdl e Pd) sarebbe catastrofica. E nessuno dei tre apopare in grado di agire da centro di gravità permanente di una coalizione vincente. I berlusconiani non posono rappattumare il rapporto con la Lega e l’estrema destra e in ogni caso gli attuali sondaggi bocciano come assolutamente minoritario questo schieramento.
I “centristi” contano un cazzo elettoralmente e non hanno saputo nemmeno capitalizzare il tracollo berlusconiano. Quindi possono solo aggregarsi a chiunque altro, ma non hanno alcuna possibilità di fare da “nucleo centrale”. Casini punta palesemente a sostituire Napolitano al Quirinale e il personale politico alle sue spalle è di peso politico e manageriale pari a zero. Probabile dunque che l’Udc si sciolga subito dopo l’ascesa del capo al colle più alto, un po’ come Rifondazione dopo che il “divin Fausto” s’era accaparrato la poltrona da presidente della Camera.
Il Pd, solo in teoria, potrebbe aggregare Vendola e Di Pietro, e magari anche pezzi consistenti e non della Federazione della sinistra (Patta, Salvi e soprattutto Diliberto scalpitano dal bisogno impellente di ritrovare un seggio parlamentare e i relativi finanziamenti, anche se ridotti). Ma c’è l’ostacolo serio del “programma”: che è uno, già deciso a Bruxelles e indigeribile per i soggetti sociali organizzati (Fiom, associazionismo, pezzi di movimenti per l’acqua e altre cose) che sono la base elettorale diffidente di questi “partiti ad personam”. Possono Vendola e Di Pietro presentarsi ai propri elettori dicendo che in fondo la “ricetta Monti” va bene? Non c’è più lo spauracchio Berlusconi. Si rischia un bagno in acqua gelida e la sepoltura politica.
Resta perciò solo l’ipotesi di una “grosse koalition” post-elettorale tra i tre partiti che già ora sostengono Monti. E naturalmente con Monti a palazzo Chigi anche se non “vagliato” dalle elezioni. Anzi, proprio Monti non deve neppure essere sfiorato da un voto che sarebbe inevitabilmente un “referendum” sulle e contro le sue politiche. Quindi non resta che andare al voto ognuno per conto proprio (qualche “piccola coalizione” si può sempre fare) e poi richiamare Monti tenendosi in seconda fila. Magari mettendo qualche “tecnico” più chiaramente “d’area” in alcuni posti non decisivi.
Ma c’è un ma. Se questa ipotesi diventa evidente troppo presto, rischia di esser bruciata. Quindi va decisamente negata. Sia a destra che dal Pd (e smettiamo anche di indicarlo come una “sinistra moderata”: dopo l’appoggio a questo governo sarebbe ridicolo).
Come dice ancora Monti: «porsi il problema oggi non farebbe bene al governo».
La partita si sposta dunque sulla legge elettorale. Quale meccanismo può garantire meglio il formarsi della “grosse koalition” dopo il voto? Il “porcellum” no, perché rischierebbe di vincere addirittura Grillo (i suoi potrebbero essere comprati un tanto al chilo, una volta diventati parlamentari, ma non il risultato di un gigantesco pasticcio tra partiti minoritari e parlamentari comprati non potrebbe essere considerato, dall’Eouropa che conta, una “soluzione stabile” e sicura).
E allora ecco avanzare il premio di paggioranza per i partiti, invece che per le coalizioni. Finora se lo potrebbe agiudicare il Pd, che poi avrebbe modo di farsi affiancare da berlusconiani e casinisti (e anche qualche “comprato”, perché no). Ma anche questo esito è incerto. Da qui a marzo molta acqua e molta rabbia scorrerà sotto i ponti. Nesuno può garantire la “tenuta” del consenso sui livelli attuali. Soprattutto chi, a questo governo, sta garantendo la più ampia possibilità di massacro di redditi, diritti, rappresentanza.
A confema dell’analisi, riportiamo un “retroscena” di Francesco Verderami, sul Corriere della Sera.
E la grande coalizione tenta i leader. Trattative avanzate sulla legge elettoralePd e Pdl restano divisi sul nodo del premio di maggioranza. Berlusconi punta a un ruolo determinante
Se si fa, non si dice. Perciò è scontato che nel Pdl e (soprattutto) nel Pd venga fermamente smentita l’ipotesi di lavorare a una grande coalizione per il 2013. D’altronde non avrebbe senso parlarne prima delle elezioni, sarebbe come invalidare anzitempo la partita.
Ma la prospettiva che il montismo succeda a Mario Monti non è sfumata, anzi. Più va avanti l’esperienza del governo tecnico, più aumentano le probabilità che la «strana maggioranza» possa ricostituirsi in Parlamento dopo la contesa nelle urne. Al momento non ci sono prove ma solo indizi, ed è attraverso l’analisi delle trattative sulla legge elettorale che si possono raccogliere degli elementi. Ecco perché è importante la mediazione in corso tra Pdl, Pd e Udc sulla riforma del sistema di voto: la tattica che stanno adottando disvela infatti dettagli sulla loro strategia politica.
