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Che succede al manifesto? Terza puntata

La falsificazione della Storia è un processo ideologico complesso, ma inesorabile. Può avvenire per consapevole scelta dell’accademia o dei media, delle correnti di pensiero egemoni in un certo periodo; o anche nella rielaborazione del ricordo. Persino in testimoni diretti dei fatti che narrano, e che ci si aspetta – ingenuamente – dicano la verità.
In un solo giorno, su un giornale peraltro ormai semi-dimentico della sua grande cifra culturale (stiamo parlando della «media» dei redattori attuali, non delle firme storiche, che ovviamente non hanno dimenticato alcunché), sono apparsi due luoghi comuni che nessuno si cura più di confutare. Il primo, di storia economica e quindi politica, riguarda le ragioni della caduta della repubblica di Weimar, nella Germania anni ‘30, e quindi l’avvento del nazismo.

Su il manifesto di sabato 6 settembre, Joseph Halevi demolisce giustamente la vulgata per cui Weimar sarebbe implosa sotto i colpi della «super-inflazione», da cui deriverebbe la fobia tedesca per la spesa pubblica in deficit. È addirittura il contrario: sono state le politiche deflattive con cui i governi di Weimar hanno reagito alla crisi del 1929 a scatenare la povertà di massa e dare la spinta decisiva a un movimento nazista fin lì contenuto dentro limiti non preoccupanti.
Come sempre, la conoscenza dei precedenti storici dovrebbe aiutare a prendere decisioni più sensate; ma se il common sense è un rovesciamento della realtà, verranno di conseguenza prese le decisioni più sbagliate, ma col consenso o il silenzio generale.
Nella Germania di Weimar, in piena super-inflazione scatenata dalla necessità di “rimborsare i crediti di guerra” imposti da Usa-Inghilterra-Francia, si scatenarono decine di unsurrezioni popolari, tutte represse nel sangue a causa della assoluta mancanza di unità politica e operativa della sinistra rivoluzionaria. I “macellai” di Noske (socialdemocratico, non nazista) spianarono la sinistra e il movimento operaio armi alla mano. Poi, a completare l’opera, in piena deflazione (innescata dalle politiche di “rigore” con cui la Germania “centrista” reagì alla crisi del 1929), arrivarono i nazisti.
Basta riaprire un manuale di storia, anche scolastico. O aver studiato un po’.

La sciatteria redazionale, però, ha portato a inserire questo articolo senza nemmeno “passarlo”, ovvero senza il normale editing per eliminare i refusi. Ci siamo incaricati noi di “pulirlo” in modo da non far soffrire troppo almeno il nostro lettore.

Solo Marte ci salverà
Joseph Halevi
Le dichiarazioni del primo ministro greco Samaras al quotidiano economico tedesco Handelsblatt, che per dicembre prevede il precipitare della Grecia nel baratro che inghiottì la repubblica di Weimar, hanno impressionato i siti dei maggiori giornali italiani.

Ma non c’è da stupirsi delle parole del premier greco. Solo gli zeloti dell’austerità potevano credere che il varo del pacchetto della troika e l’accettazione, da parte del governo Pasok e poi di quello di Samaras, di terrificanti tagli alle pensioni, agli ospedali, alle scuole, agli stipendi, avrebbe potuto salvare il paese.
A luglio le stime riguardo ulteriori decurtazioni erano di 11,5 miliardi di euro, ad agosto si parlava già di 13,5 miliardi, mentre ora i tagli richiesti per usufruire della tranche del pacchetto della Troika sono arrivati a 20 miliardi. Non si tratta della scoperta di nuovi deficit, bensì della voragine nel bilancio causata dal crollo dei redditi, e quindi del gettito fiscale a seguito dell’austerità attuata fino a oggi. Spagna, Portogallo, Grecia e Italia mostrano che non si esce dal debito (pubblico) imponendo politiche restrittive.

