Nessun conflitto
Gaetano Azzariti
L’analisi economica del diritto ha definito scelte tragiche quelle scelte che devono essere assunte per garantire un diritto fondamentale, dovendo al tempo stesso sacrificare necessariamente un altro bene della vita ritenuto essenziale. Ed è certo tragica la scelta assunta dal Gip di interrompere la produzione della grande fabbrica di Taranto per salvaguardare il bene superiore della salute. In questi casi l’ambito d’interpretazione delle norme da parte dei giudici si estende inevitabilmente. Oltre al rispetto della legge da parte dei soggetti indagati, l’interprete deve considerare anche i diversi valori costituzionali in gioco e procedere a un loro bilanciamento. Nel caso di Taranto s’insiste nel contrapporre il lavoro alla salute: questi sarebbero i valori costituzionali in gioco. Il quadro in realtà è più complesso. Infatti, se è certo il danno alla salute, nonché – secondo la prospettazione della procura – la violazione delle leggi da parte degli indagati che sarebbero responsabili di reati gravissimi, più controversa è l’ipotizzata lesione del diritto al lavoro. In questo caso è certo il sacrificio arrecato con l’interruzione della produzione al terzo valore costituzionale in gioco: quello collegato all’iniziativa economica privata. Questa, scrive la nostra Costituzione, è libera, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo di arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Non è corretto – neppure sotto il profilo tecnico – confondere le tutele da apprestare al sistema produttivo con le maggiori garanzie che è necessario predisporre per rendere effettivo il diritto al lavoro, che viene collocato dalla Costituzione, non a caso, tra i principi fondamentali.È proprio la più intensa tutela costituzionale del lavoro che dovrebbe rendere meno drammatica la scelta di sacrificare la libera iniziativa economica quando questa offende il diritto alla salute. Capisco che in una logica di assolutismo neoliberista la chiusura di un’unità produttiva comporta la perdita del lavoro tout court, ma non è questa una politica compatibile con il nostro sistema costituzionale. Esso pretende, invece, che si apprestino misure adeguate per assicurare a tutti i lavoratori e alle loro famiglie un’esistenza libera e dignitosa (così l’articolo 36 della nostra Costituzione).
Di questo dovrebbe occuparsi il governo. Se non fossero sufficienti gli istituti previsti in via ordinaria per il sostegno all’occupazione, la straordinaria necessità e urgenza che si è venuta a creare dovrebbe indurre i responsabili politici ad un intervento immediato, non solo per garantire il recupero del sito industriale, ma anche espressamente a tutela dell’occupazione (oppure si crede che i decreti legge servono solo per risanare le finanze e i conti dello Stato?). Il parlamento, convocato d’urgenza, potrebbe approvare una legge-provvedimento di sostegno ai lavoratori dell’Ilva e delle fabbriche collegate, misure che proprio la tradizione giuridica ha indicato come legittime in analoghe situazioni (oppure si ritiene che normative ad hoc siano possibili solo per introdurre privilegi, che la Consulta poi s’incarica di dichiarare incompatibili per irragionevole violazione del principio d’eguaglianza?).