Lo stallo di questi giorni non inganni, è tipico di una vertenza che sta arrivando a conclusione, tanto che gli sherpa impegneranno il weekend per lavorarci sopra. Altrimenti i leader dei tre partiti non si direbbero convinti di poter raggiungere un’intesa già la prossima settimana, Alfano non la metterebbe in conto, Bersani non sosterrebbe che «ormai dovremmo esserci», e Cesa non si farebbe scappare di essere «molto ottimista». Non c’è dubbio che i nodi ancora da sciogliere sono determinanti per disegnare il futuro sistema politico, ed è proprio dietro quei nodi che si può scorgere l’ombra della grande coalizione.
Il braccio di ferro sul premio di maggioranza ne è l’emblema. C’è un motivo se il Pd preferirebbe assegnarlo alla coalizione vincente, mentre Pdl e Udc vorrebbero affidarlo al partito vincente. Ed è chiaro come mai Bersani spinga per un premio comunque alto (15%), mentre Alfano e Casini puntino a tenerlo basso (10%). «Il 15% per noi è inaccettabile, Pier Luigi», ha detto il segretario del Pdl al capo dei democrat durante il loro ultimo colloquio. «Abbassando la soglia, si prefigura l’instabilità», è stata la risposta: «E tu, Angelino, dovresti convenire che sarebbe meglio puntare sulle coalizioni e non sui partiti. Perché se non si organizzano i due campi in contesa e andiamo in ordine sparso, Grillo potrebbe spazzarci via tutti».
Ecco spiegata l’importanza della discussione «tecnica» sul premio di maggioranza, che disegna gli scenari «politici» del dopo-voto e lascia intuire il cambio di strategia in corsa del Pdl. A dire il vero non è la prima volta che Bersani – dopo aver incontrato Alfano – ha pensato di aver chiuso il patto, rimesso poi in discussione da un vertice a palazzo Grazioli. L’opzione delle preferenze, per esempio, sembrava ormai abbandonata. E invece il Pdl ha preso a spalleggiare l’Udc, convinto – come ha spiegato Casini – che «i candidati nei collegi danno l’idea di persone paracadutate sul territorio, mentre le preferenze consentono di contrastare meglio il grillismo». «Con le preferenze – ha obiettato Bersani – aumenterebbero le spese elettorali, si aprirebbe un varco pericoloso, ci sarebbe il rischio del malaffare e ci ritroveremmo con le inchieste della magistratura».
Ma il cuore della trattativa è il premio di maggioranza. È da lì che si intuisce come il «montismo berlusconiano» abbia preso piede. Altro che elezioni anticipate, il Cavaliere vuole mantenere un ruolo determinante in un sistema dove nessuno prenda il sopravvento. E la grande coalizione è lo strumento idoneo all’occorrenza. Di più, è Monti il suo asso nella manica nonostante le tensioni del Pdl con il governo. Il rapporto riservato e preferenziale tra l’attuale premier e il suo predecessore sfugge ai riflettori e alle dinamiche di Palazzo. E Berlusconi sarebbe pronto a sconfessare anche se stesso pur di non uscire dal centro del ring. Come ricorda il segretario del Pri, Nucara, «fu Berlusconi a indicare Monti come commissario europeo, a proporlo come governatore di Bankitalia, a tentarlo con il ministero dell’Economia, e soprattutto a lanciarlo come candidato al Quirinale prima che ci arrivasse Napolitano».
Puntando su Monti, inchioderebbe Casini e manderebbe gambe all’aria ogni manovra fin qui ipotizzata.La grande coalizione insomma è più di una suggestione. Ma per farla non bisogna dirla, e se del caso è necessario smentirla. Perciò il Cavaliere fece finta di prendere le distanze dal progetto «Tutti per l’Italia» che Giuliano Ferrara lanciò mesi fa sul Foglio . Era troppo presto. E ora che sul Giornale Vittorio Feltri evoca Indro Montanelli per scrivere che sarebbe meglio «turarsi il naso» e guidare «tutti insieme» il Paese, ecco comparire un altro indizio.
Perché non c’è dubbio che il fondatore del Pdl sia tornato a dettare l’agenda del partito, bloccando le primarie, facendo mostra di essere un allenatore che si allena per rientrare in campo. «Io rappresento tutte le anime del partito», ha detto l’altra sera davanti al suo gruppo dirigente.
E la storia che una svolta grancoalizionista possa indurre l’area degli ex An ad abbandonare il Pdl, non sta in piedi. Ci pensa La Russa a far giustizia delle voci circolate negli ultimi tempi: «Nessun tipo di riforma del sistema di voto su cui stiamo discutendo presuppone di per sé la grande coalizione. Certo, sarebbe per me e per molti di noi inaccettabile precostituire o addirittura dichiarare la grande coalizione come obiettivo. Se invece questa formula di governo venisse imposta per effetto del risultato elettorale, sarebbe un’altra cosa». Più chiaro di così.
Il «montismo berlusconiano» è ben incardinato nel centrodestra, il presidente del Senato Schifani non manca occasione nei suoi colloqui di ripetere che «l’emergenza dettata dalla crisi non cesserà purtroppo il giorno dopo le elezioni». L’idea della grande coalizione nel Pdl si alimenta anche dei segnali che giungono dal campo avverso. Pare che Berlusconi abbia letto più volte l’intervista rilasciata al Corriere da D’Alema e abbia avuto la sensazione che contenesse un messaggio subliminale.
Francesco Verderami
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