Fra breve la Francia cadrà sotto la mannaia di Hollande e confermerà quanto sopra, a meno che non ci sia una grande ripresa altrove: è improbabile però che avvenga negli Usa e che la Cina ripeta l’exploit del 2009. Quindi dovrà avvenire su Marte che, sebbene disabitato, domanderà tanti di quei prodotti dalla Terra da riattivare anche l’eurozona la cui crisi globale sta lambendo ormai Germania. La situazione è talmente grave che è da auspicare qualsiasi spesa, purché sia una spesa effettiva, anche la costruzione di una strada o di un ponte che non verranno mai utilizzati.

Sulla fine della repubblica di Weimar circola una leggenda metropolitana alimentata alacremente dai politici tedeschi col consenziente silenzio di quelli del resto dell’Europa. La crisi di Weimar e l’ascesa al potere dei nazisti sarebbe dovuta all’iperinflazione che colpì la Germania dopo la prima guerra mondiale. Ma l’inflazione avvenne nei primi anni venti. Furono la deflazione e la disoccupazione della Grande Depressione del decennio successivo, non l’inflazione, a uccidere la Repubblica di Weimar. Così come oggi l’austerità e la conseguente deflazione stanno travolgendo le popolazioni europee.

Il secondo caso è addirittura più clamoroso. E risulta sconcertante che il manifesto non abbia trovato necessario indicare che i ricordi di Shlomo Venezia, uno dei sopravvissuti alla Shoah, sono in alcuni passaggi facilmente equivocabili. Soprattutto quando in qualche maniera attribuisce la scoperta del campo di sterminio di Auschwitz e la liberazione dei prigionieri sopravvissuti agli americani. Attribuzione che si ritrova pari pari anche ne La vita è bella di Benigni.
Shlomo è morto da pochi giorni e non c’è da dubitare che abbia a lungo rielaborato i suoi ricordi vivendo in questa parte del mondo, ovvero in un contesto materiale e culturale entro cui il “socialismo reale” sovietico, specie nella versione post-bellica, ha assunto progressivamente i panni di un disvalore incapace di alcunché di positivo. La confusione tra luoghi, nazionalità delle truppe, in un racconto a “flusso di coscienza”, è nelle pieghe stesse delle parole. Tra tragedie dell’esperienza personale e grandi dinamiche della Storia; non lo è invece per tutti coloro che certo sanno come sono andate le cose.

Banalmente, Shlomo Venezia ha raccontato la sua personale liberazione quando ormai si trovava in Austria, dopo giorni e giorni di viaggio. Mentre Auschwitz è in Polonia, nei pressi di un altro lager dell’Europa moderna, la Fiat di Tichy.
Che significa? Che il lager di Shlomo fu effettivamente liberato dagli americani, ma Auschwitz venne scoperta dai sovietici, il 27 gennaio del 1945, in quello che poi divenne “il giorno della memoria”. Presentare e titolare questo racconto senza distinguere tra il punto di partenza e quello d’arrivo, tra una liberazione e l’altra, fa sembrare che tutta l’epopea della liberazione dal nazifascismo sia stata opera dei soli statunitensi. E ci sembra addirittura offensivo che “la memoria” venga tradita fino a questo punto. Sul manifesto, poi…
Alleghiamo quindi in fondo al racconto di Shlomo, curato da Portelli, due pagine tratte da un famoso libro scritto da un famosissimo sopravvissuto di Auschwitz: Primo Levi. Parole toccanti, sia quelle di Levi che di Venezia; spesso simili perché comune è stata l’esperienza e la sofferenza inumana.