Il ministro Passera rivendica giustamente al governo la responsabilità della politica industriale. Proprio per questo ritengo spetti principalmente al governo intervenire. Nell’immediato con provvedimenti d’urgenza, per impedire si vengano a produrre quei “danni irreparabili” sull’occupazione che sarebbero determinati, non dalla chiusura dello stabilimento (che è solo la “causa scatenante”), ma per l’inerzia del governo e della politica (ai quali spetta fornire le “risposte di sistema”). Non meno rilevante però è la capacità del governo di fornire una prospettiva per il futuro, ripensando le politiche industriali fin qui perseguite, che hanno quantomeno tollerato una situazione di degrado industriale, con grave sottovalutazione dei principi di salvaguardia della salute dei cittadini e della dignità del lavoro. Sarebbe il caso di imparare dalla tragica scelta di Taranto per pensare a una riconversione del nostro complessivo modello di sviluppo. Certo bisognerebbe avere un po’ di fantasia e di coraggio, uscire dalle gabbie dell’ideologia neoliberista dominante, mettere in discussione qualche certezza. Avremmo bisogno di un governo politico con ampie competenze tecniche. Non è pane per i nostri giorni poveri.Ciò non toglie che – almeno – al governo dei tecnici e ai partiti politici si debba chiedere di valutare con rigore le compatibilità costituzionali coinvolte nella vicenda dell’Ilva. La strategia odierna sembra essere a difesa delle ragioni dell’impresa: un po’ di risanamento per ridurre le percentuali dei morti da inquinamento, qualche sforzo per evitare i licenziamenti facendo proseguire la produzione in situazione di pericolo per la salute. Strategia miope perseguita però con insolito vigore. «Le iniziative del gip non tengono conto delle iniziative in corso da parte del ministero e delle altre amministrazioni, ed anzi intervengono in questo processo in modo conflittuale», protesta il ministro Clini. Ci mancherebbe solo che i giudici limitassero i poteri giurisdizionali perché non sono in sintonia con gli obiettivi del governo o delle maggioranze politiche. Potrebbe anche ritenersi una scelta (tragica) sbagliata quella del gip, ma non vedo francamente un conflitto tra poteri. Saranno le ordinarie vie processuali a valutare nel merito la corretta interpretazione di diritto effettuata nell’esercizio delle proprie funzioni dai giudici.Non è chiaro neppure lo scopo dell’invio a Taranto dei ministri competenti per verificare non meglio precisate misure d’intervento, cui si aggiunge la richiesta del ministro di giustizia di acquisizione degli atti per poterli valutare. Entrambi gli interventi possono essere diversamente intesi. Se fossero azioni dirette all’adozione di misure di contrasto (dal conflitto tra poteri a misure di altro genere) sarebbero assai criticabili e poco giustificate. Se invece dovessero rappresentare un modo per collaborare nell’individuazione delle non facili soluzioni, sarebbero opportune.Il modo migliore di procedere in questa grave situazione sarebbe la leale collaborazione tra le istituzioni coinvolte. Non lasciate sola la signora Patrizia Todisco (questo il nome del gip di Taranto) nella sua tragica scelta, poiché ci coinvolge tutti. Dovrebbe essere chiaro l’obiettivo di tutti i soggetti responsabili: ricercare una consonanza tra la salute, il lavoro e una libera iniziativa economica che non arrechi danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Magari sacrificando un’impresa insalubre, disumana, dannosa.
da “il manifesto”
Il giudice e la fabbrica
LUCIANO GALLINO
Una funzione essenziale delle leggi consiste nell’impedire che il più forte abbia la meglio sul più debole. I giudici di Taranto nel caso Ilva, e di Roma nel caso Pomigliano, hanno dato corpo a tale funzione.Nel caso di Taranto sembra accertato che la parte più forte, la proprietà dello stabilimento, abbia permesso che esso infliggesse da anni alla parte più debole, i lavoratori del sito insieme con l’intera popolazione della città, un tasso di inquinamento che i periti della Procura hanno ritenuto letalmente elevato.
Nel caso di Pomigliano è comprovato, stando alla sentenza della Corte d’appello, che la Fiat abbia proceduto ad assunzioni discriminatorie, applicando il singolare principio per cui un’impresa assume soltanto quei lavoratori che abbiano in tasca una tessera sindacale ad essa gradita, o meglio nessuna.
Adesso ambedue le vicende sono giunte a un punto critico. I giudici di Taranto hanno disposto il blocco dell’attività produttiva sino a quando l’impianto non sia dotato di tecnologie antiinquinamento adeguate.
Non si vede come avrebbero potuto decidere altrimenti. Un impianto siderurgico integrato tipo quello tarantino presenta due caratteristiche: tutti i suoi componenti, dal reparto sinterizzazione sino ai treni di laminazione, sono fortemente inquinanti; al tempo stesso non si può fermarne uno per metterlo a norma perché in un ciclo integrato fermare un componente significa bloccare tutti gli altri. Ma se si ferma tutto il sito circa 15.000 operai, tra diretti e indiretti, rischiano di restare senza lavoro.
