Il quandro attuale dell’Ilva, per come esce dagli atti dell’inchiesta, è davvero desolante. “Il patron del decimo gruppo siderurgico al mondo è irrintracciabile, la cassa sembra vuota, l’azienda mette ‘in libertà’ 5 mila operai minacciando la chiusura immediata”.
Per quanto riguarda le notizie sulla vasta rete di complicità retribuite – dai politici anazionali a quelli locali, dai sindacalisti ai giornalisti e perfino al parroco – possiamo stamattina lasciare tranquillamente spazio a un paio di giornali che in fatto di rapporti stretti con la magistratura stanno messi decisamente bene.
Riva jr in fuga a Miami. La Procura a caccia del tesoro nascosto all’estero
I profitti dell’acciaio sui conti off shore
CARLO BONINI – GIULIANO FOSCHINI
TARANTO — Dall’alba di lunedì, i militari della Guardia di Finanza lo hanno cercato ovunque. Ma sapevano già che non l’avrebbero trovato. Né in casa a Milano. Né altrove in Italia. Fabio Riva, uno dei figli del patron, l’uomo che al telefono declassava a “minchiata” «un paio di tumori in più» per i veleni della sua fabbrica, è fuggito a Miami, negli Stati Uniti. Indeciso – riferiscono in queste ore qualificate fonti investigative tra una lunga latitanza caraibica in quel di Santo Domingo, Repubblica Dominicana, Paese che non riconosce l’estradizione per reati come quelli di cui è accusato (l’associazione per delinquere), e un ritorno “negoziato” in un paese dell’Unione Europea, come vorrebbero i suoi avvocati e come sarà possibile verificare nelle prossime ore. Lo avevano “perso” due settimane fa, quando all’improvviso aveva lasciato l’Italia diretto in nord Africa. Forse (il sospetto esiste) perché avvisato da qualcuno dei tanti amici che qualcosa bolliva nella pentola dell’inchiesta della Procura di Taranto.
CONTI IN LUSSEMBURGO E NELLA MANICA
Una lunga latitanza, del resto, qualora fosse questa la scelta, non sembra un problema per Fabio Riva. Per le importanti dispo nibilità all’estero della famiglia e perché la Finanza ne è convinta con Emilio e Nicola detenuti, Fabio è il solo che, in questo momento, può manovrare da libero le leve e i conti della holding di famiglia, la “Riva F.I.R.E. spa”, di cui è vicepresidente e su cui, solo negli ultimi quattro anni, sono stati trasferiti, come ha documentato l’Espresso un mese fa, oltre 200 milioni di euro di profitti dell’Ilva. Le indagini della Finanza hanno individuato nelle ultime settimane nel Lussem burgo e nelle isole del Canale della Manica (Jersey e Guernsey) le due piazze finanziarie off-shore su cui sarebbero depositati buona parte dei capitali trasferiti all’estero dai Riva. E la ricerca, ora, si è fatta in qualche modo ancora più frenetica perché la speranza è di arrivare a quel denaro, che ieri i Verdi hanno chiesto pubblicamente di aggredire con «provvedimenti di sequestro cautelativo in grado di sostenere i costi della bonifica», prima che ci arrivi l’ultimo dei Riva ancora libero. Anche se, evidentemente, i tempi delle rogatorie non sono quelli di chi di quei conti è titolare.
I SEGRETI DELL’AIA FIRMATA DA CLINI
Le provviste estere della famiglia Riva sono solo uno dei tanti e cruciali tasselli di un mosaico investigativo che intorno alle responsabilità dei proprietari dello stabilimento Ilva sta cercando di ricostruire nella sua completezza e nel suo doppio livello, locale e nazionale, la rete di complicità e scambi che ha consentito in 17 anni di massimizzare i profitti (2 miliardi e mezzo di euro sono stati gli utili tra il 2008 e il 2011) sulla pelle di una città intera. Non a caso, proprio ieri, la Finanza ha acquisito a Bari e a Roma una serie di documenti relativi all’Autorizzazione Integrata Ambientale del 4 agosto 2011 (la penultima in ordine di tempo) con cui il ministero dell’Ambiente di un governo Berlusconi ormai agonizzante (ma il cui diretto generale era l’attuale ministro Clini, che ha sostituito la Prestigiacomo, ndr) consentì allo stabilimento di proseguire la sua produzione inquinante. Un documento con un immediata ricaduta politica, perché firmato, insieme al ministro Prestigiacomo, dall’allora direttore generale del dicastero e oggi ministro Corrado Clini. E ora svelato dalle intercettazioni telefoniche di un anno intero (il 2010) come null’altro che un abito sartoriale cucito dai Riva sul proprio conto-economico costi-benefici.