Auschwitz. Fino alla liberazione
Shlomo Venezia, sopravvissuto alla Shoah, per tutta la vita non ha mai smesso di testimoniare la sua storia e la sua vita nei campi di concentramento nazisti. Questo è il racconto ai ragazzi di una scuola romana dei suoi ultimi giorni di prigionia

Era il 17 gennaio del ’45, quando vedo un gruppo immenso, saranno state almeno diecimila persone, e uno mi dice in tedesco che stanno evacuando il campo. Il tedesco ci ha detto di non uscire dalla baracca e il nostro pensiero era che se rimanevamo nella baracca ci avrebbero preso, eravamo rimasti in pochissimi, e ci avrebbero ucciso. Allora quando il tedesco si è allontanato siamo usciti dalla baracca e ci siamo mischiati insieme a quelli che stavano uscendo dal campo e da lì siamo arrivati qui ad Auschwitz.
Erano già pronti per evacuare anche loro il campo e infatti la mattina dopo verso le cinque ci siamo riuniti tutti assieme e abbiamo cominciato a fare la famosa marcia della morte. Marcia della morte per quale motivo? Perché le persone che non avevano la forza di seguire il gruppo rimanevano indietro e non c’era verso di aiutarli, cascavano per terra, un colpo alla nuca e li buttavano come le bestie ai lati della strada. Si dormiva dentro alle aie dei contadini e sempre con le sentinelle attorno, e così abbiamo fatto dodici o quattordici giorni, non ricordo con precisione, a piedi, poi con quei carri aperti dove portano il carbone.

C’erano già i russi e gli americani a bombardare le linee ferroviarie e allora di nuovo ci facevano scendere e camminare. Una sera ci hanno messi da un contadino, in un campo grande, come gli animali, ma faceva freddo e immaginate a gennaio con quella robettina che avevamo addosso. Anzi, noi avevamo delle cose un po’ migliori perché le trovavamo in mezzo alla roba di quelle persone che poi venivano uccise, però eri sempre nel freddo. E allora quello che era stanco morto si addormentava per terra ed un altro vicino a lui, sopra di lui e si facevano delle cataste di persone per tenersi un po’ più caldi. Quello che stava sotto la mattina era già morto, moriva ancora prima di mettersi là.

La mattina ci siamo svegliati e abbiamo cominciato a camminare e pensavamo che ad un certo momento ci avrebbro lasciati soli – «andate dove volete» – perché non ci potevano più uccidere, avevano paura di lasciare i segni dei morti dei civili, non potevano più ammazzare come facevano prima. Tutti camminavano sui binari del treno, tutti quanti camminavamo con la testa bassa e guardavamo se trovavamo qualche cosa, qualsiasi cosa; io ho trovato un pezzettino così, lungo, l’ho pulito era sporco, duro, era un pezzetto di osso però faceva bene anche quello, cercare di masticare, rosicchiare in qualche maniera.

Siamo andati avanti. Poi ci mettono su delle chiatte, sul Danubio, stavamo già fuori dalla Polonia e per la prima volta ci hanno dato un pasto caldo, un po’ di brodaglia. Ad un certo momento attraversiamo un ponte quando vedo la scritta «Linz», e allora ho capito che stavamo in Austria. Da Linz ancora la marcia della morte che non finiva più, e ci hanno portato nel campo di Mauthausen. Avevamo paura di scendere perché anche lì c’erano le docce, il crematorio, e avevamo paura di andare a fare la doccia. Quando, arrivata la sera, hanno chiuso le porte e non si poteva più entrare, abbiamo fatto la nottata fuori e la mattina siamo stati costretti ad entrare dentro. E difatti ci hanno fatto la stessa cosa che ci avevano fatto a Birkenau, la rasatura completa del corpo, e invece del numero tatuato ci hanno dato una piastrina di metallo con un piccolo filo di ferro da mettere al braccio. Il mio numero è 115554.
E mentre stavamo là, nudo e bagnato com’eri, dovevi salire sopra all’aperto in questo vialone con la neve fuori. Ci hanno portati in una baracca che sta alla fine del campo e in questa baracca non c’era niente, vuota. L’unica cosa che c’era di buono è che tutti i vetri erano sani, per terra c’era linoleum, e lì abbiamo dormito come le sardine messi di fianco perché non c’era posto per tutti, e così è passata la notte.
Poi sono stato mandato in un altro posto che si chiama Merche, era una ditta privata, ti facevano lavorare dentro alle montagne per fare tunnel. Io scavavo, dentro, con questi martelli pneumatici, e lì stavamo discretamente, stavamo caldi, dove c’è terra è sempre caldo in profondità. Ci portavano da mangiare, era pochissimo ma c’era tutti i giorni e questo ci consolava.