A Pomigliano quel che può succedere è che la Fiat metta in cassa integrazione un numero di nuovi assunti più o meno corrispondente agli iscritti alla Fiom che dovrebbe riassumere, visto che per gli attuali volumi produttivi, essa dice, gli addetti attuali sono più che sufficienti. In ambedue i casi, siamo da capo: la tutela della legge che i giudici hanno offerto ai più deboli rischia di essere vanificata. Non si è qui dinanzi soltanto alle responsabilità del più forte, per quanto queste siano grandi.
Nessuna delle due vicende sarebbe arrivata al punto in cui è oggi se i governi che si sono succeduti negli ultimi anni; i ministeri competenti, in specie quelli dell’Ambiente e dello Sviluppo (o dell’Industria, come si chiamava un tempo); nonché i partiti ieri contrapposti e oggi alleati nel sostenere il governo cosiddetto dei tecnici, non avessero dato in qualche modo un aiuto alle società coinvolte per aver mano libera o quasi nei loro siti produttivi. Che l’impianto di Taranto inquinasse dentro e fuori dei suoi cancelli era risaputo da anni.
Senza risalire troppo indietro, basterà ricordare che l’Arpa della Puglia aveva trasmesso al ministero dell’Ambiente, nei primi mesi del 2008, un documentato rapporto circa i rischi derivanti dalla diffusione di sostanze vele- nose provenienti dall’impianto in questione. Tuttavia una lettera del ministero all’Arpa in data 8 agosto 2008 affermava seccamente che le rilevazioni effettuate a cura dell’agenzia non potevano essere ritenute valide. Non proprio una licenza di inquinare, ma in ogni caso un efficace contributo per perdere altri anni prima di intervenire.Quanto a Pomigliano, è probabile che la Fiat non avrebbe osato attuare le sue pratiche discriminatorie se le cosiddette riforme del lavoro susseguitesi sin dai primi anni 2000, le posizioni dei partiti ancorché definitisi di centro-sinistra, più tambureggianti campagne mediatiche, non avessero fatto tutto il possibile per spingere in un angolo la Cgil e la Fiom come rappresentanti di un sindacato capace ancora di dire no, almeno ogni tanto, alle richieste sempre più intrusive dei diritti dei lavoratori avanzate dalle imprese.
Sarebbe inaudito veder buttare fuori dalla fabbrica tanti operai quanti l’azienda deve riassumerne in forza della sentenza di appello. In gioco qui non è tanto il destino dei singoli, quanto un principio basilare della democrazia industriale.Mentre a Taranto si tratta soprattutto di salvare il lavoro di migliaia di operai, davanti una disposizione dei giudici che a fronte delle responsabilità grandissime delle imprese e dei politici appare doverosa prima ancora che pienamente giustificata. Per farlo occorrono non soltanto soldi, che oltre allo stato la proprietà dovrebbe tirare fuori anche di tasca propria a fronte degli utili degli ultimi anni (le stime parlano di miliardi), ma anche invenzioni organizzative. Come, ad esempio, adibire gran parte dei lavoratori stessi ai lavori di ristrutturazione ambientale dello stabilimento.
Nessuno conosce quell’impianto meglio di chi ci lavora; e molte professionalità potrebbero essere utilizzate nei lavori di ristrutturazione con un periodo relativamente breve di formazione. Su questo punto non è ammesso dire che non è possibile, prima ancora di approfondire la questione. Quel che non sembrava possibile, consentire all’impianto tarantino di avvelenare insieme i suoi addetti e la popolazione, lo stato e i suoi ministeri lo hanno già fatto. Ora hanno il dovere di imboccare al più presto la strada opposta, quella di un’opera di risanamento che non fa pagare il prezzo per una seconda volta ai lavoratori e alla città.
da Repubblica
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