LE PRESSIONI SUL MINISTERO
In un’informativa al gip Patrizia Todisco, la Procura di Taranto scrive: «Dalle intercettazioni emerge come anche al livello ministeriale fervevano i contatti non proprio istituzionali per ammorbidire alcuni componenti della Commissione incaricata di istruire l’Aia 2011. Il fatto che la Commissione debba essere pilotata e che comunque sia stata in qualche modo avvicinata, si rileva anche da una conversazione in cui l’avvocato Perli di Milano, legale esterno dell’Ilva, aggiorna Fabio Riva dei rapporti avuti con l’avvocato Luigi Pelaggi (capo dipartimento del Ministero dell’Ambiente). Da quanto riferisce Perli, si rileva che Pelaggi abbia dato precise disposizioni all’ingegner Dario Ticali, presidente della Commissione, su come procedere». A Roma, dunque, il ministero dell’Ambiente è cosa dei Riva. Come del resto, sembra assicurare proprio il loro uomo, l’avvocato Perli: «Pelaggi mi ha riferito che la Commissione ha accettato il 90 per cento delle nostre osservazioni e la visita allo stabilimento riguarda solo il 10 per cento. Non avremo sorprese». Uno scherzo, insomma .
DON MARCO PIÙ 4
Nell’indagine, naturalmente, frullano anche figure del teatro locale. È di ieri la conferma dell’iscrizione al registro degli indagati di 5 persone tra cui don Marco Gerardo, il distratto segretario dell’ex Arcivescovo di Taranto che metteva al pizzo i contanti che arrivavano dalla cassa dell’Ilva come “opere di bene” salvo, di fronte ai pm, confondersi con la memoria su date e incontri. Con lui, iscritti anche il sindaco di Taranto Ippazio Stefano, e un ispettore della Digos che aggiornava Archinà, responsabile delle relazioni esterne dell’Ilva, del calendario interrogatori in Procura.
da Repubblica
Riva, “sparita” la cassa dell’impero . Patto politici-stampa-sindacalisti
Antonio Massari e Francesco Casula
A 48 ore dall’ordine di arresto e dagli ultimi spostamenti a Miami, di Fabio Riva, non c’è ancora traccia. Tracciati i conti del gruppo Riva, invece, la Guardia di Finanza scopre dell’altro: non c’è la liquidità che gli investigatori immaginavano. Eppure gli utili sono sempre stati alti: 2 miliardi di euro negli ultimi dieci anni, 2,8 miliardi a partire dal 1995, per il gruppo dell’acciaio con sedi in Lussemburgo. L’istantanea – in attesa che Fabio Riva rientri come sostengono i suoi legali – mostra una scena desolante: il patron del decimo gruppo siderurgico al mondo è irrintracciabile, la cassa sembra vuota, l’azienda mette “in libertà” 5 mila operai minacciando la chiusura immediata. È questo il volto del capitalismo industriale italiano, mostrato dai risvolti dell’inchiesta svolta dalla procura di Taranto, ed è questo l’interlocutore privilegiato della politica regionale e nazionale, da Pierluigi Bersani a Nichi Vendola, passando per Silvio Berlusconi e i sindacati, per finire alla Chiesa e alla stampa locale.