Dopo un po’ di tempo, ci hanno spostato da questo campo e ci hanno portato all’ultimo, sempre in Austria. Anche qui facevo dei tunnel ma la differenza era che questa montagna era tutta di roccia e dove c’è roccia c’è sempre acqua e si entrava dentro e mettevamo anche la dinamite per far esplodere la roccia e poi c’era dei piccoli binari con le famose vagonette piccole, scaricare quel peso, quasi non era niente in confronto al passato di Birkenau, però la cosa brutta era che quando entravi là dentro uscivi fuori che eri zuppo dalla testa ai piedi. Quando rientravi nella baracca non c’era possibilità di farti asciugare, levartelo da dosso era impossibile perché come te lo levavi spariva subito perché quello che te lo rubava il giorno dopo lo commerciava con un pezzo di pane.Sono stato fortunato anche in questo posto che dopo una decina di giorni di questo massacro gli americani hanno cominciato a bombardare là vicino, bombardato una stanzioncina, E allora i tedeschi ci hanno preso a noi per lavorare in questo posto per ripulire il tutto, e difatti ci portavano con il treno e prima di entrare in stazione si fermava perché era tutto bombardato e scendevamo.
Come siamo spuntati fuori abbiamo visto un pezzetto di terreno coltivato a colza. Sapete che cos’è la colza? E’ una piantina che fa dei fiorellini gialli e con questa colza si fa l’olio, non lo sapevo neanche però pur di mettere qualcosa in bocca abbiamo tagliato l’erba e tutti i giorni si vedeva che a questo campetto spariva un pezzo, allora lì dopo si metteva il tedesco con il fucile e si avvicinava e ti venivava una botta sulla spalla e allora non si poteva fare più niente. Fino a che non è arrivata la fine.
Quattro giorni prima della Liberazione non sapevamo niente, vedevamo questi camion militari ma non si vedeva se erano tedeschi in ritirata o gli americani. Difatti all’appello, quattro giorni prima, il comandante del campo chiama a tutti questi interpreti che c’erano là – eravamo più di venticinque nazionalità di tutti i colori, greci, italiani, tedeschi, cecoslovacchi – e il comandante diceva che tutti dovevamo entrare dentro la galleria perché «stanno arrivando i loro nemici, e loro, i tedeschi, daranno battaglia per la nostra incolumità».
Poi ha raccolto tutti i suoi militari e al loro posto sono venuti altri soldati della Wehrmacht e hanno preso posto nelle garrite in attesa degli americani, però le SS sono sparite. Noi aspettavamo sempre il momento giusto che arrivassero gli americani e invece di arrivare dopo sei sette ore sono arrivati dopo quattro giorni. E noi là dentro non sapevamo cosa fare, senza mangiare, abbiamo rastrellato tutta la cucina, le patate. E non era rimasto più niente.