Sindaco e parroco
Gli ultimi due nomi iscritti nel registro degli indagati sono quelli di Ippazio Stefàno e don Marco Gerardo, sindaco e parroco, nella città di Taranto. Il primo cittadino, con tessera Sel, è indagato per omissione in atti d’ufficio, in merito alle prescrizioni previste a tutela dell’ambiente. Si tratta di un atto dovuto, dopo la denuncia di un consigliere comunale, con Stefano che respinge le accuse e si dice tranquillo. Don Marco Gerardo è il segretario particolare del vescovo, monsignor LuigiBenigno Papa, ed è invece accusato di aver mentito ai pm: gli investigatori della Guardia di Finanza lo hanno interrogato, per risalire a percorso dei 10mila euro prelevati da Girolamo Archinà – responsabile dell’Ilva per le relazioni istituzionali – e finiti, secondo gli atti, nelle mani dell’ex consulente della procura, Lorenzo Liberti, accusato d’aver intascato una mazzetta. Archinà sostiene che quei soldi fossero una donazione per l’ex vescovo di Taranto, don Marco Gerardo ha confermato la ricostruzione agli inquirenti, spiegando di averlo saputo dall’ex vescovo che a sua volta, però, lo ha smentito.
Clini e l’indagine sull’Aia
Tornando al livello nazionale dell’inchiesta, di certo c’è un altro punto, che assume risvolti interessanti per lo stesso governo Monti: la procura sta indagando sull’Aia (Autorizzazione in tegrata ambientale) del 2011, firmata dall’ex mi nistro Stefania Prestigiacomo, quando direttore generale del ministero era l’attuale ministro Corrado Clini. Ieri la GdF ha sequestrato gli atti al ministero. Gli emissari del gruppo Riva pre mevano sui funzionari del ministero, minac ciando di far “saltare la Prestigiacomo” e soste nendo al telefono: “L’abbiamo scritta noi”. E so no proprio le intercettazioni a dimostrare il si stema di pressioni e conoscenze del gruppo Riva negli ambienti politici, sindacali e giornalistici. Fabio Riva scrive una mail a Pier Luigi Bersani – che aveva finanziato nel 2006, per le elezioni, con 98 mila euro – per intervenire sul deputato Pd Roberto della Seta, che remava contro le leggi favorevoli all’Ilva. Nichi Vendola – che i pm pensano di convocare presto in procura come persona informata sui fatti viene considerato, dal gip Patrizia Todisco, il “regista” della “fran tumazione” di Giorgio Assennato, il presidente dell’Arpa sgradito all’Ilva: Vendola smentisce, Assennato assicura di non aver ricevuto pressioni, ma agli atti restano intercettazioni quanto meno imbarazzanti. Non soltanto per i politici, ma anche per i sindacati che, per esempio si premuravano di scrivere ricorsi al Tar favorevoli – di fatto – per l’Ilva.
Cgil e Cisl contro Taranto Futura
L’associazione Taranto Futura aveva proposto un referendum per chiedere la chiusura dello stabilimento o dell’area a caldo. E Archinà, secondo l’accusa, “svolge un’attività finalizzata a scongiurare l’indizione del referendum” coinvolgendo taluni sindacati (Cisl e Cgil) e Confindustria Taranto affinché ricorressero al Tar di Lecce per l’annullamento delle consultazioni popolari”. Nel giugno 2010 Archinà parla con Fabio Riva e gli spiega che i ricorsi sarebbero stati effettivamente presentati, poiché i “colloqui con le organizzazioni” sono “andati a buon fine”. Al telefono, Archinà, ottiene anche il consenso di Daniela Fumarola (Cisl) nell’opera di “frantumazione” di Assennato. E anche la stampa locale inciampa in qualche pessima figura.
“Che mi tieni a fare a me?”
“Il modus operandi di Archinà – scrive il gip – consisteva nel tessere una fitta rete di rapporti, grazie ai quali, riusciva a mantenere tutto sotto coperta”. L’ilva preferisce giornalisti che si allineano come Michele Mascellaro che “attesta la sua professione come al servizio di Archinà” quando gli risponde: “…che mi tieni a fare a me?”.