Questo arrivo degli americani è successo come nel film di Benigni quando un bambino vede entrare quel carro armato e lì so’ arrivati due carri armati degli americani e fatalità vuole che il primo carro armato c’erano tutti italoamericani, e parlavano siciliano, e pensavano che potevamo capire quello che dicevano; il secondo era di greci americani e quelli parlavano il greco, e io parlavo il greco come l’italiano, e ci dissero di stare tranquilli perché loro volevano dare la caccia ai tedeschi, e questa è stata la nostra consolazione.
Però il giorno dopo sono arrivati dei camion con dei viveri, il che è stato un grandissimo sbaglio perché le persone non erano più abituate a mangiare, queste scatolette di carne di maiale oppure altre cose, e c’erano dei ragazzi che non ce la facevano più e come vedevano un qualcosa neanche masticavano, ingoiavano tutto quello che vedevano e non potevano neanche andare di corpo, e si gonfiavano come neanche potete immaginare ed era una mattanza di questi pochi prigionieri che si erano salvati ma poi sono morti nel giro di pochi giorni.
Quando si lavorava nella miniera di carbone, c’è un carbone che si chiama cardifo è come una specie di legno, e dentro c’era un qualcosa di morbido, e la gente lo mangiava, e dopo non potevano più andare di corpo. E voi siete tutti maggiorenni e vi posso dire che queste persone che avevano mangiato questo era tutto bruciato dentro e non c’era nulla da fare.
Poi c’era di tutto, c’era il tifo petecchiale e gli americani hanno fatto una pulizia generale, hanno costruito un altro campo con delle tende americane e dentro c’erano anche i lettini per dormire e si faceva la doccia, completamente nudi, loro poi ti davano della roba, e dopo una spruzzata di Ddt, eravamo tutti impolverati, e poi venivi subito visitato così se eri malato o meno. C’avevano questo qua per fare i raggi x e purtroppo a me hanno scoperto che io stavo male e mi hanno mandato all’ospedaletto e difatti quando so’ arrivato lì dentro a vedere quei lettini con le lenzuola bianche dava pure fastidio a vedere una così pulita.
Sono stato circa un mese e poi chi voleva andare doveva dire dove voleva andare. e allora io volevo andare in Italia. Mi hanno portato al Forlanini e lì sono stato tredici mesi, e dopo sono andato a finire a Merano che era più adatto per l’aria e ho fatto quasi sei anni di ospedale.

Adesso sto in vita per raccontare ciò che è accaduto e che abbiamo sofferto tutti noi. Molti dicono, «come avete fatto?». Si vede che qualcuno ci spinge ancora ad insistere e tiriamo avanti finché si può…Io vi ringrazio.

*** Shlomo Venezia, nato il 29 dicembre 1923 a Salonicco, in Grecia, fu uno dei sopravvissuti al campo di Auschwitz e Birkenau. Autore del libro «SonderKommando 182727», tradotto in 24 lingue, è morto a Roma all’età di 88 anni, il 30 settembre

La liberazione di Auschwitz
da Se questo è un uomo di Primo Levi

La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Sómogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti.

Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi.

A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo.

Ci pareva, e così era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo. Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.

Così per noi anche l’ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti.
Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa, che dilaga come un contagio. È stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia.

Queste cose, allora mal distinte, e avvertite dai più solo come una improvvisa ondata di fatica mortale, accompagnarono per noi la gioia della liberazione. Perciò pochi fra noi corsero incontro ai salvatori, pochi caddero in preghiera. Charles ed io sostammo in piedi presso la buca ricolma di membra livide, mentre altri abbattevano il reticolato; poi rientrammo con la barella vuota, a portare la notizia ai compagni.

* Un ringraziamento ai nostri lettori più attenti, che ci hanno aiutato a rettificare gli errori che anche noi, per l”indignazione, stavamo commettendo.

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2 Commenti


  • carla marinucci

    non sbagliate anche voi: la citazione di primo levi è tratta da “se questo é un uomo” ed é l’ultima pagina del libro. per il resto sono completamente d’accordo sulla rimozione e l’alterazione della storia.


  • Big

    Scusate, ma Shlomo Venezia parla di americani arrivati nel campo in cui lavorava in Austria, non ad Auschwitz, da cui dice di essere andato via molti giorni prima della liberazione. Oppure ho interpretato male il suo racconto?

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