Legalizzare gli omicidi, l’unica idea del governo
Bruno Tinti
I genitori sanno che si deve essere uniti davanti ai figli. La madre castiga? figlio fa i capricci? Il papà conferma il castigo. Quando il figlio dormirà, cercheranno un accordo. Se invece uno dei due lo proteggerà, vanificando rimproveri e castighi, il bambino crescerà senza educazione e sicuro dell’impunità. Le sue ribellioni saranno sempre più gravi. Da adulto sarà una persona insofferente delle regole, prepotente e aggressivo. Questa banale riflessione, trasportata a livello istituzionale, consente analogie illuminanti. Parlamento e governo fanno le leggi e le fanno rispettare; la magistratura ne sanziona la violazione. Cosa succede se i cittadini violano le leggi e, quando i giudici li puniscono, governo o parlamento dicono che la sanzione non va applicata e che è meglio farsi promettere che, da ora in avanti, si comporteranno bene?
Succede che i cittadini continueranno a violare le leggi, tanto sanno che uno dei genitori, qualsiasi cosa facciano, li proteggerà sempre. Tutto questo sta avvenendo con l’Ilva. Dopo anni di omicidi impuniti, i giudici l’hanno sequestrata con divieto di continuare l’attività. L’Ilva ha disobbedito e ha prodotto una certa quantità di acciaio, perseverando nell’inquinamento ambientale, causa degli omicidi. I giudici hanno sequestrato l’acciaio prodotto perché provento di reato. I proprietari dell’Ilva si sono molto arrabbiati e hanno annunciato che chiuderanno l’azienda, mettendo sul lastrico circa 20 mila persone. Il ministro Clini è intervenuto e ha spiegato che “già giovedì il governo interverrà con un provvedimento che consenta di superare questa situazione, coniugando lavoro e salute con una soluzione ad hoc”. Come tutti sanno benissimo la cosa è impossibile. L’Ilva, se produce, inquina e ammazza. Perché non ammazzi occorre un risanamento che richiede anni di lavoro e molte centinaia di milioni di euro. Ammesso che i soldi siano disponibili (il che non è), non si può comunque produrre fino a che il risanamento non è completato: se lo si fa prima si ammazza.
Quindi, dire che esiste una soluzione è una bugia. Quello che Clini vuole fare, in realtà, è permettere all’Ilva di produrre in cambio della disponibilità a risanare. E anche se tale disponibilità ci fosse (ma non c’è, la proprietà ha promesso e mentito per anni), un provvedimento del genere significherebbe legalizzare gli omicidi che si verificherebbero tra la ripresa della produzione e l’avvenuto risanamento. Clini questa cosa la sa benissimo; ed è per questo che, fino ad ora, una legge che dica sostanzialmente: “L’Ilva può produrre anche se la magistratura dice di no” non ha avuto il coraggio di farla. Ma, siccome è furbo, ha fatto in modo di far capire all’Ilva che lui è il genitore buono e che la magistratura è quello cattivo: piangi e protesta e io cercherò di aiutarti. E perché questa cosa sia creduta non solo dall’Ilva, ma anche dai cittadini, va in giro a raccontare che il provvedimento della magistratura di Taranto “è in conflitto con l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) che è legge, che la strada maestra è applicarla e che, altrimenti, prenderemo provvedimenti”. In conflitto perché? In fondo l’Aia è solo un insieme di prescrizioni che, da sole, non eliminano l’inquinamento e non impediscono gli ammazzamenti. Si applichi e, quando le sue prescrizioni saranno osservate (tutte, nessuna esclusa), allora si potrà riprendere l’attività. Ma Clini dice che il provvedimento della Procura di Taranto “rende molto difficile l’applicazione dell’Aia, dell’unica norma che consente il risanamento ambientale”.
Lo dice ma non spiega perché. Però è molto puntiglioso: “Il compito di stabilire le procedure, le norme tecniche e le prescrizioni per rispettare l’ambiente e per proteggere la salute è delle amministrazioni competenti, in questo caso del Ministero dell’Ambiente”. Insomma la magistratura non rompa le scatole, stabilendo “norme quasi (?) in concorrenza con quelle delle amministrazioni competenti”.
La proprietà, ben lieta di avere un papà così buono e fiducioso (promettete e noi vi faremo riprendere l’attività), aspetta di vedere come va a finire. Potrebbero intervenire i nonni, saggi e giusti. Ma il presidente della Repubblica, agitando la mano, ha detto: “La situazione è troppo complicata per mandare messaggi”.
da Il Fatto
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